mercoledì 31 agosto 2005

Calendario laico



E' nata oggi

Fu la prima donna in Italia a conseguire la laurea in medicina; dopo gli studi universitari si dedicò alla cura dei bambini con problemi psichici, convincendosi che con il trattamento educativo otteneva maggiori risultati che con l'uso di cure mediche tradizionali. Nel 1906 fondò la Casa dei bambini ed iniziò l'attività educativa, destinata ai figli delle famiglie operaie del quartiere di san Lorenzo a Roma.

Ostile al fascismo lasciò l'Italia nel 1936 e seguì il fiorire delle scuole montessoriane in varie parti del mondo. Il momento decisivo dell'evoluzione intellettuale della Montessori è dato dalla consapevolezza che il metodo applicato su persone sub normali, aveva effetti stimolanti maggiori se applicato anche per l'educazione di bambini normali.


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NB. Preghiamo la nostra santa perché venga applicato il suo metodo ai tre bambini Berlusca, Blair e Bush.  Anche a Benedetto (aggiunta di Paola).

lunedì 29 agosto 2005


premi sull'immagine.




ho notato un signore


Qualche settimana fa a Firenze a margine di uno di quegli incontri (orrore!) sui blog ai quali mi capita talvolta di essere invitato ho notato un signore di una certa età. Dico “certa età” per non dire proprio anziano. Ascoltava me che parlavo e Sanfilippo che cantava e scattava qualche foto con una piccola digitale. Se ne stava per gli affari propri. Ho scoperto qulche giorno dopo, vedendo le sue foto sul web che si trattava di un blogger. Queste persone sono la metafora semplice semplice di un mondo che cambia. Vogliamo davvero minimizzare? Quindicenni ed anziani, studenti e raffinati intellettuali, giornalisti e casalinghe. Anche qualche imbecille, come è ovvio. Contrapponete chi vi pare, mescolateli ed accomunateli nella semplicità di chi “dice cose su internet dentro una pagina web”. Ma non provate a trarne un giudizio, perche’ non è possibile farlo. Chiunque ci provi, a suo modo, mente.


Grazie, Mantellini 

Calendario laico



John LOCKE è nato oggi.


RELIGIONE E TOLLERANZA


I grandi rivolgimenti politici che interessano l' Inghilterra del 1600 sono intrinsecamente connessi a complesse lotte di religione . Per questo motivo il problema della tolleranza religiosa riveste nel pensiero di Locke un' importanza analoga a quella presentata dai suoi interessamenti politici . In tema di tolleranza egli arriva infatti ad elaborare formulazioni teoriche che avranno una grande influenza sul pensiero successivo , contribuendo in maniera determinante a formare una sensibilità culturale che caratterizzerà gran parte dell' illuminismo e che costituisce tutt' oggi uno dei capisaldi della mentalità e della cultura occidentale . La posizione di Locke sulla tolleranza non é stata comunque sempre la stessa . Nei primi scritti dedicati al problema , risalenti agli anni 1661 -1662 e rimasti inediti , egli rivela più ostilità che favore nei confronti di un atteggiamento permissivo da parte dello Stato nelle questioni religiose . La religione , fa notare Locke , si sviluppa nell' ambito della coscienza interiore , per cui i suoi aspetti esteriori , quelli relativi alla dimensione chiesistica e cultuale , non hanno in essa un' incidenza sostanziale . Il magistrato può dunque intervenire nella loro determinazione senza per questo condizionare la vita religiosa del fedele . Sull' interesse per la tolleranza prevale dunque ancora in questi scritti la preoccupazione , di derivazione hobbesiana , per l' ordine pubblico , che sembra poter essere garantito solamente attraverso il controllo della Chiesa da parte dello Stato . Ben diversa é la posizione assunta da Locke nel Saggio sulla tolleranza del 1667 . Qui viene esplicitamente affermato che esistono alcune sfere di pensiero e di azione in cui l' individuo non deve subire alcuna limitazione da parte dello Stato , visto che esse non hanno alcun effetto sulla vita politica e sociale della nazione . Tra queste egli colloca le opinioni filosofiche e il culto divino . La piena giustificazione di questa posizione si ha tuttavia soltanto nell' Epistola sulla tolleranza del 1689 , che é diventata un termine di riferimento imprescindibile per i fautori della tolleranza dei secoli successivi . La modernità di questo scritto consiste nell' aver sancito la nettissima separazione tra Chiesa e Stato per quanto riguarda le finalità , le funzioni e i poteri che ad essi rispettivamente competono . Lo Stato é un' associazione di individui che ha come scopo la tutela del diritto naturale alla vita , alla libertà e alla proprietà . Esso non può dunque intervenire con la costrizione ( che gli compete essenzialmente ) in questioni che , come quelle religiose , non hanno alcuna attinenza con la difesa di quei diritti , a meno che esse non comportino pratiche nocive per la salute sociale o l' integrità dello Stato stesso . Per questo Locke esclude dal diritto alla tolleranza due categorie : i cattolici o , come allora si usava dire , i papisti , perchè obbediscono a un' autorità politico-religiosa che é a sua volta intollerante , e gli atei , poichè non esistendo per essi alcunchè di sacro , non possono dare garanzia alcuna sui patti e sui giuramenti che assicurano la coesione dello Stato e l' armonia della società . Questa duplice esclusione non é certo da poco , ma può essere compresa tenendo conto delle particolari condizioni storico-politiche in cui Locke vive . La Chiesa é invece un' associazione intesa a procurare ai propri membri la salvezza dell' anima , la qual cosa , dipendendo esclusivamente dalle convinzioni interiori del credente , non può in nessun modo essere indotta con la forza . Il sacerdote non può richiedere l' intervento del magistrato per realizzare con la coazione ciò che non riesce a ottenere con le armi della parola e della convinzione . La Chiesa può legittimamente espellere dal proprio seno mediante la scomunica coloro che non condividono i dogmi e i riti che essa propone come mezzi di salvezza : ma lo scomunicato non deve assolutamente perdere i diritti civili di cui gode come membro dello Stato .


 La difesa lockiana della tolleranza trova infine il proprio completamento nello scritto sulla Ragionevolezza del cristianesimo del 1695 , dove essa é riconsiderata alla luce del più vasto problema del rapporto rapporto tra religione e ragione . Ridotto alla sua struttura essenziale , il cristianesimo si limita alla fede nell' esistenza di Dio , al riconoscimento della funzione salvifica del Cristo come Messia , e alla predicazione di alcuni insegnamenti morali fondamentali . Considerata sotto questa luce , la religione cristiana non solo non appare contraria alla ragione , ma rivela la sua intrinseca ragionevolezza poichè non fa che rivestire con la forza della Rivelazione contenuti etico-religiosi cui tutti potrebbero accedere con il solo ausilio della ragione . Locke pone così le basi di quella tendenza a ricondurre la religione ai suoi fondamenti razionali che prende il nome di deismo . Tuttavia egli é ben lontano dalla radicalizzazione dei deisti posteriori ( tanto frequenti nell' illuminismo ) che rifiutavano ogni forma di religione positiva ( ossia fondata sulla Rivelazione e sulla Scrittura ) contrapponendo ad essa una religione puramente razionale o naturale sulle orme del razionalismo con cui Aristotele concepiva la divinità . Razionalità e rivelazione vanno per Locke di pari passo nella religione cristiana . Ma proprio per questo l' adesione ai singoli credi o ai singoli riti delle varie sette cristiane non può essere viziata dal fanatismo di chi crede essere , egli solo , nella verità , ma deve essere animata dallo spirito di tolleranza di chi si affida alla forza dell' argomentazione razionale . E anche in questa cultura della tolleranza si esprime la ragionevolezza del cristianesimo , se si tiene conto che per Locke la ragione non é lo strumento per attingere la verità assoluta , ma piuttosto quello per rimuovere gli ostacoli per l' avvicinamento a una verità sempre circoscritta dai limiti costitutivi dell' uomo . E il fanatismo é sicuramente uno di quegli ostacoli


Trovato qui

venerdì 26 agosto 2005

Sandor Màrai III

Uno dei primi giorni della nostra presenza a Budapest ci siamo trovati a tavola in 10 persone: noi quattro italiani, Adam, i genitori di Adam, Anna, sorella di Adam, con il fidanzato più un amico del fidanzato, un finlandese. Il padre parlava tedesco e russo, Adam francese e inglese, la sorella masticava un po’ di italiano (15 giorni di presenza alla mostra del libro di Torino). Considerando il finnico, Adam osservò sorridendo: a questa tavola si parlano sette lingue.

Nei giorni seguenti Franco, il nostro prof. Di storia contemporanea,  scorrendo le pagine di “Terra Terra” di Màrai mi faceva osservare le pagine riportate qui sotto per dirmi: in effetti gli Ungheresi, siccome sono solo 10 milioni e parlano una lingua incomprensibile a tutti gli altri, sono stati obbligati ad aprirsi agli altri linguaggi, in uno sforzo di comprensione che li ha educati a socializzare con tutti.  Per questo, aggiungeva Paola, a Budapest uno si sente a casa propria anche se non si capisce una sola parola del loro linguaggio. 

 
           Leggiamo Marai:

Credo che tra gli scrittori europei lettori più assidui sia­no sempre stati gli ungheresi. La lettura era per, i nostri scrittori una prova di diligenza perfino più importante dello scrivere, poiché la lingua ungherese non era anco­ra penetrata così profondamente tra le pieghe del sapere letterario come era accaduto al tedesco, all'italiano e al francese. Queste lingue europee avevano ricevuto un nutrimento continuo dalle lingue delle zone confinanti, dal germanico, dal latino, dallo slavo... La lingua ungherese .non si era depositata da nessuna parte: per mille anni le sue parole erano state necessariamente modellate su vo­caboli presi a prestito, spesso estranei al suo spirito. Il poeta ungherese, se indagava a fondo nella propria co­scienza, non sempre trovava espressioni pertinenti, con­cetti sensibili ai nuovi fenomeni: come se la lingua so­gnasse, rimasta indietro di alcuni secoli.


Anche gli scrittori ungheresi del XX secolo leggevano con avida curiosità, come chi ha un compito indifferibi­le: dovevano rimediare alle carenze di mille anni di soli­tudine e di silenzio, a quella soffocante mancanza d'aria rappresentata dalla penuria di parole - troppo poche ne avevano per raccontare a se stessi il Grande Segreto, l'« Ungherese »" e le scoperte della « cultura»... Per gli al­tri popoli i concetti della «cultura» si erano formati si­multaneamente, le idee affluivano in continuazione nei grandi territori linguistici, si mescolavano, si sedimenta­vano. La lingua ungherese rimase povera di parole. Dico­no che Shakespeare disponesse di trentamila parole... di quante parole potevano disporre Balassa, Pazmany o Zrìnyi? Per questo quando gli scrittori ungheresi scrive­vano - in ogni epoca, gli scrittori della Guardia quanto i poeti che componevano nei caffè di Budapest, Csokonai nel fumo soffocante della pipa come Zoltan Somly6 in quello amaro della sigaretta - contrabbandavano nell'a­nemica, scheletrica lingua nutrimento straniero, a volte in modo irriconoscibile, a volte velando saporitamente la parola forestiera. Ma era troppo poco. Perché non si trattava solo di proteggere, concimare, ripulire la bellissima e solitaria lingua ungherese, ma di alimentare il suo anemico metabolismo spirituale con le sollecitazioni delle lingue straniere. (L'unica sua parentela al mondo è coi la lingua finlandese, ma nessuno capiva più questo «parente» ad eccezione dei linguisti ugro-finnici). Bisogna_ dare vitamine alla lingua ungherese, che ancora, dopo un millennio di esercizio linguistico europeo, era assetata di nutrimento straniero. Se uno scrittore ceco, mentre componeva, abbisognava di una parola, poteva attingere con noncuranza alla tasca del vicino russo, polacco o a qualche dialetto slavo meridionale e subito trovava ciò che gli serviva. Ma lo scrittore ungherese a chi poteva chiedere un prestito?

...
Le tribù ungheresi che portarono le radici della lingua, partendo dalle paludose zone della Lebedia, oltrepassarono i Carpazi e lentamente penetrarono nelle valli del Danubio e del Tibisco: avevano con sé poche parole e non sapevano leggere. Quando  iniziarono la loro calata attraverso foreste vergini e strade impervie, altri popoli - i Greci, i Cinesi, gli Indù - avevano ormai accumulato una tale quantità di letture che la loro mente era impregnata di parole. I Magiari invece - così affermano i linguisti - erano ancora allo stadio di «antichi selvaggi ». Avevano pochi vocaboli per raccontare all'Europa tutto quello che provavano e pensavano. Non potevano intendersi con coloro che già avevano molti vocaboli - per quanto usati, strapazzati -  non potevano «scambiarsi idee ». Per l'idea ci vuole la parola, senza la parola non c'è scambio, giusto un brulichio nella coscienza, come formiche sulla pelle. E i loro numeri arrivavano solo a quattro o a cinque, le dita di una mano..  Non avevano fretta di forgiare parole, come non ne ave­!vano di occupare un territorio per edificare una patria: erano privi di carte geografiche e senza una meta precisa. Non cercavano una «patria», ma pascoli. 

  Sono stati i poeti che più tardi fecero di quei pascoli una patria: Sono sempre i .poeti quelli che trasformano in patria i pascoli. Ha ragione Ezra Pound quando di­chiara che nella poesia si avvera tutto ciò che i popoli desiderano. Ad esempio Kosztolanyi descrive una sua visita a Benedek Virag, che sempre qui nei dintorni, in un tugurio ammuffito, scriveva «con la penna d'oca canzoni fiorite». Una mattina Kosztolanyi -libero dai concetti di spazio e tempo, che non esistono per lo spirito come non esistono nel vuoto per gli astronauti - lascia il quartiere Krisztina per recarsi a trovare il Santo Vecchio. Gli legge alcune sue poesie e l'anziano poeta «aveva lodato il pote­re della poesia e gli aveva fatto dono di una mela». Nessuno mai in Ungheria regalava niente ai poeti, che al massimo si donavano a vicenda una mela. 

 K
osztolanyi e con lui Virag e ogni altro poeta unghere­se sapevano di avere una sola patria, schiacciata tra slavi e germani: la lingua ungherese. In ogni tempo tutto il re­sto era stato nebbioso, vago e mutevole: i confini, la popolazione. La lingua rimaneva, come un diamante. E bi­sognava sfaccettarla di continuo perché sprigionasse il suo bagliore. ( Terra Terra già citato 111 – 112

  Che cosa avevo conosciuto in quegli anni, tra le due guerre mondiali? La risposta mi stordì con la forza del tanfo di muffa che si sprigiona di un cassetto aperto casualmente: solo menzogna – questo ho conosciuto fra le due guerre in Europa. Poiché violenza e pietà, eroismo e vigliaccheria, crudeltà e pazienza ci sono sempre stati... Ma la menzogna non era mai stata una forza creatrice di storia come in quegli anni.      


In Europa la si avvertiva regolarmente, sistematicamente, untuosa e inappuntabile: dalla stampa e dalla radio, dall'editoria e dai nuovi mezzi di comunicazione, da ogni tipo di foglio stampato, dalla spazzatura di carta con la quale veniva riempita la mente dell'uomo occidentale... da tutto evaporava la menzogna, come il fumo.velenoso dell'autocombustione dal mucchio di letame. In questo secolo l'Occidente ha mentito a se stesso e al mondo. Ha mentito sempre: tutti dicevano «patria», le strombazzavano intorno con qualche rauco festeggiamento - ed era solo menzogna, perché le conventicole che possedevano le patrie vedevano in esse solo possibilità di investimento. Dicevano «religione» e mentivano, perché con una bella facciata nascondevano un'illusione ormai demitizzata. Dicevano «arte» e mentivano, perché non esigevano dall'artista immagini la cui forza si riflet­tesse sulla vita, frutto dell'energia creatrice, ma prodotti di massa, robetta commerciale o politica da comprare e rivendere: Parlavano di diritti umani, e hanno tollerato che tutti i sistemi più umilianti per l'uomo diventassero potenti. L'Occidente ha mentito con la parola sonante e la parola stampata: ha mentito persino con la musica, rimpiazzando l'armonia e la melodia con isterici miagolii da strapazzo. L'Occidente, quello che nella fossa della guerra ricordavo come un samaritano salvifico, aveva mentito. Cosa potevamo aspettare noi ungheresi da que­sto Occidente infettato dalla menzogna? Aiuto e solida­rietà no di certo. Per noi - come individui e come collet­tività - l'unico aiuto poteva essere il tempo.


Sì, l'acquavite francese è eccellente. Mette in moto.una calda ondata di sangue, dilata i vasi capillari e sulla sua spinta il sangue che pompa l'ossigeno, nutrimento della ­coscienza, arriva più velocemente al cervello. Dov' era il mio posto? Nell'Occidente bruciato, obnubilato dalla menzogna? O in Ungheria? Cosa mi aspettava a casa? La “ patria”? ... Non avevo voglia di fare scommesse né di in­gannarmi. Non credevo nella «patria» che mi aspettava.


Ma ci sono dei momenti in cui - silenziosamente - una ri­sposta, un messaggio arrivano a noi. Era uno di quei momenti. E la risposta arrivò silenziosa come due decenni prima nella stessa situazione. Dovevo tornare in Unghe­ria  dove non mi aspettava nessuno, né «ruolo» né «vocazione », ma quello che per me ha rappresentato l'unico si­gnificato della vita: la lingua ungherese.


Perché la lingua ungherese e la sua espressione più elevata, la letteratura, sono state le uniche cose che mi abbiano veramente, profondamente, totalmente interes­sato - sia da giovane sia con i capelli brizzolati, dopo due guerre mondiali. Questa lingua capita da dieci milioni di persone su miliardi di uomini. Una letteratura raccolta In una lingua che nonostante gli sforzi eroici di intere ge­nerazioni non ha mai potuto parlare al mondo nella sua realtà autentica. Ma questa lingua e questa letteratura per me erano il vero valore della vita, perché riesco a di­ re quello che voglio dire solo in questa lingua. (E solo in questa lingua riesco a tacere quello che voglio tacere).


Perché sono me stesso solo quando e fin quando posso esprimere ciò che penso, ad esempio il rendermi conto la notte dellO febbraio del 1947 che per me non c'era più la «patria», soltanto la lingua ungherese. Ecco per­ ché dovevo tornare in Ungheria al più presto. Vivere là e aspettare di poter scrivere liberamente. « Scrivere». Di che cosa? I libri che avrei riportato dal viaggio in Occidente dicevano in toni diversi, ma con lo stesso significato, un «no» a tutto quello che c'era stato e tutto quello che c'era... Ma cos'era il «sì»? Una crociata contro il bol­scevismo? Ma è di nuovo un «no», una negazione, l'as­senza di qualcosa. «Democrazia cristiana»? La democra­zia non ha religione né confessione. «Socialismo umanistico»?.. Appena ne fanno un sistema il socialismo non può più essere umano, perché ogni sistema è disumano. 

 
Di che cosa scriverò io «liberamente», mi chiedevo, quando a casa si potrà di nuovo scrivere?..       

Come vent'anni prima mi guardai attorno nella veranda del Dome, e picchiando il bicchierino sul tavolino di ferro chiamai il cameriere, perché di colpo sentivo un 'urgente necessità di pagare e di mettermi in cammino - il treno parte la mattina presto... per dove? Per la lingua ungherese. Mi affrettai verso l'albergo - fare i bagagli, di gran carriera, e la mattina andare subito alla Gare de l'Est per non perdere il treno che mi avrebbe riportato nella lingua ungherese. Mentre il taxi correva verso l'albergo, nella notte parigina udivo una voce domandarmi impaziente: quando parte il treno per l’Oriente? (Più tardi avrei ripreso questa frase in un mio diario di viaggio).


Il treno partì in orario. E lentamente, sbuffando e sobbalzando, attraversò la gelida, misera Europa. Durante il viaggio ebbi tempo per fare un bilancio: che cosa portavo nella mia casa orientale dai giorni in  Occidente? Il «no»  ostinato e cocciuto della letteratura che lo ripeteva sia a destra sia a sinistra. Ma avrei voluto portare qualcos'altro dal mio errare: qualcosa che fosse una «risposta» dell'Occidente all'Oriente. Il treno era mal riscaldato, si fermava spesso, sostando a lungo nelle stazioni coperte dalla la neve.   


Sul confine segnato dal ponte sull'Enns, ai margini della zona di occupazione, un militare sovietico entrò nello scompartimento e chiese i passaporti. E lì, sulla linea che divideva l'Europa in due, un soldato rosso, addobbato come per una parata, esaminò a uno a uno i viaggiatori - te­tro, severo, ma cortese. Guardò il mio passaporto, studiò la  faccia dell'uomo sulla fotografia e la mia, confrontandole.


Poi senza urla parola ma con garbo mi restituì il documento, alzò la mano alla visiera, salutò, chiuse la porta dietro di sé e se ne andò. Lo seguii con lo sguardo e pensai che era un nemico. Aveva commesso  tanti orrori in Ungheria e poteva darsi che in futuro ci avrebbe portato altre crudeltà.


Ma una cosa è certa, pensavo: il soldato russo forse uccide, deruba me, l'ungherese, ma non mi disprezza. (Fino a po­co prima, in Occidente, con molta gentilezza eppure in qualche modo io, l'orientale, ero stato sempre disprezza­to. Per lui sono un nemico occidentale da mandare in ro­vina, ma non da disprezzare. Non valeva molto, come re­galo di viaggio, ma era pur sempre qualcosa.




.. Soltanto in ungherese capisci le parole «ti amo».


Farfalla, cigno, stella, angelo mio


in questa lingua solo sono più che concetti


un «di più» che ora è il tuo destino mortale.


Il mondo splende, non ti aspetta nessuno


perché con stolta irruenza galoppi verso casa?


La lingua ti chiama e in lei parla il destino


fa' che la balia non aspetti invano a braccia aperte...


  Non aspettò invano: al mio arrivo a casa mi attendeva la notizia della «congiura».


Fu uno strano arrivo. Quando, nel febbraio del 1947, in una sera di freddo agghiacciante di fine inverno, scesi alla stazione di Budapest - stavano già rimettendo le ve­trate sulla struttura di ferro a volta! ""', sentii con sollievo che era stato giusto tornare a casa: il mio posto era lì. Do­vevo tentare di formulare (a me stesso) la parola «sì» in ungherese con i metodi imperfetti e i modesti mezzi di uno scrittore - la risposta a quello che era maturato nel tempo sotto forma di domanda. Cosa poteva essere que­sto «sì»?.. Era stato più un sentire che un sapere, quan­do avevo pensato: eppure è qualcosa che si può ancora chiamare «umanesimo». (E lo sentivo con ridicola ur­genza). Prima, naturalmente, volevo fare un bagno e cambiarmi d'abito. Chiamai un taxi - già ne circolavano a Budapest!, - e andai a Buda, in quell'abitazione di for­tuna nella quale avevo trovato rifugio dopo l'assedio. ( Marai, Terra Terra pag. 244-247)


 


 

 



 


 

giovedì 25 agosto 2005

Sandor Marai II


Il sole di Posillipo

Non vedevo che ordine, dappertutto. C'era un ordine accurato, in Svizzera. Qui in Europa i treni circolavano in perfetta puntualità, secondo l'ordine stabilito.  Ma dopo un paio di settimane andavo e venivo per le strade di Zurigo in piena crisi di nervi. L'albergo era ben riscaldato, ma nulla mi scaldava internamente. Pensai di interrompere il viaggio e tornare prima del previsto nella gelida Budapest occupata, che vegetava nella miseria. Rimasi, invece, consolandomi al pensiero che per me l'Europa non era solo l' umanesimo - che non esisteva più - era tutto quello il cui ricordo mi balenava nella mente pur attraverso la nebbia della paralisi bellica: la passione consapevole, ad esempio. C'è stata un'Europa appassionata, quella dei tempi in cui gli uomini volevano non solo conoscere, ma anche entusiasmarsi. Entusiasmarsi per che cosa? Per le illusioni - per un Dio. O per l'amore, perché in esso vedevano l'energia creatrice. O per l'armonia erotica della bellezza e della proporzione. E cosa cercavano? Non solo la verità, ma anche un'avventura, nobile e leggera, animata dalla passione, perché cercava­no la cultura e senza passione non c'è cultura. L'avven­tura che diventa arte o tragedia. L'apice dello spirito e i pensieri concepiti con scintillio cristallino. Le città d'arte, invecchiate in armonia ed equilibrio, in cui vivevano uomini che nelle case volevano non solo abitare, ma an­che vivere; che non reputavano il concime artificiale im­portante quanto il contrappunto e non quotavano il ge­nio in borsa, come il bue da macello quando il prezzo della carne sale, ma lo misuravano in base alla capacità di opporsi che esso sa magicamente evocare. In una parola - e che parola potente! - c'era un'altra Europa. Bisogna­va cercarla, dicevo a me stesso per farmi coraggio. E allo­ra lasciai la Svizzera riscaldata e neutrale per la disordi­nata, sconfitta Italia.

 Il treno arrivò alla frontiera italiana dopo la mezzanot­te e ci volle tempo perché i funzionari lo lasciassero pro­seguire. Tutti erano sospetti allora - i treni, i passeggeri, il bagaglio. Ma il doganiere svizzero fu cortesemente su­perficiale nel guardare nello scompartimento, come se sentisse che «stare fuori» da qualcosa poteva essere un atto eroico ma anche un' onta. Non ti vergognare di star­ ne fuori, pensai mentre costui richiudeva la porta. Vi so­no dei traumi, degli sforzi che portano l'uomo più avan­ti, più in alto: l'amena Svizzera, chiusa tra le montagne, in cui la gente aveva sempre vissuto in condizioni di asfissia storica e claustrofobia morale, non era arrivata «più in alto», ma era rimasta indenne, quella che era. E alla fine rimanere se stessi è altrettanto eroico quanto cercare affannosamente la verità. Esistono cause che si possono vincere solo ad alto livello, e questa piccola isola d'Europa durante gli ultimi secoli aveva cercato di farlo con caparbietà e coerenza. Non ti vergognare di starne fuori, borbottavo tra me e me con grande convinzione mentre seguivo con lo sguardo il doganiere, è sufficiente che mi vergogni io, che sono stato «là» e non ho saputo dare aiuto. Non ti vergognare di vigilare con la coscienza sporca e pieno di sospetti sulla frontiera rocciosa di un piccolo paese il cui popolo ha saputo dire «no», e assu­mersene le conseguenze. E non ti vergognare nemmeno di vivere nel capitalismo, un sistema chiamato con un no­ me dal profumo antico come di lavanda, poiché questo sistema per il momento sembra produrre visibile soddi­sfazione senza far rumore: persone ben pagate eseguono il proprio lavoro e nessuno le disturba. Non ti vergogna­re di non essere un eroe, pensavo nel buio. E guardai dal finestrino perché finalmente il treno stava passando dal­la neutrale Svizzera alla sconfitta Italia.

 Finalmente respiravo. Qui tutto era noto, più umano e sincero che in Svizzera, dove gli abitanti avevano supera­to l'esame di storia a pieni voti. Gli italiani quanto meno non ribadivano la propria innocenza. Naturalmente coloro con cui parlavo dichiaravano di essere stati « partigiani», anche se poi molti di loro ammettevano che per venticinque anni, fatte poche eccezioni, erano stati fascisti. Inoltre erano poveri - la miseria della guerra perduta urlava nelle strade e nelle case -, e forse proprio per questo erano cordiali e umani.Andai a Roma, poi a Napoli. A Posillipo c'era il sole.

 Il ricordo della luce di quel sole mi accompagnò per resto del viaggio e tornò con me in Ungheria- e anche là, nei tempi bui che seguirono, continuò a splendere. - Il sole di Posillipo ha rappresentato l'unica realtà attraente, conciliante del mio viaggio in Occidente. Più tardi mi sarei ricordato di quella luce, di quel richiamo, e ripresa la strada dell'espatrio - questa volta per non fare più ritorno a casa - sarei andato a tuffarmi direttamente nella luce di Posillipo, come il suicida che dopo lungo indugio getta via il salvagente e si butta senza più esitazioni nel Niagara. Nella Luce, nella pura Luce, dopo il buio, la folle oscurità - ritornare alla Luce nella quale non si può ingannare  non vale la pena di mentire, dove tutto è raggiante,il vero e il falso; guardare la Luce negli occhi, quella che da qui si era irradiata tanto tempo prima verso la selvaggia, opaca Europa. E quanto avrei ripensato alla viva luce di Posillipo dieci anni dopo, tra i brividi delle mie notti al neon di NewYork.

 Ma nella Luce ci si può solo immergere, come nell’o­ceano: l'uomo non vi può vivere stabilmente, perché per­de i sensi. Solo nella penombra è possibile vivere – vivete, cioè progettare e poi agire. Perciò mi distesi sulla collina italiana a occhi chiusi, nella luce - poi partii per Parigi. (Sandor Marai, Terra terra, Adelfi ed., pag. 221-222)





mercoledì 24 agosto 2005

 


Sandor Màrai I


Al ricordo di Budapest dedico alcuni passi di un libro or ora letto, sull’onda dell’emozione che ancora culla il mare calmo di questa fine estate casentinese, sotto le pendici del Pratomagno, circondato da paesaggi amici e ricordi, anche di guerra. Il libro mi ha particolarmente interessato perché mi ha fatto rivivere momenti simili - pur con tutte le differenze - da me vissuti negli anni di guerra e del dopoguerra. Scelgo passi che possono dir qualcosa anche ai più giovani di me. E’ comunque uno scrittore che val la pena di conoscere. Questo è il primo post della serie.

 La Budapest di Sandor Marai

 Non so come sia per gli altri, ma io, quando penso a una città, ungherese o straniera che dirsi voglia, non ve­do subito un'immagine, ma sento alcune battute musica­li. New York, Parigi, Kolozsvar o Berlino: basta che un pensiero casuale o un'associazione di idee mi faccia bale­nare alla mente il nome di una città e odo una musica. È come se qualche nota, una melodia, definisse il significa­to di un luogo. Tanto per dire, se qualcuno pronuncia in mia presenza il nome di New York, questo non evoca in me la vista che si gode dal centesimo piano dell'Empire State Building: sento invece per un attimo qualche battu­ta della Rapsodia in blu di Gershwin, quella musica nevro­tica dal guaito dolente e voluttuoso. Non conosco il per­ché di questo modo musicale di ricordare una città, dato che non mi arrivano mai segnali in musica quando penso a uomini o a paesi. Tra i fenomeni della coscienza il mec­canismo della memoria è per me il più misterioso e spa­ventoso, e il sincronismo ritmico-melodico che al solo sentir pronunciare il nome di una città scatta nella mia mente è tanto incomprensibile quanto, in scala maggio­re, l'enigma dell'archiviazione e della rievocazione dei ri­cordi. È come se una melodia fosse per me il marchio di fabbrica di una città, ma non posso misurare la durata di questo intermezzo musicale dato che sulla passatoia mo­bile della memoria iniziano a scorrere immediatamente le immagini, senza più suoni. Queste immagini di città sono sempre grigie, come i miei sogni sono sempre in bianco e nero, mai a colori.    

 Budapest è l'unica città a non destare in me melodie, ma versi. Ad esempio, qualche volta ricordo automaticamente il verso disperato, l'urlo, di Babits: «Cosa ho io a che fare con i peccati del mondo? »... Questo grida Giona nel bellissimo poema del grande poeta ungherese quando si rende conto che non c'è la Provvidenza, ma che esistono solo i fatti. Il verso mi torna spesso in mente al pen­siero di Budapest, risuonando come un testo inciso sul nastro di un magnetofono.

 Nel mio caso, però, altri versi incisi su questo nastro prendono vita allorché viene evocato un nome di città. I versi miei dei tempi in cui scrivevo ancora poesie. Durante l'assedio avevo buttato giù qualche verso, ma non sono un poeta; nel mio sistema nervoso e nella mia coscienza manca quell' energia condensatrice che è la poesia, la quale con una sola parola, per mezzo di un comunicare magico, qualche volta demoniaco, riesce a catalizzare gli elementi della passione e della ragione come il nucleo dell'atomo con i protoni e i neutroni... Eppure mi era ca­pitato di scrivere certi versi alla fine dei quali talvolta si sentiva tintinnare il «barbarico gioiello », la rima. Qualcosa che poteva sembrare poesia, ma ai miei versi manca­va la densa ed esplosiva forza della tensione. E senza tensione non vi è poesia.

 Eppure qualche volta questi versi di fattura casalinga, riecheggiano in me quando penso a Budapest. E subito dal deposito della memoria, scaturisce l'immagine di un angolo di strada di Budapest, o un volto umano. Come se quelle rime fossero una didascalia in un album di foto­grafie. Perché Budapest - e in seguito tutto ciò che W concetto della città comprendeva - per me è rimasta  raffigurata in quadretti-miniatura, minuscole fotografie, una sfilza di ricordi in un album che sfoglio di tanto ,intanto. Questi quadretti, a differenza di una pellicola cinematografica, non rappresentano azioni, ma una serie di immagini fisse. E come i maestri fiamminghi trovavano il modo di inserire nelle loro miniature, con sottilissimi tratti di pennello, una città medioevale completa di bastioni, chiesa, patibolo, case dai tetti spioventi e perso­ne sfaccendate nella microscopica piazza, così tutto quel­lo che ho vissuto a Budapest nei tre anni dopo l'assedio fino al momento dell' esilio volontario è rimasto palpabi­le in questi piccoli quadri dalla cornice sottile. E sono im­magini che non «si muovono» perché la storia è sempre un quadro fermo: ciò che è stato è morto. Contemplo i miei ricordi di Budapest come se stessi guardando un al­bum di famiglia, fotografie di parenti morti, di conoscen­ti dallo sguardo rigido, dall'aspetto al tempo stesso ridi­colo e spaventoso.

E’ passato un quarto di secolo, cioè circa una genera­zione, da quando ho visto per l'ultima volta Budapest. In questi venticinque anni rari sono stati i giorni in cui non abbia sfogliato questo album, in cui non abbia pensato a Budapest. E sempre con un battito di solidarietà nelle ve­ne al ricordo di una città così bella e particolare. Ma mai con nostalgia. Ogni volta che ho sognato di tornare a ca­sa, che ero di nuovo a casa, a Budapest, si è trattato sem­pre di un sogno tormentoso, pieno di angoscia. E sve­gliarmi era un sollievo: era stato solo un sogno. Per un quarto di secolo, in terra straniera, spesso tra un'indiffe­renza oceanica da far battere i denti, il pensiero di aver avuto la forza di lasciare la mia città e di non aver dovuto vivere tutto quello che là era accaduto è stato una ripetu­ta fonte di sollievo. Talvolta ho creduto che questo tran­quillizzarmi al risveglio dal mio incubo fosse una forma di vigliaccheria, ma tutto sommato sono contento di aver avuto la forza di abbandonare la zona di pericolo e di non aver dovuto - pur se involontariamente e sapendo­mi refrattario, ma per il solo fatto di essere rimasto là - ­farmi complice di tutto quello che poi è stato. Ma questa è una scappatoia. La verità è un'altra. In fondo a tutto quello che ho pensato, sentito e sognato intorno a Buda­pest balugina il ricordo del momento in cui compresi perché mi avesse sommerso un senso di sollievo, come un caldo afflusso di sangue, una vertigine, quando, al ritor­no dal villaggio, vidi le rovine della mia casa.

(Sandor Màrai, Terra terra, ed. Adelfi 2005, pagg.101-103).







domenica 21 agosto 2005

Riletture di Paola

 Non so nulla o quasi di Fausta Cialente, ma mi incuriosiscono alcuni commenti pronunciati a mezza voce da Paola, la lettrice di casa. Un libro del 76, una scrittrice nata nel 1898, ci presentano questioni sempre così attuali. E’ così che chiedo collaborazione in famiglia e ne vengono fuori poche citazioni interessanti che mi affretto a scannerizzare e pubblicare.

Metto un titolo ai capoversi: 

-         Trieste mia;

-         Arabi d’Egitto; 

-         La morte e la vita intorno alle Piramidi;

-         Palestina, Palestina.

 Fausta Cialente Le quattro  ragazze  Wieselberger-Mondadori ed. 1776




Trieste mia

Già allora gli avyersari non erano più gli "austriacanti", coloro che alla fin dei conti avevano sempre rappresentato e difeso i grossi interessi d'una città tanto ricca, dipendente d'uno stato ancora ricchissimo e po­tente, e non avevano mai voluto compromettersi con un irredentismo troppo acceso - o scalmanato - come dice­va mio padre. Gli avversari erano fatalmente diventati i socialisti insieme agli sloveni, una minoranza, indub­biamente; ma la cui nascente solidarietà dava fastidio e forse preoccupava; questo spiega la trionfale votazio­ne ch'ebbero gl'irredentisti nel 1897. Dieci anni dopo la situazione era già 'capovolta e nel corso di certe riu­nioni non mancarono neppure i fischi contro i rappresentanti della ricca e ottusa, borghesia che nei suoi discorsi non lasciava 1l)ai entrare le questioni dei lavoratori, sembrava anzi volerle ignorare. «< Date il super­fluo ai poveri! » era stato detto pubblicamente). Nella forma di governo ch'essa auspicava per la città quando fosse "divenuta italiana" la voce dei lavoratori era esclusa; teneva in considerazione soltanto se stessa, poiché era convinta che solo dall'alto della sua forza e della sua ricchezza poteva tutelare gl'interessi d'una società fatta a sua misura. 'Respingeva quindi "la mas­sa", quasi fosse logico e naturale condannarIa a rima­nere nella sua povertà e nella sua ignoranza, e che in Italia, la tanto vagheggiata Italia, quella "massa" fosse già da hmghissimo tempo condannata all'emigrazione  per antica miseria -- sembrava non signifi­care nulla per tutti quei liberalmassoni di destra, della Gran Destra capeggiata dal Veneziani al quale, dopo la morte fu inevitabilmente "giusto" intitolare la via del Fontanone dove aveva per molti anni abitato.

Al razzismo che stava alla base dell'annosa e insoluta questione slovena si, aggiungeva quindi !'incomprensio­ne o addirittura l'indifferenza, quando non la sprezzan­te ostilità nei riguardi dei "lavoratori"; ma il peso di questi enormi sbagli commessi dall'Ottocento - che non sono sbagli solamente  triestino-irredenti, sono an­che sbagli italiani - avrebbe finito, dopo una disastrosa prima guerra mondiale, per trascinare l'Italia nel fa­scismo, e Trieste con essa.(o.c. pag. 130)

 Arabi d’Egitto

 Io amavo invece la loro presenza, così discreta, sem­pre; quei loro piedi eternamente scalzi o tutt'al più ri­vestiti di silenziose babbucce, per cui mi sorgevano ac­canto inavvertiti, quel loro mormorare gentile, quasi affettuoso, quando venivano a chiedermi un ordine o a farsi ripetere qualcosa che avevo già detto. Non cono­scevo molto della loro lingua vivace e spiritosa, solo quel tanto che bastava a farmi intendere, ma l'adope­ravo anch'io con gentilezza, ed essi mi sorridevano gra­ti, poi se ne andavano col loro passo leggero, facendomi il loro discreto segno di saluto, le dita che sfiorano il petto, o la fronte o le labbra - che è anche un ringra­ziamento. E non erano falsi, come quasi tutti preten­devano che i servi indigeni fossero, erano modellati da una religione cortese o da un'antichissima civiltà, che sentivo il dovere di rispettare. Avrei dovuto ostentare superiorità o prepotenza solo perché ero di razza bian­ca? Infatti di me essi. dicevano ch'ero "come il latte, come lo zucchero", e questo è, in arabo, un gran com­plimento. Non avrei davvero potuto ingiungere a nes­suno di loro di non "guardarmi in faccià". Li guardavo anzi diritto .negli occhi che sovente erano bellissimi, nuotanti in un liquido splendore se giovàni, o pietosa­mente feriti dal tracoma se anziani o vecchi.

E poi amavo le stagioni sul Delta! quelle lunghe pri­mavere e le lunghissime, umide estati, interrotte solo da poche settimane di piagge e burrasche tra la fine di novembre e i primi giorni di febbraio, quando nel de­serto scoppia la fioritura degli anemoni rossi e azzurri che andavamo. a raccogliere; ma poi, nel deserto, il sole brucia tutto e sotto il volo dei nibbi e delle allodole ri­mangono a scintillare solamente le antiche pietre. Sapevo che avrei per sempre rimpianto la mitezza del cli­ma governata da una dolce umidità marina, e la fiori­tura del gelsomino d'Arabia fa parte del mio sognante ricordo. L'avevo sempre coltivata sulle terrazze a nei giardini di Ramleh, e mentre leggevo seduta sui gradini d'una veranda o ai piedi d'una vecchia colonna di legna, sentivo, prima ancora di vederla, la caduta delle lievi corolle acutamente profumate che mi ritrovavo poi fin dentro i capelli; e le fitte collane dello stesso morbido gelsomino che gli arabetti mi offrivano per poche piastre,  con un sorriso splendente, correndomi dietro sui mar­ciapiedi del boulevard Saad Zaglul. Tutta sarebbe rimasto il simbolo d'un tempo favoloso e illusorio e sol­tanto la guerra avrebbe avuto lo sciagurato patere di troncarlo. (o.c. pag. 215-216) 

La morte e la vita intorno alle Piramidi. 

L'affetto della vita quotidiana accompagna i morti nelle tenebre ed emana ancora un fascino amabile e spiritoso, il desiderio patetico di non abbandonarsi senza resistenza o conso­lazione alla solitudine eterna. La morte stava quindi fuori, nella visione dei templi crollati, nel paesaggio drammatico e crudo delle valli faraoniche sconvolte, che mostrano le bocche spalancate delle tombe aperte e pro­fanate, nelle linee stabili e immobili delle divinità e dei giganti di pietra. Allontanandomi dai colossi di Memno­ne elevati in mezzo ai campi verdi di trifoglio, ricorda­vo d'aver avuto la sensazione che quei mostri immensi avevano anch'essi inghiottito un tempo smisurato e da millenni guardavano il cielo col viso mutilato; ma intor­no ad esso .quella sera le colombe volavano in: un am­pio cerchio e m'era sembrato, quel volo, tanto più dolce e vivo. 

Ma quando al ritorno parlavo di questi ricordi e im­pressioni ai miei compagni di lavoro, venivo di solito garbatamente canzonata per l'entusiasmo o l'emozione che mostravo, e non mi burlavano perché m'ero data una così breve vacanza, ma perché avrei dovuto ricor­dare come tutte quelle magnificenze, a cominciare dalle Piramidi e dalla Sfinge, per la loro costruzione, durante secoli, fossero costate la vita a migliaia di schiavi; il fasto dei ricchi e dei potenti (i soli che possono lasciar traccia nella  storia) è sempre costruito sull'anonimo san­gue dei poveri, mi dicevano. « È vero» io rispondevo, « ma noi stiamo facendo adesso, proprio adesso, molto peggio in quanto a sangue anonimo e distruzione, con i mezzi di cui disponiamo» (già si mormorava dei cam­pi di sterminio nazisti) « e voglio vedere quel che la­sceremo d'altrettanto bello e indistruttibile dietro di noi!» ( pag.215-216)

Palestina, Palestina. 

 Q
uando dopo la sosta a Damasco l’aereo volò un po’ più basso sul deserto e vidi miserabili accampamenti dei rifugiati dalla Palestina, quelli della prima guerra con Israele, ebbi un moto d’indignazione che forse meravigliò i miei compagni di viaggio. Che cosa il mondo occidentale e il mondo arabo potevano aspettarsi, mi chiedevo, da una massa così turpemente abbandonata, dai giovani e dai bambini che crescevano in quelle condizioni, senza casa né patria, il cuore già pieno di un giusto risentimento contro la pelosa e ambigua carità di cui erano l’oggetto. La loro collera si sarebbe presto trasformata in odio, in un irresistibile desiderio di vendetta. “Creare un altro nazionalismo?” aveva detto qualche tempo prima mio marito. “Non ce ne sono già abbastanza? Non ci hanno portato sufficientemente scalogna? Se almeno fondassero uno Stato davvero democratico e moderno, cioè tollerante! Ma con i quattrini dei ricchi ebrei statunitensi, il fiore della reazione, che si guarderebbero bene loro dal venire a vivere in Israele, faranno esattamente il contrario, vuoi scommetterlo? (o.c. pag.244)  




 


 

martedì 16 agosto 2005



Intermezzo Fiorentino


Se capiti a Firenze sali sull'autobus n. 12 o 13 e fermati all'altezza di via S.Leonardo: prima di arrivare al Piazzale Michelangelo se sei sul 12, dopo il Piazzale se sei sul 13. Infila via S.Leonardo che è contromano per le macchine, fatti una passeggiata a piedi, in leggera discesa quasi piana, guardati i muri della strada dipinti da Rosai, trova la giornata di sole, nubi estive e zefiri sereni che abbiamo trovato io e Paola il giorno di ferragosto 2005, pàgati il biglietto d'entrata (10, 7, 5 euro a seconda), prendi se vuoi il nuovo mezzo ascensoriale e goditi lo spettacolo del Forte Belvedere riempito delle opere create da Jean-Michel Folon in 30-40 anni di vita, aggiungici lo spettacolo dal Forte Belvedere con la vista di Firenze, Fiesole, S.Miniato al Monte, e tutto il giro di colline festanti di case e d'oliveti, e poi dimmi se la vita può essere ridotta ai soli réportages dei "canali di scolo televisivi" (Beppe Grillo). Dopodiché prendi - a piedi - la via di Costa S.Giorgio, guarda un pezzo di Firenze antica, dai un'occhiata alle finestre della casa da cui si affacciava Galileo, sulla sinistra scendendo, poco prima della vecchia chiesa officiata dall'ortodossia rumena, ed ecco il Ponte Vecchio stracarico di giovani; lo altrepassi, ti prendi un gelato alla gelateria immediatamente di fronte, quattro metri a destra, due euro per tre gusti, fai pochi passi, ti siedi sugli scalini della chiesa di S.Stefano, in piazza S.Stefano e poi riparti. Qualche foto nell'album del blog. Buona notte.

PS. 1 - Gli autobus 12 e 13 sono due circolari: puoi fare un giro per Firenze senza spendere i 20 euro richiesti dal citysighting.

       2 - Il Piazzale Michelangelo è un deposito di autobus, sicuramente panoramico, soprattutto se sei di statura superiore alla media. Il Forte Belvedere, rimesso a nuovo come nessuno l'aveva mai visto, è un incontro di persone, un'oasi di pace (dimentica il suo passato), un incanto dell'anima. Non c'è confronto. Dillo agli amici che vengono a veder Firenze.

lunedì 15 agosto 2005

Budapest, ultimo giorno


IL PARCO DELLE STATUE


Il 13 di Agosto, ultimo giorno della permanenza a Budapest  - volo aereo delle ore 17,35 - abbiamo occupato la mattinata per andare, in taxi, al cimitero delle statue. Proprio un cimitero di monumenti che erano collocati nelle piazze e vie di Budapest durante il periodo comunista.  E' un pezzo di storia vera, raccontata in modo oggettivo.


Mi sono reso conto che se avessi costituito un parco contro-propagandistico con queste statue propagandistiche, allora avrei seguito fedelmente la ricetta ereditata dalla Dittatura, ed il suo modo di pensare.

 Questo parco parla della dittatura, ma dal momento in cui si può dire, si può scrivere questo, e si può costituire il parco, allora esso parla della democrazia! Solo la democrazia è capace di darci la possibilità di pensare liberamente della dittatura o della stessa democrazia... o di qualsiasi cosa. (.. .)    Eleod Akos junior

 Sono le parole di chi ha realizzato questo particolare museo di storia ungherese contemporanea.  Ricordo una cosa simile quando, tre o quattro anni fa, a Berlino, mi trovai a visitare il museo dedicato ai rapporti tra Germania e Russia.  Si rivede la storia di un intero secolo e fa impressione notare l'alterna e contrapposta vicissitudine dei rapporti tra uomini e stati: periodi di amicizia, anche profonda, annullati da momenti di ferocia inaudita. Fragilità delle democrazie, volubilità dei sentimenti, gioco delle paure, scatenamento degli egoismi, manovrabilità delle masse popolari, sagre degli inganni e degli equivoci, capipopolo cinici e bastardi, tutte le ossessioni di Edgar Allan Poe, tutte le peggiori immaginazioni di Philip Dick elevate all'ennesima potenza dalla "realtà effettuale" di cui parla Machiavelli.  Chiederò lumi a Franco, ordinario di storia contemporenea.  Nel frattempo sarà bene rileggere lo scambio di lettere tra Einstein e Freud sulla pace e sulla guerra.

Inserisco qualche immagine nell'Albo del blog e riporto alcuni paragrafi del fascicolo distribuito all'interno del museo:



 


 L’idea della costituzione del Parco delle statue è stata proposta dallo storico della letteratura, prof Làszlò Szàrényi, nel numero del 5 giugno 1989 della rivista Hitel. La sua proposta era di costituire un parco nazionale di Lenin, dove sarebbero state raccolte le statue di Lenin dell’Ungheria. Anche il cambio di regime in Ungheria fece parte del cambiamento politico del 1989-90 in Europa Orientale e durante questo periodo fu più volte all’ordine del giorno la questione delle statue legate all’ ex-regime politico. Il risultato delle osservazioni degli abitanti e delle organizzazioni politiche è che il 5 dicembre del 1991 fu presa una decisione sulla sorte delle statue dalla Giunta di Budapest. In base alle proposte dei quartieri, si decise di togliere alcune statue e di mantenerne altre. La Comissione Culturale dalla Giunta bandì un concorso per il progetto del dislocamento delle statue e per la costituzione dei Parco delle statue. Arrivarono tre progetti di concorso e Eleod Akos iunior, membro dello Studio di Architettura Vadàsz e Soci, ottenne l’incarico.

Dopo molte proposte e rifiuti il Parco delle statue fu costruito su un territorio offerto dal quartiere XII, sull’altipiano di Tétény.



 


 



 


 



Alcuni versi della poesia sulla tirannia - autore Gyula Illyés poeta, narratore, drammaturgo ungherese - riportate sul portone d'ingresso.


tirannia è

...

 nel piatto nel bicchiere

nel cavo nella bocca

nel freddo nel buio

all'aria aperta nella tua camera

...

Se parli da solo

è lei che ti interroga, la tirannia.

Neanche nella tua fantasia

sei libero:


la Via Lattea si trasforma:

frontiera perlustrata

dai riflettori, campo minato;

la stella: uno spioncino,


la volta celeste che brulica:

un unico lager;

perché la tirannia parla

nella febbre nelle campane


tramite il prete e colui che egli assolve,

nelle prediche;

chiesa parlamento patibolo:

altrettanti teatri;


chiudi riapri gli occhi:

sempre lei che ti guarda;

come la malattia

ti segue come il ricordo;


la ruota del treno, senti?

schiavo, schiavo, ripete;

in montagna o al mare

respiri lei...

è lei che ti guarda dallo specchio,

è lei che spia; invano vorrai correre via,

sei carcerato e insieme secondino;

penetra nel tabacco

nella stoffa degli abiti

nel tuo stesso midollo;

tu vorresti riprendere coscienza

ma ti tornano in mente solo

le sue idee;


vuoi guardare ma vedi solamente

quel che proietta lei davanti a te;

già tutt'intorno brucia

per un fiammifero un bosco di fiamme:


perché non l'hai pestato

nel gettarlo per terra?

cosi lei t'accudisce

nella fabbrica sul campo in casa


come lo schiavo tu

che fabbrica da sé le sue manette;

se mangi ingrassi lei,

per lei generi un figlio;


dove è tirannia

tutti sono anelli della catena;

anche da te sorte un fetore

anche tu sei tirannia


come talpe in pieno sole

camminiamo brancolando...

sabato 13 agosto 2005

Budapest, nono giorno


A zonzo per le vie della cittá, vagabondi senza meta. É quando si scopre il parco condominiale sotto casa, l'angolo di fabbricato stile liberty o secessione, la botteghina dove trovi il quaderno delle scuole elementari che Paola deve portare alla maestra Mariella che fa la collezione. Ci é capitato di infilare nel mercato centrale coperto, che rinuncio a descrivere, tanto ricco e grande e colorato di frutta e verdura.


É il bello dell'aver piú tempo dei giapponesi che visitano l'Europa in una settimana, é il bello di stare in una casa privata, guardare dalla finestra, osservare i condomini, accendere il televisore e soprattutto i 4 computers con ADSL messi a completa disposizione. Manca un quarto d'ora all'arrivo del taxi che ci riporta all'aereo porto per il volo Budapest-Milano. Continua da Firenze.

venerdì 12 agosto 2005

Budapest ottavo giorno


Budapest Terme. Cosí dovrebbero chiamarla. E' una sorpresa per tutto il nostro gruppo questa ricchezza di bagni e terme, con acqua che esce dalla terra a 70 gradi, e non in un solo luogo. Oggi mi sono rifatto dello stress di ieri, con la storia del gambero di Paola, rifugiandomi nel bagno turco e nelle piscine del Gellert, calde, caldissime, meno calde, al chiuso, all'aperto. Un grande stabilimento moderno che profuma di antico. L'acqua é un ritorno al grembo materno. Si capisce perché i Romani e gli Ottomani. Insomma sono tanto riposato che non ho voglia di scrivere. E poi tutti voi siete stati a Ischia. Chi non l'ha fatto non stia a pensarci sopra.

giovedì 11 agosto 2005

Budapest settimo giorno  II parte


La parte alta di Veszprem ci riporta indietro di 3 secoli, in un settecento di case dai colori pastello, com’é la Buda vista nei giorni scorsi, rosa, giallino, verdolino. Siamo lontani dal traffico e dalla quotidianitá per entrare in un mondo passato quasi arcaico con i grandi palazzi del potere, primo fra tutti il palazzo vescovile costruito da un illustre vescovo Castiglione o simile, italiano che qui trovó il suo paradiso in terra. Prevale il barocco evidente nel monumento centrale della piazzetta costituito da una colonna dedicata alla Trinitá, tutta decorata di fregi angeli e putti. Nascosta tra tutte queste esibizioni barocche, in un angolo della piazza la Gizela Kapolna, piccola cappella gotica, con affreschi residui piuttosto malconci ma originali, come la vecchia grassa custode che sorridendo ci chiede i soldi del biglietto che ci abilita a vedere il giá visto, data la piccolezza dell’unico ambiente. In carattere con questo sentirsi fuori dal dal mondo, nella chiesa che delimita un lato della piazza, ci accoglie il suono di un organo accompagnato dal violino. Si tratta della prova generale del concerto programmato per la sera stessa, con musiche di Bach, Haydn, Mendelson…Al termine di ogni pezzo Franco, seguito da tutti noi, dá il via ad un rispettoso discreto applauso.  Dietro la chiesa, da una balaustrata sporgente nello spazio sottostante, ci si spalanca un panorama di antico paese ricco di storia e di lavoro, con un fiumicello che scorre in basso, ai piedi di una grande rupe, strumento indispensabile per le antiche concerie e lavori di tessitura. Una serie di case dai tetti rossi, sparse su un terreno accidentato, collinare, circondate da una vegetazione rigogliosa. La nostra scampagnata in automobile si conclude qui. La sorpresa negativa é costituita dal rientro a Budapest. Avevamo azzeccato tutte o quasi le vie del ritorno in cittá, centrando il ponte Elisabetta giá attraversato all’andata. Si dá il caso che esistano i sensi unici e Budapest si é presentata come un unico grande senso unico che mi ha tenuto sulla corda (del volante, intendo) per una intera buona mezz’ora. Si doveva voltare a sinistra e non c’era verso.


Mi son sentito il gambero di Paola. Quando raccontava ai nostri due bambini piccoli di un gambero che voleva andare, mettiamo, dalla Piazza dell’Isolotto alla passerella antistante che porta alle cascine. Puntava in linea retta verso la passerella, ma siccome il gambero cammina per traverso, si trovava in direzione del Ponte alla Vittoria o, al contrario, in direzione Ponte all’Indiano. E tutti i posti impossibili che Paola inventava per il divertimento di Michele e Simone che volevano sempre la ripartenza del gambero per il gusto di vederlo finire disperato  nei posti piú improbabili. Il gambero non bestemmia, ma uno dei miei amici in vettura imprecava ad ogni svolta vietata e bestemmiava la cartellonistica stradale che parla magiaro e non ha la chiarezza della nostra segnaletica stradale. É stato come quando un aereo in atterraggio viene trattenuto in aria in attesa che si liberi la pista assegnata. La pista nostra si chiamava Var utza e si deve alle indicazioni di Pinuccia, dottoressa ad honorem di stradariologia, se l’atterraggio é avvenuto in condizioni ancora accettabili: un’ora e mezza di coda nell’ora di punta di una cittá che contiene metá della popolazione di un intero Stato. Questo dovevo per la cronaca.


 

mercoledì 10 agosto 2005

Budapest, settimo giorno


Di nuovo in vettura. Si parte con la Peugeot automatica di Agnes - lo scambio macchina é compreso nel cambio casa - per il Balaton. Il primo ricordo risale a molti molti anni fa, scuola media o addirittura elementare, caratteristiche geografiche dell'Ungheria...La giornata é finalmente estiva, limpida e tiepida al punto giusto, l'aria pulita che accarezza la faccia. Attraversiamo un territorio pianeggiante ma non piatto, in grazia delle solite colline dolci e arrotondate che fanno corona ai campi coltivati a granturco, tabacco, girasoli, patate, cocomeri, e tutti i vegetali da cucina che ci ritroviamo poi in quantitá sproporzionate come contorno alle pietanze di carne impanata e fritta. (Parlo dei ristoranti non segnalati dalla guida). A proposito, qui carne "grilled" vuol dire impanata e fritta. Le prime volte ci si casca. Il Balaton é un bel lago, circondato da colline con  tante casette coi tetti rossi a punta. Sulle rive tanti pescatori a canna confermano quanto scritto nella guida circa la grande abbondanza di pesci. Nel menu di tutti i ristoranti figura la pagina del pesce, e si tratta di pesci d'acqua dolce, con grande varietá di tipi, ed altrettanta di modi di cottura. Nota di cronaca: uomini e donne stamani incrociati lungo la passeggiata "a mare", seduti piú che distesi al sole, presentavano molto materiale espanso: una fiera paesana di lombi, trippe e natiche. Il paese di oggi si chiama Veszprém, al centro di una campagna ricchissima di prodotti di tutti i tipi. Abbiamo fatto i primi passi in una zona pedonale, tra banche, negozi e vetrine tipo centro commerciale come se ne trovano ormai dappertutto, un po' alla Mc Donald. Ci siam guardati in faccia; tutto qui?  La sorpresa (gradita) é venuta salendo nella parte alta...

Ne riparliamo.

Budapest, sesto giorno


In battello di linea lungo l'ansa del Danubio, a nord di Buda direzione Vienna. Sei ore scivolate sull'acqua sotto un cielo limpido che si é chiuso durante il primo pomeriggio per poi riaprirsi piú limpido che mai con la sorpresa finale di una spruzzata di pioggia all'arrivo giusto quanto necessario per regalarci un doppio arcobaleno completo che spero di riportare quanto prima nell'album fotografico. Qui da fuori non sono capace di inserire le foto. Anche l'acqua del Danubio era sul verde un tantino blu. Le rive poco abitate, il traffico quasi inesistente, lunghi tratti in solitudine quasi assoluta tra due rive coperte di rigogliosi alberi chiomati come dentro un parco. In quei tratti ci ha richiamato i canali del Costarica, salvo la mancanza di animali. Abbiamo visto solo qualche anatra selvatica. A Visegrad, dove il fiume si piega a esse, c'é una grande altura incombente con sopra il solito castello rimesso alla meno peggio in piedi per i turisti e dalla cima si intravedono le varie anse che si snodano tra colline dolci e arrotondate, rivestite di tetti rossi e macchia verde, come un po' intorno a Budapest e in altre parti d'Ungheria. La temperatura s'é addolcita tanto che rispetto a ieri sembra un altro mondo. Last but not least, il solito occhio critico della nostra esperta di codici e manoscritti antichi, ha individuato sulla guida del Touring club il "Siraly Étterem" dove le mie papille gustative, abituate da sempre alle nobili austere gustose pietanze contadino-toscane hanno toccato i vertici d'un'emozione nuova, una volta a contatto con gli involtini di cervo farciti di fegato d'oca insaporiti con vino bianco e altri ingredienti di cui al menu che potrete trovare, in italiano, a Rev Utca 15, in Visegrad, sulle sponde del Danubio, 3 ore di battello da Buda. Tel.398376. "Etterem" vuol dire ristorante, dal latino edo (mangio), tedesco essen...I Romani naturalmente son passati anche di qui. Cosa vuol dire viaggiare con una prof. di filologia latina in procinto di essere assunta nel gotha dei titolari di cattedra universitaria.

Budapest, quinto giorno


Lunedi 8 agosto, primo escursus in macchina in terra d'Ungheria. Destinazione Eger, 130 km a nord-est di Budapest, autostrada M3. Le previsioni davano tempo variabile, senza pioggia. Puntualmente é cominciato a piovere via via che l'autoroute ci avvicinava alla destinazione. Camminare sotto la pioggia accompagnata da un  venticello freddino e persistente con vestiti da paese mediterraneo non é proprio il massimo. I soliti ombrellini ripiegabili resi presto semiinutilizzabili dal vento (due andati, mi ricorda Pinuccia). Eger é un paese che ha la solita lunga e tormentosa storia di tante terre d'Europa. Il primo rifugio in caso di tempo balordo é spesso una chiesa. Noi ne avevamo trovata una immensa, neoclassica, grande pronao con enormi colonne bianche, ma la porta era chiusa a coloro che non avevano il biglietto del concerto d'organo in corso in quel momento. Chiusa anche la biblioteca che contiene il codice con la prima traduzione latina di Dante, 1417.  Non so se mi spiego. Eger é una cittadina consapevole del suo passato, ci tiene a farlo sapere e per questo si é rivestita a festa: strade piastrellate, case ridipinte, chiese e palazzi restaurati. Paesaggio collinare ricoperto di vigneti che producono il Sangue di toro, vino rosso scuro forte e secco; oltre a dirlo le guide lo confermano le gole da sommelier piemontesi di Franco e di Pinuccia e lo deve ammettere anche il barba neofita enologico. Chiusa la chiesa, chiusa la biblioteca, ci infiliamo nel primo ristorante che capita piú per liberarci dalla pioggia che dalla fame. Come infatti. E' andata male. No comment.  La scoperta lieta é stato il mercatino al chiuso-aperto gestito da contadini piú veri di quelli di Piazza dell'Isolotto, che pure non scherzano. Un vecchietto mi vende 4 uova sciolte che profumano di gallina ruspante, la nonna accanto ci pesa due o tre chili di susine piccole e nere tutte succo e sapore, due bambine caricano Paola di meline di campo bianche e rosse come le loro guance. Non era un mercato trasandato: tutto era posto in buon ordine, pulito e curato, per far bella figura. Dall'alto del castello abbiamo ammirato il panorama di questo antico paese, con le sue chiese, i palazzi, le case sparse in un territorio collinare, circondato da vigneti che rendono questa cittadina un centro enologico di prim'ordine. Chiari anche i segni della travagliata storia passata, nel castello prima cristiano, poi moro,poi ricristiano, nella chiesa ortodossa che si faceva largo tra le altre chiese cattoliche, nel minareto ancora impettito, anche se isolato e muto, tra i tanti campanili circostanti. Il ritorno ha avuto il suo epilogo trionfale nella perfetta manovra di atterraggio in Balzac Utca (leggi uza), proprio in centro cittá a due passi dal Parlamento. Merito piú che del sottoscritto driver, della prof.ssa ..gnaldi che maneggia lo stradario con la sovrana indifferenza di chi é abituato a orientarsi nelle contorsioni viarie di antichi manoscritti latini e greci. Last but not least: Il decollo, cioé l'uscita con la macchina da Budapest per Eger, era avvenuto "naturalmente" grazie a nostro angelo tutelare Adam che la sera prima aveva accompagnato me e Franco per la prova generale, senza dimenticarsi di farci acquistare il ticket austradale che ti consente qui un Ungheria di viaggiare per 4 giorni sulle autostrade senza barriere e paytoll o péage. Capito? Tutti col telepass.

lunedì 8 agosto 2005

Budapest quarto giorno


Oggi domenica 7 agosto le previsioni davano pioggia e invece no. Tempo coperto ma senza pioggia. Gioco del metró, alla ricerca della M1 gialla, la prima e storica delle tre linee underground di Budapest. Ci siamo trovati nel labirinto di una fermata snodo, tipo Chatelet di Parigi, mutatis mutandis: qui convergono la M2 rossa e la M3 blu con la M1 che ci deve portare alle terme ***adiacenti a ípiazza degli eroi. Un labirinto per noi ma anche per il primo signore che ci accompagna per un po' e poi ci lascia in mano a un secondo che sembra la fotocopia di quello di ieri, tranne il fatto che, poveruomo, non ne azzecca una. Rimane l'impressione della gentilezza e disponibilitá di questa gente; cosa del resto sperimentata giá a Dublino: what can I do for you? Solo che qui parlano magiaro. Visto il grande museo delle Belle Arti, rinunziato alle terme troppo incasinate dai clienti locali della domenica, ripresa la linea metró gialla, la piú antica e piú bella ed elegante (tutta piastrellata), in tempo per l'appuntamento col nostro angelo tutelare Adam che ci accompagna al garage dell'universitá per prelevare la macchina di Agnes che domani ci porterá per le strade d'Ungheria. Adam merita un medaglione ricordo a parte. Lo faremo. Buona notte da Pest, lungo il Danubio, di fronte all'isola Margit.

sabato 6 agosto 2005

Budapest, terzo giorno


Svegliarsi, tirar su le serrande, aver la stanza inondata di sole, sul Danubio; Franco, ieri moribondo per problemi di insonnia, che stamani canta nel bagno; Adam che arriva puntuale alle 9,30 per accompagnarci in un giro della cittá con la grande macchina di rappresentanza di suo padre, operatore librario. Adam alle 14 deve essere al matrimonio di un amico ed é in abito nero formale. Insomma abbiamo lo chauffeur in livrea che ci porta alla Piazza degli eroi, all'antico insediamento di Oboda, caratteristico per le forme architettoniche, con pochi resti romani, poi sulla Collina delle rose, con le ville e villette della recente borghesia post 89, e poi alla Citadella, in alto col grande panorama sul Danubio - un Piazzale Michelangelo con l'Arno e i suoi ponti ingigantiti, le colline di Fiesole e Monte Morello arrotondate, riempite di case sparse nel verde. E poi a pranzo con la famiglia di Adam:padre, madre, sorella, fidanzato della sorella, amico del fidanzato finlandese, musicista. Zuppa di gulash, anatra e oca al forno, crépe come dessert e macedonia di linguaggi: inglese, francese, ungrofinnico, italiano (Anna la sorella, due settimane alla fiera del libro a Torino). Ristorante di qualitá, non turistizzato. Poi lo chauffeur ci ha acompagnato fin sull'isola Margherita per una passeggiata digestiva di ritorno a piedi fino a casa, lá di fronte sull'altra riva. Nel frattempo la zia Agnes ci saluta per SMS da Messina, direzione Marina di Ragusa. Tra poco vedremo sul Canale Uno d'Italia le immagini dell'incidente all'aereo che portava nostri turisti da Bari a Djerba. Con Paola abbiamo fatto l'anno scorso Verona-Djerba. Dolce-amaro della vita.

Buda-pest


Oggi venerdi 5 agosto, da Pest, in basso, a Buda, sulla collina. Lunga passeggiata sulla Uri Utca, via dei Signori, molto signorile: tempo finalmente bello, coperto sí, ma senza pioggia e fresco. Ascoltate le prove della Passione di Bach nella chiesa di Mathias in alto, coro di giovani di Utrecht. Ricordo di Utrecht visitato tre anni fa. Il mondo é piccolo, siamo sempre piú vicini - e amici - tra noi. Visto un palazzo con i buchi delle schegge sulle pareti. Cinquant'anni fa era tutta rasa al suolo questa bellissima collina. Perché questa periodica furia collettiva? Merde!  Un pranzo-cena eccellente nel secondo pomeriggio in un ristorantino segnalato; assaggiata coscia d'anatra con prugne in agrodolce, meglio della cucina cinese, con fiocchi di puré fritto, mai prima sentito, molto gustoso. Vino rosso locale come sanno fare qui. La marca quando sapró il magiaro. Rientrati a piedi lungo la scalinata e poi il lungo fiume, traversato il ponte Marghit...e a casa, in Balzac Utca, via Balzac. Una casa splendida e accogliente quella dei nostri amici -pestini, lui originario di Nizza, che oggi hanno lasciato la nostra a Firenze diretti a Ragusa via  Pompei. Buon viaggio, amici, e grazie, Agnes, dell'SMS di saluto. Ci rivediamo tutti a Firenze per ferragosto, al rientro rispettivo da Ragusa e Budapest. Ma perché il PC mi apre la posta, mi dice che ci sono 4 messaggi nella cartella d'arrivo e non me li fa leggere? Pas mal. Domani sentiró Adam, il nipote di Agnes, parla francese e inglese; ci  porterá a spasso in macchina nella mattinata. E' cortese, di poche parole, attento alle domande, preciso nelle risposte, efficiente nelle soluzione dei due tre problemi da noi proposti. Il conforto di una persona amica in terra "straniera".


Secondo conforto. Titolo provvisorio: "la leggerezza dell'essere": stamattina sul trolley-bus 79, preso nel verso sbagliato, un signore minuto é tornato indietro con noi, é sceso alla quarta fermata, ci ha accompagnato al capolinea del tram n.2 ed é ripartito per la sua giornata. Un piccolo atto di bontá gratuita; lo metto  dentro questo augurio di buona notte. Inzuppatelo nel caffellate di domani mattina. Da Budapest, ore 22,35 di venerdi 5 agosto 2005.

giovedì 4 agosto 2005

Un saluto da Budapest


ai cinque amici lasciati a Firenze.  Jean, Agnes, Esther, ChaCha, Sophie. Nous voilá in Balzac Street 43. Alitalia a tentée, de toute maniere, de saboter notre conquete de Budapest, mais l'avion hongrais nous a porté á destination. In parole povere: Firenze-Milano, cancelled, volo cancellato. L'arrivo previsto per le 16 si e' materializzato a mezzanotte, Franco e Pinuccia fermi all'aereoporto di Budapest per 8 ore. Ma ora siamo qui. Si puó notare il cambio di tastiera; ma questa sa scrivere in magiaro.


Au déhors de la fenetre je ouis (hear, odo) le tic tac de la pluie refraichissante. Á demain.  Buona notte, bonne nuit.

martedì 2 agosto 2005

Ieri sera ero a tavola


con Jean Louis, Agnes, Esther, Andrea, Sophie e, ovviamente, Paola. A Firenze, località Isolotto. Sono arrivati da Budapest, via Nizza, proseguiranno per Ragusa per poi, a ferragosto, rivolgere la prua verso la pianura sarmatica. Domani sera noi (Barba, Paola, Pinuccia, Franco) saremo a casa loro, via Balzac, a due passi dal centro di Pest. Ci siamo visti la prima volta ieri l'altro all'uscita dall'autostrada a Firenze nord, presso l'autogrill Agip. Da lì, superato il Ponte all'Indiano, percorso l'Argigrosso, qui da noi. Avevano fatto da tramite gli amici scambisti di Siviglia e le loro rassicurazioni hanno avuto piena conferma. Anche la temperatura è migliorata e questo aiuta. A casa loro troverò 4 PC e l'Adsl a volontà. Se ci sarà il tempo ci vedremo da là. Stasera cercherò di convincere Esther, 20 anni, aspirante giornalista già in via di affermazione, a scrivere un servizio eslusivo per il mio blog. E' molto riservata, misteriosa come tanti o tutti i giovani, e non so se otterrò udienza. Scrive perfettamente in francese e io sono in grado di fare la traduzione quasi simultanea. In questo momento stanno percorrendo con la loro macchina la superstrada Firenze-Siena. Intendono vedere anche le torri di S.Gimignano, le mura di Monteriggioni, gli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo. Se faranno la via del ritorno attraverso il Casentino e la Consuma potranno vedere anche le torri sbrecciate di Romena. Hanno già avuto il mio nuovo fascicolo "Ivi è Romena", dedicato a Dante, freschissimo di stampa. Anche se non leggono l'italiano. Se mi autorizzeranno parlerò ancora di loro e metterò qualche foto. A rileggerci da Budapest.