martedì 21 dicembre 2010

A perpetua memoria II


Kulturkampf

La devastazione ambientale della Campania operata dalla 'ndrangheta rende bene, a mio modesto avviso, la devastazione culturale operata dalla 'ndrangheta vaticana sul corpo vivo dell'Italia costituzionale: la campania felix dei Romani, la più bella Costituzione del mondo ridotte ad una immensa cloaca di veleni prodotti da una discarica abusiva e fuori controllo. Una specie di Cernobil.

Quelli che seguono sono gli antenati, neppure tanto lontani, della classe di governo che si ostina a non voler lasciarci morire in pace. Perché la grida governativa sugli stati vegetativi è destinata a bollare per un certo periodo storico a venire il periodo berlusconiano che ha fatto vivere la patria dell'Umanesimo e del Rinascimento sotto la cappa del sopradetto inquinamento culturale Vaticano.  Il mio vuole essere un discorso in positivo, perché dimostra che la lotta e resistenza paga; Oggi i sanfedisti possono gridare con la voce chioccia "Englaro assassino e untore", ma non altro. E noi li possiamo mettere alla gogna, tutti i sostenitori di questi ultimi governi. Questa è una destra che si sta decomponendo a vista d'occhio come il ritratto di Dorian Gray. Il bello è che il Vaticano vuole proprio questo tipo di destra e, in questo momento, sta forzando il movimento che gira intorno a Pierferdinando Casini per aggiungersi ai compattatori d'immondizia non trattata che portano il loro carico nella grande discarica d'Italia. Una storia infame, come la colonna che segue:








Hic . vbi . hæc . area . patens . est



svrgebat . olim . tonstrina



 io . iacobi . moræ



qvi . facta . cvm . gvglielmo. platea pvbl . sanit . commissario



et . cvm . aliis . conspiratione



dvm . pestis . atrox . sæviret



lethiferis . vngventis . hvc . et . illvc . aspersis



plvres . ad . diram . mortem . compvlit



Hos . igitvr . ambos . hostes . patriæ . ivdicatos



excelso . in . plavstro



candenti . privs . vellicatos . forcipe



et . dextera . mvlctatos . manv



rota . infringi



rotæqve . intextos . post . horas . sex . ivgvlari



combvri . deinde



ac . ne . qvid . tam . scelestorvm . hominvm reliqvi . sit



pvblicatis . bonis



cineres . in . flvmen . pro iici



senatvs . ivssit



cv ivs . rei . memoria . æterna . vt . sit



hanc . domvm . sceleris . officinam



solo . æqvari



ac . nvnqvam . in postervm . refici



et . erigi . colvmnam



qvæ . vocetvr . infamis



edem ordo mandavit



Procvl . hinc . procvl . ergo



boni . cives



ne . vos . inpoelix . infame . solvm



commacvlet



mdcxxx . kal . avgvsti







È il 21 giugno del 1630, una giornata di pioggia a Milano, dove, nei pressi della contrada della Vetra, Caterina Rosa e Ottavia Boni, due comari affacciate alla finestra già di primo mattino, notano un uomo coperto da un mantello nero con il cappello calato sul viso, camminare rasente una casa strofinando la mano destra contro il muro. Allontanatosi, le due donne si precipitano in strada per controllare i segni che, secondo loro, l’uomo ha lasciato sul muro e vedono, o credono di vedere, delle macchie di colore giallo. È allarme. La parte unta viene subito bruciata e coperta di calce. Il Capitano di giustizia, chiamato sul luogo per esaminarlo, conferma i timori della gente, scorgendo dei segni di unto, nonostante il muro fosse stato prontamente bruciato prima e imbiancato poi.



All’untore vengono presto dati un volto e un nome: si tratta di Guglielmo Piazza, commissario della sanità, che viene subito arrestato con l’accusa di aver sparso dell’unguento pestifero. Interrogato, l’uomo nega di essere coinvolto nell’accaduto, ma, dopo essere stato sottoposto alla tortura della corda (appeso, cioè, ad una fune con le mani legate dietro la schiena e lasciato, poi, cadere di colpo), rasato, purgato e cambiato di abiti, per il timore che potesse nascondere un amuleto in grado di proteggerlo dal dolore delle pene inflittegli, non solo confessa, ma fa anche, o meglio inventa, su promessa di impunità, il nome di un complice.



Lo sfortunato altri non è che il suo barbiere, tal Giangiacomo Mora, a cui proprio pochi giorni prima dell’accaduto, aveva chiesto di mettergli da parte un vasetto di olio curativo contro la peste. Dopo un’attenta perquisizione della sua bottega, che la presenza di alambicchi e fornelli induce gli esaminatori a considerare una vera e propria fabbrica di veleni, il barbiere viene arrestato e interrogato e, dichiaratosi estraneo ai fatti, viene torturato.



Ciò che lo attende è la legatura della canapa, ovvero una matassa con la quale si avvolge una mano e che viene girata fino a slogare il polso, tanto che questi finisce per ripiegarsi sul braccio stesso. Confessa, ma poi, cessato lo strazio, ritratta; sottoposto di nuovo al supplizio, tra grida di dolore e spasimi, ammette ciò che gli esaminatori sostenevano avesse fatto. Questa scena si ripete per giorni, finché il Piazza non fa il nome di una terza persona: Don Giovanni Gaetano Padilla, nobile spagnolo denunciato come l’ideatore del crimine. Al Mora viene chiesto di confermare la responsabilità di quest’ultimo personaggio nei fatti accaduti ed egli acconsente, ormai stremato dai tormenti della tortura (il Padilla fu poi assolto in virtù del suo rango).



Una sentenza del 27 luglio condanna a morte sia il Piazza che il Mora, nonostante le dubbie confessioni dei due, le continue e ripetute smentite del barbiere e l’assenza di una benché minima prova. Entrambi furono caricati su di un carro che li portò, prima, nel luogo che il Piazza aveva infettato, poi, davanti alla bottega del Mora, dove fu tagliata loro la mano destra e rotta l’ossatura; in seguito furono posti sulla ruota, i loro cadaveri bruciati e le ceneri gettate nel fiume. La casa del Mora fu demolita e al suo posto eretta una colonna, detta infame, e una lapide che recava la descrizione dei fatti accaduti, a memoria della giustizia compiuta nei confronti dei due principali imputati dell’epidemia di peste che si diffuse quell’anno a Milano.



La fonte



 




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