giovedì 25 agosto 2005

Sandor Marai II


Il sole di Posillipo

Non vedevo che ordine, dappertutto. C'era un ordine accurato, in Svizzera. Qui in Europa i treni circolavano in perfetta puntualità, secondo l'ordine stabilito.  Ma dopo un paio di settimane andavo e venivo per le strade di Zurigo in piena crisi di nervi. L'albergo era ben riscaldato, ma nulla mi scaldava internamente. Pensai di interrompere il viaggio e tornare prima del previsto nella gelida Budapest occupata, che vegetava nella miseria. Rimasi, invece, consolandomi al pensiero che per me l'Europa non era solo l' umanesimo - che non esisteva più - era tutto quello il cui ricordo mi balenava nella mente pur attraverso la nebbia della paralisi bellica: la passione consapevole, ad esempio. C'è stata un'Europa appassionata, quella dei tempi in cui gli uomini volevano non solo conoscere, ma anche entusiasmarsi. Entusiasmarsi per che cosa? Per le illusioni - per un Dio. O per l'amore, perché in esso vedevano l'energia creatrice. O per l'armonia erotica della bellezza e della proporzione. E cosa cercavano? Non solo la verità, ma anche un'avventura, nobile e leggera, animata dalla passione, perché cercava­no la cultura e senza passione non c'è cultura. L'avven­tura che diventa arte o tragedia. L'apice dello spirito e i pensieri concepiti con scintillio cristallino. Le città d'arte, invecchiate in armonia ed equilibrio, in cui vivevano uomini che nelle case volevano non solo abitare, ma an­che vivere; che non reputavano il concime artificiale im­portante quanto il contrappunto e non quotavano il ge­nio in borsa, come il bue da macello quando il prezzo della carne sale, ma lo misuravano in base alla capacità di opporsi che esso sa magicamente evocare. In una parola - e che parola potente! - c'era un'altra Europa. Bisogna­va cercarla, dicevo a me stesso per farmi coraggio. E allo­ra lasciai la Svizzera riscaldata e neutrale per la disordi­nata, sconfitta Italia.

 Il treno arrivò alla frontiera italiana dopo la mezzanot­te e ci volle tempo perché i funzionari lo lasciassero pro­seguire. Tutti erano sospetti allora - i treni, i passeggeri, il bagaglio. Ma il doganiere svizzero fu cortesemente su­perficiale nel guardare nello scompartimento, come se sentisse che «stare fuori» da qualcosa poteva essere un atto eroico ma anche un' onta. Non ti vergognare di star­ ne fuori, pensai mentre costui richiudeva la porta. Vi so­no dei traumi, degli sforzi che portano l'uomo più avan­ti, più in alto: l'amena Svizzera, chiusa tra le montagne, in cui la gente aveva sempre vissuto in condizioni di asfissia storica e claustrofobia morale, non era arrivata «più in alto», ma era rimasta indenne, quella che era. E alla fine rimanere se stessi è altrettanto eroico quanto cercare affannosamente la verità. Esistono cause che si possono vincere solo ad alto livello, e questa piccola isola d'Europa durante gli ultimi secoli aveva cercato di farlo con caparbietà e coerenza. Non ti vergognare di starne fuori, borbottavo tra me e me con grande convinzione mentre seguivo con lo sguardo il doganiere, è sufficiente che mi vergogni io, che sono stato «là» e non ho saputo dare aiuto. Non ti vergognare di vigilare con la coscienza sporca e pieno di sospetti sulla frontiera rocciosa di un piccolo paese il cui popolo ha saputo dire «no», e assu­mersene le conseguenze. E non ti vergognare nemmeno di vivere nel capitalismo, un sistema chiamato con un no­ me dal profumo antico come di lavanda, poiché questo sistema per il momento sembra produrre visibile soddi­sfazione senza far rumore: persone ben pagate eseguono il proprio lavoro e nessuno le disturba. Non ti vergogna­re di non essere un eroe, pensavo nel buio. E guardai dal finestrino perché finalmente il treno stava passando dal­la neutrale Svizzera alla sconfitta Italia.

 Finalmente respiravo. Qui tutto era noto, più umano e sincero che in Svizzera, dove gli abitanti avevano supera­to l'esame di storia a pieni voti. Gli italiani quanto meno non ribadivano la propria innocenza. Naturalmente coloro con cui parlavo dichiaravano di essere stati « partigiani», anche se poi molti di loro ammettevano che per venticinque anni, fatte poche eccezioni, erano stati fascisti. Inoltre erano poveri - la miseria della guerra perduta urlava nelle strade e nelle case -, e forse proprio per questo erano cordiali e umani.Andai a Roma, poi a Napoli. A Posillipo c'era il sole.

 Il ricordo della luce di quel sole mi accompagnò per resto del viaggio e tornò con me in Ungheria- e anche là, nei tempi bui che seguirono, continuò a splendere. - Il sole di Posillipo ha rappresentato l'unica realtà attraente, conciliante del mio viaggio in Occidente. Più tardi mi sarei ricordato di quella luce, di quel richiamo, e ripresa la strada dell'espatrio - questa volta per non fare più ritorno a casa - sarei andato a tuffarmi direttamente nella luce di Posillipo, come il suicida che dopo lungo indugio getta via il salvagente e si butta senza più esitazioni nel Niagara. Nella Luce, nella pura Luce, dopo il buio, la folle oscurità - ritornare alla Luce nella quale non si può ingannare  non vale la pena di mentire, dove tutto è raggiante,il vero e il falso; guardare la Luce negli occhi, quella che da qui si era irradiata tanto tempo prima verso la selvaggia, opaca Europa. E quanto avrei ripensato alla viva luce di Posillipo dieci anni dopo, tra i brividi delle mie notti al neon di NewYork.

 Ma nella Luce ci si può solo immergere, come nell’o­ceano: l'uomo non vi può vivere stabilmente, perché per­de i sensi. Solo nella penombra è possibile vivere – vivete, cioè progettare e poi agire. Perciò mi distesi sulla collina italiana a occhi chiusi, nella luce - poi partii per Parigi. (Sandor Marai, Terra terra, Adelfi ed., pag. 221-222)





Nessun commento:

Posta un commento