lunedì 25 agosto 2003

 

Cuba, Cuba
Global Exchange: Alcuni dati su Cuba
http://www.zmag.org/Italy/cuba-factsheet.htm
   "Siccome l'embargo riduce la possibilità di acquistare materie
     prime agricole, prodotti farmaceutici e tecnologia avanzata per
     l'energia e la produzione industriale, e poiché si sono formati
     circa 35 mila scienziati che ricercano e sviluppano tecnologie
     alternative in oltre 200 istituti scientifici, Cuba ha fatto
     alcuni progressi notevoli nel corso del decennio nel campo dello
     sviluppo sostenibile."

domenica 24 agosto 2003


 


Procuriamoci un telescopio


Marte e la Terra mai tanto vicini:


 la prossima volta sarà nel 2287



 DAL PUNTO di vista astronomico questa torrida estate sarà ricordata come quella della grande opposizione di Marte. La sera del 26 agosto il pianeta rosso ridurrà la sua distanza dalla Terra a soli 56 milioni di chil...


Opposizione. Marte si trova sulla stessa retta della Terra e del Sole; la Terra è nel mezzo.


In mancanza di un telescopio, proviamo sul computer in questo modo o in quest'altro, questa notte.

giovedì 21 agosto 2003

 


Però che goal al 17° del primo tempo dell'amichevole Germania-Italia: Del Piero, Vieri, Totti, Vieri: tutto di prima!

mercoledì 20 agosto 2003

La spada, la croce, la poesia (di Ella Noyes)



 


Ella Noyes e la storia del Casentino


La spada, la croce, la poesia.


“Quando si guarda al Casentino, laggiù in basso, la Valle Chiusa stessa diviene pensiero, memoria. Il passato emerge più vivido del presente ed il corso stesso del fiume diviene il simbolo, l'immagine delle possenti correnti di vita e di passione che un giorno fluirono attraverso la Valle. In giorni di un remoto passato il piccolo spazio circoscritto dai verdi colli, ora così pieno di pace, rinserrò in sé alcune delle più strenue forze della storia d'Italia. La catena di alture irte di castelli, lungo il corso del fiume e le torri di pietra che scrutano dalle balze ogni valle laterale sottostante, rammentano il sistema feudale che in passato dominò l'Italia quando, nel diluvio generale, in cui rimasero sommerse legge ed ordine, dopo la caduta dell'Impero e le successive invasioni del paese, il potere si ritirò sulla cima dei monti e fu impersonato dal braccio armato del barone indipendente.
Il Casentino, tenuto da grandi Conti Palatini, i Guidi che, colla forza delle armi avevano esteso il loro dominio su tutte le vallate più alte dell'Appennino in entrambi i versanti e fino al cuore della Romagna, fu nell'Undicesimo e Dodicesimo secolo la sede di un potere al quale gli ancora deboli e insignificanti comuni confinanti prestavano omaggio ed obbedienza.
Fu questo il periodo in cui la Vallata fu più strettamente collegata con il mondo esterno(1). Il traffico non aveva ancora aperto larghi sentieri o comode strade di transito, ma, a dorso di mulo, scavalcando le colline, gli uomini raggiungevano ugualmente le loro destinazioni. Mercanti e viaggiatori frequentavano le montagne e i villaggi, oggi piccoli e modesti, quasi inaccessibili sulle cime pietrose, che erano allora importanti luoghi di passaggio e sui monti si ergevano numerose e grandi abbazie, ridotte oggi a mucchi di rovine perse nella foresta, sui più alti pendii visitati oggi solo da cacciatori, abbazie che furono un tempo centri di rapporti umani e di attività politiche. La Vallata era probabilmente più popolata allora di oggi: dove il principe aveva la sua sede gli uomini si sentivano sicuri e si riunivano.
Ma i castelli, diroccati e senza tetto, narrano la storia del lento declino e della fine di un ordine, di baroni combattuti e vinti dal potere crescente delle città, di individualismi rovesciati dal risorgere e dal trionfare dei principii sociali delle comunità. Superbi e isolati, ognuno sulla sua collina, questi ruderi sono le desolate reliquie di un ordine delle cose da lungo tempo svanito. I vigneti che rivestono la Piana di Campaldino giù, presso Poppi, ricoprono le tracce della feroce lotta fra Guelfi e Ghibellini che, finita con la vittoria dei Fiorentini sugli Aretini, dette il colpo mortale all'indipendenza dei Guidi ed ai principii che essi rappresentavano.


Ma nei giorni del suo splendore la Valle non fu dominata solo dalla Spada. La Croce sfidava la Spada. Le orme di coloro che predicavano il Vangelo di pace restano ancora sulle montagne. Nascosto fra scuri boschi di abeti, fra i balzi e i precipizi del Gran Giogo, lassù, verso sud-est, c'è Camaldoli col suo Eremo, l'alta sede di San Romualdo e dei suoi seguaci. Lontano, verso ovest, le foreste di Vallombrosa, che San Giovanni Gualberto scelse come sede del suo nuovo Ordine. Ancora, a sud-est, roccia scura sulla cima del monte, proprio nell'occhio del cielo, ecco La Verna, dove San Francesco ricevette le Stimmate, il luogo più santo nella storia religiosa del Medioevo. Queste fortezze del potere spirituale sorgono sui monti, più in alto delle roccaforti dei Guidi. Il piede di quelli che rifuggivano dal mondo, scalando i monti, non si fermò ai picchi più bassi. Scalzi e solitari conquistarono le alture e vi piantarono la Croce. Da quassù essi alzarono le loro voci, all'unisono con le voci della natura, verso la Vallata, chiamando i popoli alla pace e invitandoli a salire e a lodare Iddio. Ed oggi, mentre i castelli si sono sgretolati e la Spada è finalmente sepolta, la Croce rimane il simbolo usuale sulle colline. Essa è piantata sulle cime più alte ed ad ogni svolta dei sentieri montani. Fino a poco tempo fa Camaldoli e Vallombrosa erano ancora grandi monasteri, l'Eremo ha ancora i suoi contemplativi abitanti e la Verna è un prospero centro di attivi Francescani. .
Ma gli ideali dei loro fondatori, veri portatori della Croce, hanno subìto cambiamenti con il tempo. Le folle di seguaci che salirono con essi portarono il mondo con le sue . necessità e le sue cure lassù, dove aveva regnato il solo spirito. Sotto il cielo aperto sorsero templi con i tetti per chiudere fuori le stelle e la Chiesa, sempre all'opera per imprigionare l'idea in una forma materiale, ha creato grandi istituzioni mondane sopra quei puri impulsi dell'anima individuale verso Dio
Oltre al Guerriero ed al Santo, un'altra autorità apparve nella Valle: il Poeta. Questi mirava ad unire gli altri due, a saldare la Spada alla Croce, rappresentati dall'Impero e dal Papato, in istituzioni gemelle, per l'edificazione del tempio di Dio in terra. Subito sotto di noi sono le sorgenti dell'Arno, e da questa zona Dante indirizzò le sue epistole infuocate a Firenze ed all'Imperatore Arrigo VII, ripetendo in una prosa grande per le citazioni della storia classica e sacra, la sua nobile teoria della missione divina dell'Imperatore ed esortando l'uno a sottomettersi e l'altro a venire presto a compiere il suo dovere. Ma la sua voce echeggiò nel deserto. Molto prima di quelle del Guerriero e del Santo, le speranze del Poeta parvero venir meno e perire. Il Tempio del suo sogno non poteva essere edificato in questo modo, e il mondo proseguì ignaro il suo corso, mosso da scopi ignoti al Poeta”.
o.c. pgg 19-35


nota 1: le sorelline Noyes parlano di mercanti e viaggiatori; tra questi ultimi dobbiamo ricordare i pellegrini. Infatti il Casentino, ai tempi di Dante e per tutto il 1300, era il punto di passaggio della Via Romea che portava i pellegrini dalla Germania – e fin dall’Inghilterra – a Roma. Da Forlì e Bagno di Romagna si saliva al valico del monte Serra (1148 m), tra i Mandrioli e la Verna, si attraversava la Vallesanta con Rimbocchi, Giona, Banzena, Sarna, Chitignano, Subbiano e quindi via per Arezzo, Trasimeno, Bolsena, Orvieto, Viterbo, Roma: dovunque borghi, con “spedali” ossia centri di accoglienza, castelli a guardia delle strade, chiese e monasteri; l’agriturismo di quei tempi. Tutto un fervore di vita. Chi scrive ricorda Fra’ Achille, infermiere, dottore, guaritore del santuario della Verna, una farmacia-ospedale mai più vista: l’onore di essere stato medicato da lui per una ferita non così lieve alla testa, per la caduta dal muricciolo della Melosa.
Fra’ Achille era un nome mitico fra i contadini di Vallesanta e per tutto l’Alto Casentino: quanto oggi Gino Strada di Emergency per gli Afgani.
Barbabianca si ricorda pure d’aver mangiato gratis – pasto caldo con pane a volontà - nella foresteria della Verna, negli anni quaranta, immediato dopoguerra,con la mamma, nativa di Vallesanta, insieme agli altri pellegrini saliti a piedi attraverso l’ultima salita della Beccia, che era l’unica strada e che si faceva soltanto a piedi.
Barbabianca ricorda pure il pezzo di pane integrale che il frate portinaio del Convento dei cappuccini di Certomondo distribuiva ogni volta – uno per uno - alla frotta di ragazzi che suonavano il campanello della portineria, anni 40-43. Era pane a tocchi che si mangiava “asciutto” lungo la via di casa, tra una corsa e l’altra.
Nota 2: le sottolineature sono di Barbabianca.

lunedì 18 agosto 2003

La valle del Casentino descritta da Ella Noyes



 


Ella Noyes e la Geografia del Casentino


“A circa venticinque miglia a nord-est di Firenze giace nel cuore dello sterile Appennino una verde e fertile Vallata, nominata Casentino. Qui ha le sue sorgenti l'Arno che vi percorre molte miglia del suo corso iniziale, alimentato nel suo cammino da numerosi ruscelli. La Vallata ha la forma di una grande conchiglia ed è circondata da ogni lato da alte montagne. La Catena principale che la racchiude all'est e al nord è la barriera montagnosa degli Appennini, che ha per contrafforte il lungo giogo del Pratomagno all'ovest, le due dorsali convergono ancora a sud lasciando però una stretta apertura verso il mondo esterno. Questa configurazione è molto singolare e qualcuno ritiene che il nome di Casentino, o Clusentinum in latino, possa derivare dal latino claudere o chiudere in italiano. Se questa teoria fosse esatta, come sembra essere, potremmo tradurre in inglese il nome in Valley Enclosed (Valle Chiusa), designazione appropriata in molti sensi.
Il Monte Falterona, che raggiunge i 6000 piedi sul livello del mare, è la montagna più alta del Casentino e dai suoi fianchi, molto in alto, sgorga l'Amo. Il viaggiatore che voglia capire la posizione della Vallata ed il corso dell' Arno, storico fiume, dovrà salire in cima al Falterona in una giornata chiara e fresca e da lassù potrà contemplare uno dei più vasti e famosi panorami d'Italia. In piedi, dal mucchio di pietre che corona la tanto sudata cima, i vostri occhi potranno spaziare su più della metà della lunghezza della penisola, e sulla sua intera larghezza dal mare occidentale a quello orientale.
Capirete da quassù come da un lato, col sorgere del sole la saggezza dell'antico Oriente abbia toccato questa terra fortunata e dall'altro lato come l'evanescente splendore della sera guidi l'immaginazione delle genti verso le regioni misteriose del futuro e dell'ignoto.
Se si potesse immaginare l'Italia come una nave che solca le acque infinite, allora qui, sul dorso del Falterona dovrebbe sedere il rematore possente, con un remo immerso nell'Adriatico e l'altro nel Tirreno. Entro questi vasti confini si possono scorgere, al nord ed all'est, tante città storiche nella pianura immensa dell'Emilia e della Romagna che si allunga fino alla costa adriatica, all'ovest, al di là delle frastagliate creste dei colli vicini e dei lontani boschi che cingono Vallombrosa, Firenze, che giace lontana fra vallette caliginose, circondate da popolati pendii. A sud-ovest si erge la muraglia del Pratomagno che chiude la vista da quel lato, con la sfumata ed evanescente piramide del Monte Amiata, la sola che si elevi dietro ad esso, e Arezzo giace fra le pieghe delle colline meridionali, nascosta alla vista. Siete al centro del sistema appenninico e le grandi ramificazioni delle montagne si estendono in ogni direzione, prolungandosi lontanissime in forme strane contro il cielo. E proprio sotto, arroccato nel centro, sta il Casentino il più bello e fertile sito in tutto l'Appennino
". ..dov'è si pregno
l'alpestro monte, ond'è tronco Peloro,
che in pochi lochi passa altra quel segno”.
(Purgatorio, c.XIV, vv.30-33).
Il Casentino e la sua storia, di Ella e Dora Noyes, tradotto da Amerigo Citernesi, ed. Frusta, Stia- pgg 19-35


Dove la montagna è così alta che in pochi luoghi raggiunge tale altezza, dalla Liguria ai monti Peloritani, oltre lo stretto di Messina.
Per la cronaca: più alti del Falterona ricordo il Cimone, in provincia di Modena (belle piste da sci!) e il Gran Sasso, in Abruzzo, un altro bel pezzo di geografia italica
.

giovedì 14 agosto 2003

Il sentiero della libertà


 


Il sentiero della libertà.


Mercoledì 13 agosto 2003, visita a Vallucciole, luogo dell’eccidio del 13 aprile 1944.
Barbabianca è in compagnia delle sorelle Ella e Dora Noyes, redivive nelle persone di Paola e Mariella.
Dopo secoli la spada della guerra è ritornata su questa valle: non più lance e balestre, guelfi e ghibellini, Guidi contro Guidi, ma questa volta fucile e mitraglia, fascisti e antifascisti, tedeschi e alleati.
Non siamo ancora fuori dall’età delle caverne.
Tempo al tempo…



Percorriamo la strada Stia – Londa, in direzione Mugello, lungo il corso dell’Arno, qui ancora lattante anche se a tratti irruente per le cascate: Porciano con il castello dantesco ci incombe sulla destra; pochi km ed ecco l’indicazione per S.Maria delle Grazie, una chicca umanistico rinascimentale, sperduta in mezzo al bosco. Pochi km ancora ed siamo al bivio per Vallucciole. Ad accoglierci un bel cartello a colori intitolato: Cartina del rastrellamento tedesco e fascista del 12-23 aprile 1944. A cura del Parco delle Foreste Casentinesi.
La strada è sterrata e piena di buche. Si lascia la Uno Fiat al primo rientro e ci si incammina a piedi: 2,5 km da percorrere, parte in ombra parte al sole. Siamo molto vicini alle sorgenti dell’Arno, proprio sotto il Falterona. Il castagno qui regna sovrano. Ce n’è uno immenso: ha visto tanta storia; era lì anche il 13 aprile 1944, il giorno dell’eccidio.


Camminiamo sotto il sole consapevoli che questo è il sentiero della libertà, come è scritto in tutti i cartelli che via via si incontrano lungo le vecchie strade partigiane, giusta l’affermazione di Pietro Calamandrei:


“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità lì è nata la democrazia, lì è nata la Costituzione italiana”.


Incontriamo per prima la chiesetta-sacrario e leggiamo il cartello commemorativo:



Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi Falterona-Campigna – Sentiero della libertà.


Vallucciole



Questo borgo montano, situato in comune di Stia, poco sopra la strada che da Stia conduce a Londa e a Firenze, il 13 aprile 1944 fu distrutto dai tedeschi della divisione Herman Goering e dai collaborazionisti fascisti. Lo stesso giorno, altri reparti tedeschi seminavano il terrore, uccidendo 29 civili a Partina, 8 a Moscaio, 7 a Castagno d’Andrea e 4 a Badia Prataglia. In esecuzione di ordini impartiti dal comandante supremo delle truppe tedesche in Italia feldmaresciallo Kesserling, l’obiettivo dei tedeschi era di cacciare la popolazione civile dalla zona e costringerla a recidere ogni forma di solidarietà con i gruppi partigiani. A Vallucciole nell’ottobre 1943 si era infatti costituito il primo gruppo partigiano del Casentino.
Nel febbraio-marzo del 1944, in conseguenza dell’emanazione dei bandi della repubblica sociale” che comminavano la pena di morte ai giovani che non si arruolavano nell’esercito fascista, le formazioni partigiane ingrossarono notevolmente i loro effettivi. Esse costituivano una minaccia per i rifornimenti delle truppe tedesche attestate a sud della Linea Gustav, e per i lavori di fortificazione della Linea Gotica. Il 12 aprile 1944 le truppe tedesche iniziarono il rastrellamento della zona compresa fra le strade di Bibbiena-Cesena e Firenze-Faenza. Vi impegnarono una delle migliori e più preparate divisioni, la corazzata Hermann Goering. Quello stesso giorno, a Molin di Bucchio, i partigiani del distaccamento Faliero Pucci, si scontrarono con una pattuglia di tre soldati tedeschi in abiti civili giunti in auto in azione di perlustrazione. Due tedeschi rimasero uccisi.
Il 13 aprile formazioni tedesche e fasciste marciarono verso i casali e le frazioni vicine a Molin di Bucchio, giungendo in breve tempo a Serelli, Vallucciole e Moiano. Ovunque gli uomini validi furono costretti ad uscire dalle case e a portare pesanti cassette di munizioni lungo il sentiero che conduce al Monte Falterona. Chi si fermava esausto venne ucciso lungo il tragitto. I superstiti vennero ricondotti a valle e fucilati in località Giuncheto. Contemporaneante altri reparti tedeschi penetrarono nelle case compiendo ogni forma di violenza contro donne, anziani e bambini, e incendiando Vallucciole e i casolari. 108 furono gli abitanti massacrati: 43 uomini, 43 donne e 22 bambini.
In questi luoghi del sacrificio di contadini, massaie e bambini è nata la democrazia e la Costituzione italiana.
Allegata una vecchia stinta fotografia che fa intravedere una donna anziana riversa su altri cadaveri, con la bocca semiaperta.



Scendiamo di pochi metri e troviamo la frazione, per metà diroccata per metà ristrutturata da alcune famiglie fiorentine (si capisce dall’accento, così come Dante veniva sempre riconosciuto dall’accento). Barbabianca scatta qualche foto con la sua digitale. Appena possibile si potranno vedere sull’Albo on line in fase di costruzione.
Più sotto il vecchio cimitero, un quadrato di terra murato, un cancello di ferro, la catena di chiusura apribile, proprio come tutti gli altri vecchi riposanti cimiteri di campagna. Ma troppo abbandonato: lapidi quasi illeggibili, fotografie stinte, manca l’elenco nominativo dei “caduti” del 43. A Proposito, l’unico superstite – ci dice Mariella – è morto 4 anni fa a Stia: era l’ultimo della fila e un soldato tedesco, non visto dai suoi ufficiali, lo spinse giù per la scarpata, salvandogli la vita. Tutto raccontato dalla nuora, Anna Sperandio, maestra e collega di Mariella.
Si decide di scrivere una lettera al Sindaco di Stia, perché rimedi al più presto a questa situazione di abbandono e trascuratezza.
Il ritorno, veloce, in picchiata lungo il tracciato aperto per i pedoni a traverso la vecchia strada franata non molti anni fa. Ci si ritrova sulla statale, al Mulin di Bucchio, là dove un cartello stradale recita: “Capo d’Arno”.
Barbabianca risale a piedi fino alla macchina e mentre cammina sotto il sole ora cocente rivive le estati del 43 e del 44, 11 anni, zona di Lierna, tedeschi acquartierati a Guzzigli, casa della nonna: gentili e cordiali. Avvertivano: qui si prepara un’altra Cassino, verranno momenti duri e persone cattive…Guzzigli fu fatta saltare con la dinamite: lo zio Santi dentro, salvato in un angolo dal grosso buratto, mobile di castagno o quercia, e da una trave che gli si posò sopra la testa, come un ombrello protettore.
Santi era reduce da Caporetto (1917).
Siamo sempre all’età delle caverne.
Quanti uomini dovranno ancora morire, prima che il cannone cessi di ruggire?
The answer is blowing in the wind.
Quanto dovrà ancora scavare la vecchia talpa della rivoluzione?

martedì 12 agosto 2003

 


E che dire del "cinema sotto le stelle" qui alle Lame, ieri sera, sotto una luna grande e rossa come una enorme rificolona, col venticello che finalmente ti viene a liberare dalla canicola pomeridiana. Stefano, cinefilo e cineasta, ci proietta su grande schermo, Luci della ribalta.


Grande Chaplin.

Raggiolo sotto le stelle



 


Il Casentino tra poesia e storia









Itinerario dantesco



cap. V°


Raggiolo sotto le stelle.


Che piacevole serata – per Barbabianca - il 10 agosto 2003 a Raggiolo, paese di pietra, dalla piazzetta scolpita sui sassi “posticci”, sotto la luna piena, mentre 5 giovani ti rievocano, al ritmo del jazz, le canzoni della giovinezza, al tempo di Rabagliati e del trio Lescano, con la tastiera, il contrabbasso, la batteria, il sassofono contralto, il clarinetto e una voce di fanciulla tanto spontanea e modesta quanto impostata alla perfezione sui ritmi sincopati del swing.
La meraviglia incantata di Franco e Pinuccia per lo spettacolo inaspettato, la gioia dell’incontro con Francesco e Graziella Mori, la rievocazione di vecchi ricordi scolastici con Giovanna Piroci, la voglia di comunicazione di Grazia Grechi.
Sì dolce sì gradita, quand’è com’or la vita?
Visitate Raggiolo, un fondovalle d’incanto proprio sotto il Pratomagno, ai margini del più bel castagneto del Casentino, incubatrice dei funghi porcini più saporiti d’Italia.


Nota: “Vedi quei massi alla base delle antiche costruzioni? – mi sussurra Francesco Mori, indicando le rocce sporgenti dai basamenti tutto intorno alla piazzetta – I contadini li chiamano sassi “posticci”, nel senso che sopra di essi si pongono le fondamenta delle case”.
Dunque tutt’altro che posticci!



Così vedeva Raggiolo Ella Noyes cento anni fa:


Ad ovest di Bibbiena nell'alta valle del Teggina, uno degli affluenti dell'Amo, giacciono Ortignano e Raggiolo, un tempo posti fortificati, che conobbero più di un cambiamento di padrone e furono i campi di feroci battaglie. Mala valle, con i suoi campi silenziosi, i suoi ripidi boschi di querce e castagni, oggi parla soltanto di pace. C'è un'ottima strada per andarvi,di cui i valligiani sono incredibilmente fieri. Chiesi, una volta, ad una vecchia la via per Raggiolo e mi sentii rispondere che potevo andare dove volevo, poiché la via era ottima in tutte le direzioni, notizia per lei molto più importante che indicarmi la via per la mia destinazione. Questo perché questa è una terra in cui i percorsi della vita, sono fatti più per sostarvi e goderseli che per essere puri mezzi di transito, dove correre verso un qualche fine!
Passando attraverso San Piera Frassino (sic!), con l'alta cresta di Uzzano a sinistra, per primo si scorge Ortignano, posato in cima ad una collina, con alle spalle il grande muro del Pratomagno. Una ripida stradina si arrampica, fra i sassi, fino al villaggio, dove non c'è niente di interessante. La pieve è una costruzione moderna e la cosiddetta, Madonna quattrocentesca che vi si trova non ha pregi particolari; può forse essere la copia di un antico maestro. Ortignano fu un tempo uno dei domini dei Vescovi di Arezzo e più tardi appartenne ai monaci di Camaldoli. Nel Tredicesimo e nei primi anni del Quattordicesimo secolo era caduta in mano ai Conti Guidi di Bagno, che non temevano l'ira di Dio ed erano soliti derubare i loro vicini. Guido Novello II, nipote del famoso omonimo, sembra sia stato l'ultimo della sua Casata a governare o malgovernare Ortignano. Gli successero gli Ubertini ed i Tarlati, a tempi alterni, fmché, nel 1349 gli abitanti, stanchi di passare da un oppressore ad un altro, furono con facilità persuasi da Firenze a sottomettersi alla Repubblica.
Nel fianco della montagna, sopra Ortignano, si trova l'antica Badia a Tega, un tempo Abbazia di Selvamonda,grande convento nell'epoca in cui il Casentino era più frequentato. Fu abbandonata dai monaci nel 1422 ed ora è del tutto sperduta e dimenticata fra quei boschi, da cui forse trasse il nome.
Raggiolo è circa a due miglia da Ortignano, risalendo il Teggina. La strada prosegue ripida, con ampi giri attorno ai contrafforti dei colli, che si stringono ai lati della valle, sempre più angusta. Gli alti monti impediscono alla luce del sole di penetrare nel fondo valle, man mano che si sale, calano ripidi, ammantati di fitti boschi, fino al letto sassoso del torrente, nel profondo burrone. Ad un tratto la valletta si allarga e Raggiolo vi sta davanti: un mucchi etto di case ai piedi del possente Pratomagno. La strada scende fino al livello del torrente, si scopre così che il villaggio sorge su di una piccola altura, che sporge dal fianco della montagna.
Dal ponte la vista del paesino è veramente pittoresca: proporzionato e dignitoso sul suo cucuzzolo, le casette allineate tra i boschi scoscesi, bagnato ai suoi piedi da due argentei torrenti, che vengono giù, ai suoi lati, dai recessi caliginosi del Pratomagno, per confluire ai piedi della piccola altura.
Raggiolo, sebbene così nascosto fra le montagne, signore solo dei suoi pascoli sassosi e dei suoi b9schi, fu oggetto di lunghe contese fra i feudatari del Medioevo. Era un luogo adattissimo per nascondervi i prigionieri fino a che il mondo non li avesse dimenticati. Guido Novello II, che possedette Raggiolo e Ortignano, tenne più di un infelice incatenato nelle segrete della sua torre sulla montagna, poi, in punto di morte, lasciò detto ai suoi eredi di riparare, seppur tardivamente, alle sue prepotenze. Destinò anche del denaro per fondare a Raggiolo una chiesa ed uno spedaletto per i pellegrini e per i malati, forse in espiazione di oscuri misfatti perpetrati nel villaggio.
Anni dopo, quei nobili predoni dei Tarlati, Pier Saccone e suo figli Marco, dopo aver invaso tutti i monti di queste parti del Casentino, si impossessarono di Raggiolo; nel 1356, il Conte Roberto di Poppi, le cui terre erano state guastate e saccheggiate dai Tarlati, radunato un esercito, penetrò nella valle e pose l'assedio a Raggiolo. Per nulla scoraggiato dalle nevi invernali e da una tardiva e fredda primavera, Roberto fece costruire delle piccole capanne per i suoi arcieri ed assaltò il castello con tanta ostinazione che ridusse alla disperazione i difensori. Ma, quando già pregustava il piacere della vendetta, Firenze, usando la consueta, sottile politica di proteggere il più debole dei contendenti in faide di questo tipo, si mise in mezzo alla contesa e costrinse il riluttante Cont_ a mollare la preda. Il conflitto finì, come si poteva facilmente prevedere, con la successiva cacciata dei Tarlati per opera di Firenze e con il passaggio del feudo conteso sotto il suo dominio.
La viuzza lastricata, che conduce al villaggio, è ripida e stretta com'era nei tempi antichi, quando !'inaccessibilità era il requisito più importante di questo luogo. Si passa fra arcigne case di pietra, con scuri passaggi a volta e bui interni; e si raggiunge la cima dopo infinite curve a gomito. n villaggio è di grandezza considerevole ed i resti delle spesse mura del castello si possono scorgere dalla strada, stretta e squallida. Sopra l'antico portale della chiesa è scolpito lo stemma dell' Arte della Lana di Firenze: l'Agnello con lo stendardo. Da ciò si può supporre che la famosa corporazione abbia esteso la sua protezione ed il suo patronato su questa chiesa fondata dal Conte Guido Novello, dopo che Raggiolo era stato sottomesso alla Repubblica. Dentro alla chiesa non c'è niente di interessante. Oltre il villaggio ricominciano i castagneti, che salgono su per le falde della montagna, verso la cima. Seduti sulla grande, muschiosa radice di un vecchio albero, canuto di muffa, guardiamo indietro, al di là delle case, la lunga i strada che abbiamo percorso, sino a dove la valle si apre sul piano e, più lontano, alle irreali colline azzurre, fino al Sasso della Verna, che si libra su di esse. Ai piedi di questo colle, scendiamo sulle sponde del torrente: ci sono dei prati verdissimi, orlati di pioppi, freschi e silenziosi rifugi per riposare in un giorno d'estate. In inverno potete sostare qui, sedervi su di un masso abbandonato dalla piena e tiepido di sole e lasciare che la mente si liberi dalla tristezza dell'inverno. Gli alti e nodosi tronchi degli alberi sono grigi e spogli sopra la corrente argentea, un pallido sole sorride sopra di essi, sui massi, sui ciuffi morti dell'erica, sull'erba scolorita e sulle querce color ruggine, arse dal gelo. Di fra le piante giunge la voce di una ragazza, nascosta alla vista, che canta una canzone monotona, mentre guarda le sue pecore. E' tanto, tanto tempo che Roberto e i suoi arcieri hanno cessato di disturbare e, da allora a Raggiolo ogni giorno è stato uguale all'altro, senza cambiamenti, eccetto quel lento pulsare, che impercettibilmente riempie il piccolo cimitero e rinnova le facce nei secolari abituri.


Ella e Dora Noyes, Il Casentino e la sua storia, Frusta ed. Stia 2001, pgg.261-265.


Traduzione di Amerigo Citernesi.

Lettere a Giulia - di Giampiero Taverna



 


Un libro da leggere


Ho finito di leggere un bel libretto scritto da un Signore che capita di incontrare alla Coop di Bibbiena in questi giorni: un’amica, che ci ha imprestato il libro, ci racconta dell’autore che abita solo in una casa in mezzo al bosco qui nello stesso comune di Ortignano. La figliolina Giulia che abita a Praga è la destinataria delle lettere del padre.
E’ un libro da leggere perché fa capire la musica a tutti, bambini e non più bambini. E mentre lo leggi ti senti cullato da un sottofondo musicale malinconicamente sereno e tanto affettuoso.
Nelle lettere è citato Guido Monaco, cioè Guido d’Arezzo, cioè Guido di Talla, un paesino a due passi da Ortignano. Sempre Casentino è…


Eccone un estratto, con citazioni sparse.


Casale di Lastri, 17-10-99


Carissima bambina mia,
quello che sto per raccontarti, una "Storia della musica" molto veloce e a grandi linee, non lo troverai nelle varie Storie della musica che sono state pubblicate; perché io vedo il passato anche il più remoto con gli occhi (dovrei dire orecchi") di uno che ha dedicato tutto il suo lavoro alla musica contemporanea, cioè la musica che si scrive ai nostri giorni, e quindi ha superato tutti gli schemi formali, che per tanti secoli la musica è stata costretta a rispettare.
Per me la musica è sempre esistita! Ancor prima della comparsa dell'uomo sulla terra. Alla luce dell'evoluzione del linguaggio musicale (di cui ti parlerò in seguito) si può tranquillamente dire che molti animali si esprimono con dei "suoni": non parliamo degli uccelli perché questo è fin troppo evidente; ma anche, per esempio, i delfini comunicano con dei suoni e così tutti i primati; li avrai sentiti allo zoo oppure alla televisione. Hanno una gamma vastissima di suoni che oltre tutto variano a secondo l'umore: hanno persino un "rullo di timpani" quando si battono il torace e che, guarda caso, vuoI esprimere rabbia e furore (come spessissimo fanno anche i timpani in orchestra). Sono sicuro che anche l'uomo primitivo modulava i suoi grugniti a secondo di quello che voleva esprimere. D'altronde anche un bambino che chiama ripetutamente una mamma distratta, varia in molti modi il suo richiamo "mamma!" e i vari modi possono essere già tradotti in veri e propri suoni:
……………….
La musica degli antichi Greci e dei Latini (soprattutto scritta per cerimonie religiose) era costituita da segni, chiamati "neumi", posti sulle parole del testo che indicavano il salire o scendere della melodia, quasi impossibili a decifrare per chi non avesse conosciuto già quella melodia.
Eccoti un esempio di musica scritta in quel modo che risale al secolo 900:
…………………..
Fu il monaco Guido d'Arezzo a mettere un po' di ordine verso il 1100! Notò che in un canto molto conosciuto all'epoca, ogni strofa cominciava con una nota ascendente nell'ordine: ut (=do), re, mi, fa, sol, la. Eccotelo:


ut queant laxis resonare fibris mira gestorum famuli tuorum
solve polluti labii reatum, Sancte Joannes


E questo canto veniva insegnato ai fanciulli, come scrive lo stesso Guido d'Arezzo, in modo che lo sapessero bene a memoria e potessero così intonare ogni inizio di strofa con la sillaba corrispondente: ecco svelato il mistero perché le note si chiamano così.
Poi restava da mettere a posto il ritmo così che non dipendesse solo dal testo; ma ci vollero altri secoli se pensi che nel 1504 la musica si scriveva ancora così:
…………….
(inizio dell'Harmonice Musices Odhecaton, una raccolta di musiche di vari compositori dell' epoca fatta da un musicista - editore che si chiamava Petrucci).
Mi accorgo ora che questa letterina è diventata una letterona lunghissima. Ti lascio riposare con tanti , baci e poi riprenderemo il discorso, babbo.


Casale di Lastri, 21-10-99


Carissima Giulia,
mi accorgo ora di essermi dilungato molto sull'argomento della nascita della musica. Ma in compenso ora saresti in grado di poter scrivere una melodia tu stessa: per esempio prendi un testo come: «Evviva, evviva, che bella giornata!»: gli accenti di questo (chiamiamolo pure) testo suggeriscono un ritmo di tre+tre+tre+tre e cioè evvìva, evvìva, che bèlla giornàta: potresti allora metterci delle note: per esempio
…………………
Questa si chiama scrittura moderna: anche in questo esempio, se levi il testo, ti resta una melodia che suggerisce un senso di contentezza e di piacere. Però levando il testo c'è assoluto bisogno di scrivere le battute…
le battute (ti ho già spiegato il significato di questo termine) perché se io scrivessi così:
…………………..
la melodia acquisterebbe tutto un altro aspetto e sarebbe impossibile rimetterci quel testo! Dovresti adoperare un testo nel quale gli accenti siano quattro+quattro+quattro. Per esempio:
……………………………..
(che sarebbe bello lo stesso, ma tutta un'altra cosa).


Tutto questo per farti capire che quando nei secoli si è sviluppata la musica per soli strumenti c'è stato bisogno di trovare un punto di riferimento per poter suonare insieme: e così è nata la scrittura moderna organizzata in battute uguali per tutti. Molti musicisti hanno scritto libri sull'argomento, ma si è dovuto aspettare il 1600 e i primi anni del 1700 per trovare una teoria che mettesse tutti d'accordo: cioè quella della divisione dei valori delle note secondo lo schema che ti ho scritto già nella seconda lettera.


Poi c'è stato anche il problema della cosiddetta "tonalità": cioè che tutti gli strumenti, oltre a suonare insieme, suonassero tutti note, anche diverse tra loro, ma tutte appartenenti alla stessa tonalità per non creare delle stonature tra uno strumento e gli altri. Anche questo prohlema è stato risolto molto lentamente nei secoli 1500, 1600 e 1700. Finalmente c'è voluto Johann Sebastian Bach, il più grande musicista di tutta la storia secondo me, a mettere ordine definitivamente. Negli anni intorno al 1722 egli raccolse in un volume dodici preludi con relative "fughe" (il termine te lo spiegherò forse in seguito) ognuno dei quali era scritto in una delle dodici tonalità (ambito armonico come ti dicevo) possibili sul clavicembalo considerando definitivamente la divisione dell' ottava dal do al do superiore in dodici intervalli: do, do#, re, re#, mi, fa, fa#, sol, sol#, la, la#, si, do. Nel 1740 raccolse altri dodici preludi e fuga: così abbiamo avuto quel gran tesoro che Bach chiamò Clavicembalo ben temperato (cioè ben accordato). Pensa che sembra (almeno così vuole la leggenda) che abbia scritto il primo volume addirittura senza avere un clavicembalo a disposizione: così a tavolino, come io sto scrivendo questa lettera. Che chiudo qui con tanti baci,
babbo.Un libro da leggere


Da Giampiero Taverna, Lettere a Giulia per capire la musica, Simonelli ed. Mi 2001, euro 15,50.

domenica 10 agosto 2003

Lucia Poli a Borgo alla Collina


 


Lucia Poli a Borgo alla Collina.


Sabato 9 Agosto, a Borgo alla Collina, ho rivisto Lucia Poli. Con Paola ricordavamo la spassosa novella di Alibech, Boccaccio, da lei raccontaci alla Limonaia di Villa Strozzi, a Firenze, una sera di alcuni anni fa.
Questa sera ci delizierà con 5 racconti brevi di Patricia Smith, della quale non sappiamo niente, ci fidiamo di Lucia. Alle 10 di sera l’aria è tiepida, il cielo sereno, in queste nottate incantate sotto le stelle che seguono a giornate accaldate sotto il sole implacabile di questa estate 2003.
L’ultimo racconto fa parte, ci dice la locandina, della raccolta “Catastrofi più o meno naturali” edit. Bompiani. Varrebbe la pena citarne una parte, ma non le ho ancora scovate on line: si tratta di un papa che fa una visita pastorale in Messico, si frattura il pollicione di un piede, prende un anestetico che lo rende piuttosto tranquillo. Ma il dolore che sente alla ferita quando ci sbatte duramene il pastorale d’oro massiccio nel momento culminante dell’impatto con la folla messicana, lo mette in sintonia col dolore e l’angoscia di quelle masse emarginate, sfruttate, massacrate, e da papa si trasforma in un prete della teologia della liberazione: la ribellione contro lo sfruttamento è un diritto, la programmazione delle nascite un dovere e via predicando. La Curia Romana entra in fibrillazione, i Servizi sempre meno segreti, si preparano a far fronte all’improvvisa “catastrofe più o meno naturale”, il papa rifiuta il salvacondotto in Florida per il necessario riposo “custodito”, insiste per atterrare a Bogotà, come da programma; viene così a trovarsi coinvolto in una rivolta campesina e, com’è come non è, cade vittima della prima pallottola vagante della polizia schierata a sua “difesa”.
Sempre brava Lucia, come attrice-regista e come persona!
Brava anche Patricia Highsmith, nata in Texas(!) 1921, morta a Locarno 1995.


venerdì 8 agosto 2003

La battaglia di Campaldino vista da Canaccini


 


Il Casentino tra poesia e storia


 









Itinerario dantesco



Seconda Appendice al cap. IV°



La battaglia di Campaldino vista da Canaccini


Gli aretini radunarono un poderoso esercito per fronteggiare il nemico, ma pur coinvolgendo numerosi alleati in uno sforzo enorme, non riuscirono ad eguagliare lo schieramento guelfo per quella che doveva essere la battaglia decisiva. I Ghibellini disponevano in campo di circa 8000 fanti,di cui pochi armati con balestre ed archi, e di 800 cavalieri, troppo pochi per fronteggiare la cavalleria pesante guelfa.
L'11 giugno di quell’anno segnò una battuta d’arresto nella vita della comunità aretina. Una pausa segnata dal sangue, dalla morte di oltre 1700 uomini, dalla distruzione del contado, dei villaggi,dalla morte di tutti i Capitani della città e della sua guida spirituale, il suo Vescovo.
Già ai tempi della battaglia, l’evento dovette generate una serie di episodi che esaltavano o denigravano fatti d'arme e personaggi. Nacquero così, come sempre accade, eroi e vigliacchi.
Il nostro Buonconte che probabilmente ad Arezzo aveva lasciato la sua Giovanna e la sua figlioletta si dice che prima dello scontro sia andato ad esaminare, su consiglio del Vescovo, lo schieramento avversario. Tornato con pessime notizie, sconsigliò l’attacco, ma di tutta risposta forse miope ma non vile, gli rispose che non era degno di portare il nome della sua nobile casata. Al che Buonconte replicò che dalla pugna nessuno dei due sarebbe uscito vivo.
E così accadde.
Dinanzi allo schieramento ghibellino si sistemarono dodici valenti uomini d’arme, che si facevano chiamare li paladini. La scelta cadde tra le famiglie più nobili ma non si fa menzione diretta di alcuno. Non possiamo far altro che elencare alcune di quelle nobili casate che persero i loro figli in quell'afoso sabato di giugno: i Pazzi del Valdarno, i Montefeltro, gli Ubertini, i Fifanti, gli Uberti,i Grifoni e gli Abati, i conti da Gangalandi e gli Scolari.
Buonconte da Montefeltro era tra i feditori, cavalieri destinati a sfondare con un urto violentissimo la schiera dei Guelfi. Lo seguivano suo fratello Loccio e le sue truppe appiedate, tutti sotto l’insegna dello stendardo a bande azzurro e oro. Accanto a Buonconte, sempre tra i feditori, doveva trovarsi il suo amico Guglielmo de’ Pazzi, vincitori assieme alle Giostre al Toppo appena un anno prima. Dopo aver gridato tutti "San Donato cavaliere!" i 600 cavalieri ghibellini si gettarono al galoppo contro il nemico, sfondando la prima linea di cavalleria. Dietro, a corsa, seguivano gli 8000 fanti. La battaglia fu aspra e dura, ma decisive furono le due ali di palvesari guelfi armati di lancia lunga e balestre che rovesciarono sul nemico un tale carico di ferraglia da chiuderlo ben presto in una stretta mortale. Tutti i cavalieri si trovarono accerchiati e la loro forza d’urto ormai esaurita.


A questo punto il conte Guido Novello sarebbe dovuto intervenire con le sue riserve. Ma non si decise e la viltà prevalse sul valore, spingendolo a spronare il suo cavallo verso il castello di Poppi. Da lì assistette impotente alla disfatta degli Aretini di cui era Podestà.
Nella piana frattanto la battaglia infuriava e Corso Donati, che era stato nominato Capitano delle riserve lucchesi e pistoiesi, rovinò su un fianco dell’esercito ghibellino facendone strage.
La battaglia dei Ghibellini era perduta. Molti dei vessilliferi erano già stati uccisi e anche i paladini annientati.
E Buonconte?
Il giovane, strenuissimus Bonuscomes, impegnato sin dall’inizio nello scontro delle prime file era uno dei personaggi più in vista dello schieramento ghibellino e sarà stato di certo mira di numerosissimi attacchi sia da parte della cavalleria che da parte dei balestrieri che avranno riconosciuto la sua divisa. I Capitani guelfi avranno probabilmente indicato i comandanti avversari descrivendo l’arme del Vescovo, di Buonconte, di Guglielmino de’ Pazzi. Fatto sta che del corpo di Buonconte nulla si seppe al termine dello scontro. L’impietoso ufficio del riconoscimento dei caduti, da parte di congiunti o amici, contrastava con quello che poche ore prima si era consumato, quando "i villani non aveano pietà e gli ammazavano" ( Cronaca di Dino compagni).
Sulla fine del montefeltrano pesa, è inutile dirlo, il racconto che Dante ha intessuto nel V dei Purgatorio.
Numerose sono sorte le ipotesi attorno a questo struggente episodio. È probabile che all’indomani dello scontro, non sapendo più nulla di un capitano così in vista, siano nate delle leggende attorno alla figura di Buonconte; così come dovettero nascere attorno alla piana lugubre di Campaldino. evitata per anni, ricoperta da ossa e popolata fino ai giorni nostri da spettri.
Tutto il racconto sulla morte di Buonconte è però frutto dell’immaginario poetico di Dante. Sia lo Zingarelli che il Papini avanzarono addirittura che fosse stato lo stesso Dante ad aver ucciso Buonconte, ma nulla c’è a riprova di tale fantasiosa ipotesi. Interessante è invece quella proposta dal Vivaldi, il quale sottolinea come forse Buonconte, scampato alla strage, avesse tentato di salvare il proprio drappello spingendosi verso la vicina Bibbiena, per poi proseguire verso Arezzo o la stessa Montefeltro, come ipotizza il Franceschini. Ed è qui che nei pressi della ghibellina Bibbiena, ai suoi piedi scorre l’Archian rubesto, furono forse raggiunti dai Fiorentini e qui dovette accendersi un ulteriore scontro.
Comunque sia, il giovane montefeltrano trovò la morte in Casentino insieme a molti altri, illustri e non. E come tanti non ebbe probabilmente sepoltura.


(Federico Canaccini, Gli eroi di Campaldino, 11 giugno 1289 Scramasax ed.pgg 33,34)


Dopo la battaglia l'esercito fiorentino assediò Bibbiena, devastò le campagne e arrivò sino ad Arezzo, dove si esibì in sceneggiate di sfottimento fuori delle mura, ma senza tentare di espugnarla.

giovedì 7 agosto 2003

La battaglia di Campaldino vista da Barbabianca

La battaglia di Campaldino vista da Barbabianca




Il Casentino tra poesia e storia


 Itinerario dantesco


Appendice al cap. IV


 



 12000 fiorentini contro 8000 aretini. Battaglia avvenuta seguendo le regole: il guanto di sfida lanciato dal vescovo aretino fu portato il giorno prima al campo dei fiorentini che confermarono lo scontro per il giorno dopo.


L’11 giugno era una giornata ovviamente calda, con il cielo parzialmente coperto di nuvole. La sera prima, il Consiglio dei capitani di guerra fiorentini aveva stabilito la tattica da seguire: aspettare da fermi l’urto della cavalleria aretina e procedere poi al contrattacco.


Immaginiamo 800 cavalli via via lanciati al galoppo, lì tra Certomondo e l’Arno contro il muro dei cavalieri e palvesari, mentre da una parte Corso Donati con i pistoiesi si tiene pronto all’intervento di emergenza in appoggio ai fiorentini; lo stesso, da parte Aretina, dovrebbe fare Guido Novello, Signore di Poppi e Podestà di Arezzo. Dante, a cavallo, è tra quelli che ricevono l’urto e l’urlo dei nemici; componente della cavalleria leggera, forse si è trovato leggermente defilato dal centro dello scontro e non è finito disarcionato come tanti cavalieri posti al centro dello schieramento; e neppure è finito colpito da un’asta o trafitto da una balestra: se l’è cavata con molta paura (“temenza molta” come lui confessa) e la Divina Commedia è salva. Le balestre erano un’arma relativamente nuova, proibita dalle convenzioni internazionali del tempo, voglio dire dalle autorità della chiesa, perché capaci di trapassare a morte le corazze più potenti che resistevano almeno in parte alle spade e alle lance.


I fiorentini avevano più balestrieri degli aretini, la cui fanteria leggera era composta anche da contadini armati di accette e forconi (dio mio che mattatoio). Sta di fatto che 800 cavalli, una volta fermi e circondati da nemici ben disposti e armati, sono quasi un peso morto se immediatamente i 8000 fanti al seguito non prendono il sopravvento sullo schieramento nemico. E’ questione di minuti. Ma i fiorentini, che hanno rinculato al centro, reggono ai lati con parte dei cavalieri e tutti i palvesari, hanno lance lunghe e balestre ultimo modello. E poi c’è quel pazzoide di Corso Donati che, anche senza ordini, si butta nella mischia al momento giusto. Guido Novello, pendant di Corso Donati per la parte aretina, se la fa sotto e invece di dar manforte alla fanteria, scappa come un ladro tra le braccia della mamma, dentro al suo Castello di Poppi, troppo vicino e facile da raggiungere per lui. Così sugli aretini una trappola che si chiude, un mattatoio si apre. I700 ammazzati, 2000 imprigionati. Un po’ come era successo all’esercito romano di Lucio Emilio Paolo e Terenzio Marrone a Canne, in Puglia, quando ancora non era nato Cristo: la fanteria pesante – gli opliti – che sfondano al centro contro i tunisini di Annibale e rimangono poi intrappolati, presi ai lati dalla cavalleria libica e algerina, voglio dire dai Numidi di Massinissa, che mettono in fuga i cavalieri romani e danno tempo ai “marocchini” di tagliare a fette 40.000 (quarantamila) italici.


Così va il mondo.


Apro una parentesi: al tempo dell’Orlando Furioso gli scontri facevano meno morti. La battaglia serviva ad affermare la superiorità dell’uno o dell’altro; raggiunto lo scopo le spade riposavano. Per risparmiare il proprio sangue, i cavalieri antiqui, davano molta importanza al cerimoniale che poteva comprendere anche la semplificazione di uno scontro a 3 contro 3 (Oriazi e Curiazi), oppure a 12 contro 12 (disfida di Barletta). Lupo non mangia lupo, nobile non mangia nobile. Ma a Campaldino i mercanti di ricchezza recente e nobiltà comprata non si fanno scrupolo di eliminare per sempre dalla faccia della terra il cavaliere loro avversario e residuato storico: differenza fra scontro feudale e scontro comunale. I borghesi combattono per uccidere e per vincere, alla svelta. La guerra non è una professione, tanto meno un gioco con cerimoniale, combattuto tra fratelli d’arme: deve durare poco e permettere il ritorno veloce agli affari, proprio come in questo momento ci spiegano Bush e Blair (scusate).


Dante ha certo in mente queste scene di premiata macelleria quando, per esempio, descrive i dannati nella nona bolgia, cerchio ottavo, dei seminatori di scismi e di discordie (inferno c.28).


Dopo la battaglia l'esercito fiorentino assediò Bibbiena, devastò le campagne e arrivò sino ad Arezzo, dove si esibì in sceneggiate di sfottimento fuori delle mura, ma senza tentare di espugnarla.


Da qui i primi versi del XXII canto dell'Inferno, scritti a commento della celebre pernacchia di Barbariccia (ultimo verso del Canto XXI):


lo vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane, 
fedir torneamenti e correr giostra; 
quando con trombe, e quando con campane, 
con tamburi e con cenni di castella, 
e con cose nostrali e con istrane; 
né già con sì diversa cennamella 
cavalier vidi muover né pedoni, 
né nave a segno di terra o di stella. 
Note –


Stormo=sturm=assalto


Gualdane=scorrerie


Esempio di sfottimento: catapultato dentro le mura di Arezzo un somaro con la mitria in capo.

mercoledì 6 agosto 2003

La battaglia di Campaldino vista dalle sorelle Noyes









 


Il Casentino tra poesia e storia


 







Itinerario dantesco


 





cap. quarto



La battaglia di Campaldino



The battle of Campaldino



as seen by Ella Noyes




Noyes, Ella. The Casentino and Its Story. ill. Dora Noyes. London, New York: E. P.


Dutton & Co, 1905


Pgg.113-118



As you near the town by the high road from Pratovecchio you pass by the old



Franciscan church and monastery of Certomondo.


The church and monastery, which is now suppressed, were founded for the Friars Minor



by Guido Novello and Simone di Battifolle in 1262 in thanksgiving for the Ghibelline



victory of Montaperti, and were by a strange coincidence destined to be the scene of



a battle in which the fortunes of Montaperti were completely reversed. For the



peacefulleve1 of vineyards and fie1ds which stretches round Certomondo, beneath the



walls of Poppi, is one of the graveyards of history. It is the famous fie1d of



Campaldino, where Guelfs and Ghibellines met in deadly combat on June 11th, the day



of St. Barnabas, 1289. The story of this great .day has been related at length by



the FIorentine chroniclers. A great host of Florentines and armed men from the allied cities of Tuscany, commanded by Messer Amerigo di Narbona, had descended into the



Valley over the mountain of the Consuma, and had laid waste all the lands of Count



Guido Novello, then Podestà of Arezzo. Hearing of their coming, the valiant Bishop



of Arezzo, Guglielmino degli Ubertini, had gathered together his forces, and



supported by the Guidi, and by Buonconte da Montefeltro and the flower of the



Ghibelline chivalry of Italy, had come forth to meet them. On coming into sight of



each other beneath Poppi both armies drew up in order of battle, with the feditori



(those appointed to make the first attack) ranged in the front rank. These chosen



warriors were led on the FIorentine side by Messer Vieri de' Cerchi, who with his



sons and kinsmen had elected to occupy this post of danger; and numbered among them



was the young Dante Alighieri, as he himself relates in a letter cited by his



biographer Leonardo Bruni. The Aretini, 'who numbered only 800 horsemen to the 1600



of the opposing army, and 8000 foot soldiers against 10,000, nevertheless laughed



their plebeian foes to scorn, and their feditori rushed upon the Guelf host with



such; impetuosity that in the shock most of the FIorentine horsemen were unseated,



and their whole army recoiled. But recovering themselves they stood firm again and a



fierce struggle followed. The FIorentine' arrows rained upon the adventurous Aretini



land the air grew dark with clouds of dust, and great numbers were slain in the



melée. Many that day who were esteemed to be of great prowess did cowardly, and


many of whom none spoke won great repute," says the chronicler Dino Compagni. Corso



Donati, at the head of a band which he had held in reserve, felI upon the flank of



the Ghibellines, who began to give way. Seeing this, Guido Novello, who had kept



aloof from the strife, vilely abandoned his allies, and belying all his great



repute for va16ur, fled with his people into his castle of Poppi,and there, in base



inaction, awaited his inevitable fate. And in the end the Aretini were completely



routed by the greater numbers of their


enemy, and put to flight and slain. Bishop Guglielmino, who according to Villani had



been plotting against his own friends and knew that his life was


. not safe from their vengeance if he survived, put spurs to his horse, and rushing



into the thickest crowd of the foe, fell by the hand of a common soldier. His body



is said to have been laid in a wayside chapel, from which it was uprooted later by



the vindictive order of Florence, and was carried away by the pious friars of



Certomondo in the secrecy of the night to bury within their precincts.


More famous is the fate of Buonconte da Montefeltro, the splendid young



Ghibelline chief who lay at the time of the battle under the papal curse. He fled



from the field with a mortaI hurt and was never seen again. But the mystery of his



end dwelt in the mind of one present on that day, and in the Antepurgatorio of his



Vision the poet finds the lost warrior again among the late repentant who have died



in contumacy against the Church. Unsped by the prayer of wife or kin, he is wearing


out the thirty times multiplied length of the years which he spent rebellious on


earth before he is admitted to purgation. Thus he reveals himself and tells his tale


to Dante:



'' I was of Montefeltro, I am Buonconte; Giovanna, or any other, hath no care for


me; wherefore I go among these, with downcast brow."


And I to him: "What violence or what chance made thee stray so far from Campaldino,


that thy burial-place ne'er was known?



" Oh," answered he, "at Casentino's foot a stream crosses, which is named Archiano,


and rises in the Apennines above the Hermitage.



There where its name is lost, did I. arrive, pierced in the throat,


flying on foot, and bloodying the plain.


There lost I vision, and ended my words upon the name of Mary ;


and there fell I, and my flesh alone was left.


I will speak sooth, and do thou re-speak it among the living: the


angel of God rook me and one from Hell cried: 'O thou from Heaven, wherefore robbest thou me?


Thou bearest hence the eternal part of this man, for one little tear


that snatches him from me; but with the other will I deal in other fashion.'


Thou knowest how in the air that damp vapour gathers, which


turns again to water soon as it ascends where the cold condenses it.


He united that evil will, which seeks ill only, with intellect, and stirred the mist and wind by the power which his nature gave.



Then when day was spent, he covered the valley from Pratomagno to the great mountain chain with mist, and the sky above


made lowering.


So that the saturated air was turned to water: the rain fell, and to the water-rills carne what of it the earth endured not ;



And as it united into great torrents, so swiftly it rushed towards the royal stream, that naught held it back.



My frozen body at its mouth the raging Archian found, and swept it into the Arno, and loosed the cross on my breast,



Which I made of me when pain o'ercame me: it rolled me along its banks and over its bed, then covered and wrapped me with its spoils."-



(Purgatorio, C. v., vv. 88-135, TempIe C!assics Ed.)



These verses remain the most poignant and most enduring memorial of Campaldino;



rounding the awful human tragedy of the day with the terror of the mountains and the



floods-with the overwhelming power of those mysteriously moved- forces of Nature



amid which his little torch of faith is man's only safety. And the littleness of it



in time, the quick recurrence of the green springing years bringing ,new hope and



life to those left behind on earth, is told in' that saddest word of the forgotten



spirit: "Giovanna, o altri, non ha di me cura."





Il Casentino e la sua storia, Fruska ed.


pgg 121-125




Quando ci si avvicina alla città, per la strada maestra che viene da Pratovecchio,



si passa a fianco della vecchia chiesa francescana ed al convento di Certomondo.


La chiesa ed il monastero, ora soppresso, furono fondati da Guido Novello e da



Simone di Battifolle nel 1262, per i Frati Minori, in ringraziamento per la vittoria



dei Ghibellini a Montaperti, ed erano, per una strana coincidenza, destinati a



divenire la scena della battaglia in cui le sorti di Montaperti furono completamente



rovesciate: la pacifica estensione di campi e vIgneti che si allarga intorno a



Certomondo, fin sotto le mura di Poppi, è infatti uno dei cimiteri della Storia. E'



la famosa Piana di Campaldino dove i Guelfi e i Ghibellini si scontrarono in un



combattimento mortale 1'11 giugno, giorno di San Barnaba, del 1289. La storia di



questo gran giorno è stata narrata dettagliatamente dai cronisti fiorentini. Un



grande esercito di Fiorentini ed altri armati delle città della Toscana alleate a



Firenze, comandati da Messer Amerigo di Narbona, erano calati nella Vallata



attraverso i monti della Consuma ed avevano devastato tutte le terre del Conte Guido



Novello, allora Podestà di Arezzo. Saputo della loro venuta, il valoroso Vescovo di



Arezzo, Guglielmino degli Ubertini, aveva radunato le sue forze e, sostenuto dal



Conte Guidi, da Buonconte da Montefeltro e dal fiore della cavalleria ghibellina



d'Italia, s'era mosso per incontrarli. I due eserciti, avvistatisi sotto Poppi, si



schierarono in ordine di battaglia con i {editori (le truppe di primo assalto)



disposti in prima linea. Questi combattenti scelti erano per i Fiorentini, al



comando di Messer Vieri de' Cerchi che, con i suoi figli e parenti, aveva scelta la



posizione di maggior pericolo; fra i feditori Fiorentini si trovava il giovane Dante



Alighieri, come egli stesso racconta in una lettera citata dal suo biografo Leonardo



Bruni. Gli Aretini, disponevano di solo 800 cavalieri, contro i 1600 del nemico e di



8000 fanti contro 10000, nonostante ciò si dettero ad insultare e a deridere i



nemici, i loro feditori si gettarono con tale impeto sullo schieramento guelfo che



nell'urto molti cavalieri fiorentini furono disarcionati e l'intero esercito



indietreggiò. I Guelfi si ripresero e fecero fronte ai Ghibellini. Si accese una



lotta feroce: le frecce fiorentine grandinavano sugli intrepidi aretini, l'aria si



fece scura per le nuvole di polvere e un gran numero di combattenti rimase ucciso



nella mischia. "Molti quel dì, che erano stimati di gran prodezza, furono vili, e



molti di cui non si parlava, furono stimati", dice il cronista Dino Compagni. Corso



Donati, alla testa di un gruppo, che aveva tenuto di riserva, piombò sul fianco dei



Ghibellini, che cominciarono a cedere. Vedendo quello che accadeva Guido Novello,



che si era tenuto fuori dalla mischia, abbandonò vilmente i suoi alleati e,



smentendo la sua fama di valoroso, fuggì con i suoi dentro il castello di Poppi e



qui, da inetto, attese il suo inevitabile destino. Alla fine gli Aretini furono



completamente disfatti dal soverchio numero dei nemici, messi in fuga e sterminati.



Il Vescovo Guglielmino, che, secondo il Villani, aveva complottato contro i suoi



stessi amici e che temeva la loro vendetta se fosse sopravvissuto, diè di sprone al



suo cavallo, si gettò dov'era più fitto il '!I nemico e fu ucciso da un fante



fiorentino. Si dice che il suo corpo fu sotterrato in una cappella lungo la strada,


da dove fu dissepolto per ordine della vendicativa Firenze, ma poi, con il favore


delle tenebre, fu portato via dai frati di Certomondo, che lo seppellirono entro il


recinto del convento. Più famosa è la fine di Buonconte da Montefeltro, lo splendido


giovane capo ghibellino, che era sotto l'anatema papale al tempo della battaglia.


Fuggì dal campo, mortalmente ferito, e non fu più visto. Ma il mistero della sua


fine rimase nella memoria di uno che era presente quel giorno e nell'Antipurgatorio


della sua Visione incontrerà ancora il guerriero disperso, fra i pentiti in punto


di morte e in disobbedienza colla Chiesa.



Senza il suffragio delle preghiere della


moglie e dei parenti, dovrà attendere un numero di anni trenta volte superiore a


quello che spese in disobbedienza alla Chiesa, prima di èssere ammesso al


Purgatorio. Così egli si svela a Dante e gli narra di sè:



" lo fui di Montefeltro, io son Buonconte ;


Giovanna, o altri, non ha di me cura:


per ch' io vo tra costor con bassa fronte."



Ed io a lui:." Qual forza o qual ventura


ti traviò sì fuor di Campaldino


che non si seppe mai tua sepoltura?"



" Oh," rispos' egli, "a piè del Casentino


traversa un' acqua che ha nome 1'Archiano,


che sopra l'Ermo nasce in Apennino.



Dove il vocabol suo diventa vano


arriva' io forato nella gola,


fuggendo a piede e sanguinando il piano.



Quivi perdei la vista, e la parola


nel nome di Maria finii; e quivi


caddi, e rimase la mia carne sola.



lo dirò il vero, e tu il ridi' tra i vivi;


l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno gridava:


' O tu del ciel, perchè mi privi?



Tu te ne porti di costui l'eterno


per una lagrimetta che il mi toglie;


ma io farò dell' altro altro governo.'



Ben sai come nell' aere si raccoglie


quell' umido vapor, che in acqua riede


tosto che sale dove il freddo il coglie.



Giunse quel mal voler, che pur mal chiede,


con l'intelletto, e mosse il fummo e il vento


per la virtù, che sua natura diede.



Indi la valle, come il dì fu spento,


da Pratomagno al gran giogo coperse


di nebbia, e il ciel di sopra fece intento



sì che il pregno aere in acqua si converse:


la pioggia cadde, ed ai fossati venne


di lei 'ciò che la terra non sofferse



e come a' rivi grandi si convenne


ver’ lo fiume real tanto veloce


si ruinò, che nulla la ritenne.



Lo corpo mio gelato in su la foce


trovò l' Archian rubesto e quel sospinse


nell' Arno, e sciolse al mio petto la croce,



ch' io fei di me quando il dolor mi vinse;


voltommi per le ripe e per lo fondo,


poi di sua preda mi coperse e cinse."



(Purgatorio, C. v., vv. 88-135, TempIe C!assics Ed)



Questi versi restano la più intensa e duratura memoria di Campaldino. Alla terribile



tragedia umana di quel giorno fanno corona il terrore delle montagne e la piena dei



fiumi, con la irresistibile potenza delle forze della Natura, mosse misteriosamente,



in mezzo alle quali l'unica salvezza dell'uomo è la piccola torcia della sua fede.



Come tutto ciò sia poca cosa nello scorrere del tempo, come il ripido succedersi


degli anni giovanili porti nuove speranze e nuova vita a coloro che sono rimasti



sulla terra, è detto con queste tristi parole dello spirito dimenticato: Giovanna, o altri, non ha di me cura.