venerdì 28 luglio 2006

Anniversario



Ludwig Andreas Feuerbach (Landshut, Baviera, 28 luglio 1804 - Rechenberg, Norimberga, 13 settembre 1872)


Secondo Feuerbach è ateo non chi elimina Dio, il soggetto dei predicati religiosi, bensì chi elimina i predicati con i quali Dio è designato nell'esperienza religiosa, come bontà o saggezza o giustizia.


La religione precede sempre la filosofia, nella storia dell'umanità come nella storia dei singoli individui. L'uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo in sé. […] La religione è l'infanzia dell'umanità.


Il tempio non è che una testimonianza del valore che l'uomo attribuisce agli edifici. I templi in onore della religione sono in realtà templi in onore dell'architettura.


Vero ateo, cioè ateo nell’abituale significato della parola, non è perciò colui che nega Dio, il soggetto, ma colui che nega gli attributi dell’essere divino, quali l’amore, la sapienza, la giustizia. […] Una qualità non è divina per il fatto che Dio la possiede, ma Dio la possiede perché essa in sé e per se stessa è divina, perché Dio senza di essa sarebbe un essere imperfetto.


Quanto maggior valore i monaci attribuivano alla repressione della sensualità, tanto maggior valore aveva per essi la Vergine divina: sostituiva per essi perfino Cristo, perfino Dio. Quanto più la sensualità viene negata, tanto più sensuale è il dio a cui si sacrifica la sensualità.

L'uomo afferma in Dio ciò che nega in se stesso.


La religione cristiana fece distinzione fra la purezza morale interiore e la pulizia esteriore della persona; la religione ebraica le identificava. […] Israele è la più perfetta rappresentazione di religione positiva. Rispetto all'ebreo, il cristiano è uno spirito libero. Così mutano le idee. Ciò che ancor ieri era religione, oggi non lo è più, e ciò che oggi è considerato ateismo, sarà religione domani.


Non al Cristianesimo, non all'entusiasmo religioso, ma solo all'entusiasmo della ragione dobbiamo l'esistenza di una botanica, di una mineralogia, di una zoologia, di una fisica e di una astronomia.



L'amore di Dio per l'uomo - centro e fondamento della religione - è la prova più chiara, più irrefutabile che l'uomo nella religione contempla se stesso come un oggetto divino, come un divino scopo, e che i suoi rapporti con Dio non sono che rapporti con se stesso, con il suo proprio essere.



La provvidenza è un privilegio dell'uomo; esprime la superiorità dell'uomo sugli altri esseri naturali; lo sottrae alla concatenazione di tutto l'universo.


Vale la pena dareun'occhiata qui.



Dante e Maometto




Il  maggiore arabista spagnolo Palacios nel 1919 annunciò che Dante (1265 – 1321) nel suo capolavoro aveva ripreso alcuni testi arabi derivanti dal racconto dell’ascensione notturna di Maometto, in primis L’epistola del perdono e Le conquiste meccane di Ibn ‘Arabi.


Comparazione tra il poema dell’Alighieri e alcuni manoscritti arabi


Il sintetico riassunto di uno dei manoscritti analizzati dallo studioso può, da solo, illustrare il realismo delle pene che affliggono i dannati dell’inferno musulmano; leggiamo infatti che Maometto, accompagnato da due guide nell’inferno, ha modo di osservare una serie di raccapriccianti supplizi: “Vede per primo un uomo a terra supino e al suo fianco, in piedi, un'altra persona, uomo, angelo o demone: costui tiene nella propria mano un enorme masso o pilone di pietra, che scaglia violentemente sulla testa della sua vittima, schiacciandogli il cervello; il masso rotola, e quando il carnefice torna con esso al fianco della vittima, già il capo di questa riappare integro e sano, affinché il boia possa ripetere indefinitamente il suo supplizio.

Maometto, spaventato alla vista di uno spettacolo tanto atroce, vuole sapere di quali colpe sia rea la vittima, ma le sue guide lo obbligano a proseguire il cammino, finché trovano un uomo seduto, vicino al quale un altro carnefice, in piedi, introduce alternativamente in ognuna delle commessure della bocca un arpione di ferro che gli strazia le guance, gli occhi e le narici.

Un po' più in là si presenta alla sua vista un fiume rosso di sangue, agitato come se fosse pece bollente, tra le cui onde nuota a fatica un uomo che lotta per guadagnare la riva; ma nel giungere a questa ecco che un feroce boia lo aspetta con la mano piena di pietre roventi come braci e con violenza gliele introduce in bocca facendogliele inghiottire e obbligandolo a ritornare a nuoto fino al centro del fiume. E il supplizio si ripete, come i precedenti, all'infinito.

Più in là una costruzione a torre, stretta in alto e larga in basso, s'innalza davanti agli occhi dei viaggiatori. Si ode una confusa gazzarra di voci umane attraverso le mura. Una volta entrato all'interno, Maometto vede che esso è come un forno acceso, tra le cui fiamme si agitano donne e uomini nudi, che alternativamente sono scagliati fino alla bocca superiore del forno dalla forza delle fiamme, o scendono fino al fondo, a seconda che l'ardore del fuoco aumenti o diminuisca; la scena si ripete con un ritmo incessante, che i lamenti delle vittime sottolineano”.

L’uomo dal capo schiacciato è l’ipocrita; il dannato con il volto straziato dagli arpioni è il bugiardo; l’uomo che nuota nel fiume di sangue è l'usuraio; quelli che bruciano nel forno sono gli adulteri. Non è difficile cogliere il contrappasso, il rapporto di analogia tra colpa commessa e punizione. Occorre peraltro osservare che una forma di contrappasso è implicata anche nella legge mosaica del taglione.

Trovato qui.



La Divina commedia tra Abu l-‘Ala’ al-Ma‘arri e Dante      

di Salam Kubic Al-‘Atibi
    

 

Tra le fonti della Divina Commedia gli studiosi hanno riconosciuto l'Epistola del perdono del poeta siriano Abu l-‘Ala’ al-Ma‘arri.



Il paradiso di Al-Ma‘arri è popolato da linguisti e poeti, oltre che fanciulli ed eterni giovinetti, cantanti e musici che provvedono al loro servizio. Adamo viene introdotto per questionare su questioni poetiche e linguistiche. I jinn (geni) credenti sono poeti provetti, i serpenti declamano poesia e ce ne sono alcuni che tramite la lettura hanno preso conoscenza di testi. Ai poeti vengono rimessi i peccati grazie ai versi poetici composti e la loro posizione nel Paradiso dipende dal calibro della loro poesia. Cantanti intonano pezzi scelti di poesia, al cui suono e ritmo ballano le danzatrici. Il discorso dei penitenti volge su lingua e poesia,  concorrenti ed avversari si contendono e disputano gare su questioni linguistiche e racconti di poesia.


Il paradiso di Al-Ma‘arri è quello di un uomo che ha vissuto la maggior parte della vita invalido e confinato, battendosi contro gli amori e i desideri umani: non fu in grado di rappresentarsi un paradiso sereno di calma e pace, ma piuttosto uno pieno di movimento e rumore, danza e canto, passeggiate e battute di caccia; la voce si alza fino a diventare grido, il movimento si esaspera fino alla rissa.


Al-Ma‘arri, che si era negato ogni godimento della vita terrena, ha radunato nel suo paradiso tutto ciò di cui si era privato. Si è rappresentato con la sua natura umana passionale ma repressa generi di grande voluttà e di sollazzo materiale, spingendosi fino a personificare ed esemplificare questi godimenti. Chiaramente Al-Ma‘arri non può privare il suo paradiso dalle caratteristiche del nostro mondo. Sui castelli appaiono placche con i nomi dei poeti, l’entrata al paradiso non è accessibile senza un permesso approvato, ci sono cavalli per gli amanti della caccia e una cammella per chi ama mungere il latte; l’anziano ordina che tra i cuochi della sua mensa ce ne siano alcuni di Aleppo; i commensali non hanno bisogno di dichiarare quello che stuzzica il loro appetito: gli basta desiderare per trovare pronto davanti a sé ciò che desiderano.


Il paradiso non sarebbe tale per Al-Ma‘arri se in esso ci fosse il cieco e il disabile; ma non basta che il cieco possa vedere o che l’orbo abbia buona vista o il guercio occhi sani: occorre che a chiunque sia stato provato da un’imperfezione in questo mondo venga resa una compensazione nell’Aldilà che solo il povero afflitto ha diritto di proporre.


Lo stesso accade nell’inferno: a Bashar vengono dati occhi dopo una cecità congenita. Ibn al-Qarih chiede ai guardiani dell’inferno di vedere Muhalhal. Il dialogo tra i poeti nell’Inferno e l’anziano visitatore non tocca altri soggetti: parlando di poesia, lingua, racconti e plagi questi li conforta nel tormento, si rattrista della loro sventura e si affligge per le loro sofferenze senza peraltro spogliarli di emozioni umane.


Al-Ma‘arri nella raffigurazione dell’Aldilà è influenzato senz’altro dalla descrizione dell’ambiente islamico e in particolare quella del Corano e dei racconti islamici sulle ricompense, le punizioni e l’intercessione contenute nei libri di Hadith e di esegesi, nel racconto del Mi‘raj, oltre al corpus poetico arabo preislamico e protoislamico, per quanto concerne la descrizione di piaceri e godimenti, arti dell’intrattenimento, del canto e del divertimento. Al-Ma‘arri le trasporta nel suo paradiso insieme ai miti arabi che l’ambiente islamico ha prodotto sulle macchinazioni e le avventure dei jinn (geni) o le scaramucce tra le vergini del Paradiso.


Sta di fatto che l’Epistola del perdono rimane una fertile e viva riserva del patrimonio umano di cui non abbiamo ancora interiorizzato tutti i tesori e di cui non abbiamo scoperto tutti i segreti artistici.


Se non fosse stato per la Divina Commedia, l’Epistola del perdono non sarebbe uscita dalla sua tomba.


Gli italiani rifiutarono la tesi di Palacios, ma la dimostrazione giunse quando l’orientalista italiano Enrico Cerulli pubblicò nel 1949 un libro in cui divulgava la traduzione latina e provenzale di libri arabi sul Mi‘raj islamico. La storia di questa traduzione si riassume come segue: Alfonso X, re di Castiglia, commissionò la traduzione dei testi dall’arabo al castigliano, cosa che venne eseguita dal medico ebreo Ibrahim al-Hakim nel 1264, ovvero un anno prima della nascita di Dante. Sempre in quell’anno, il medesimo re commissionò al traduttore italiano Bonaventura da Siena la versione dal castigliano al latino e al provenzale per diffonderla al di là di confini della Spagna. Con questo, Cerulli sostenne l’idea di Palacios senza lasciare ombra di dubbio sul fatto che Al-Ma‘arri portò ogni mortale al cielo grazie alla sua Epistola del perdono.

Trovato qui




 

giovedì 27 luglio 2006

venerdì 14 luglio 2006

Il quarto segreto di Fatima

e la fuga su Marte



Altra ipotesi. Zidane: "Ehi, piantala di tirarmi la maglietta. Se proprio la vuoi, te la regalo dopo la fine". Materazzi: "Preferisco toglierla a tua moglie (Veronique)".


«Quando Marco l'ha trattenuto - racconta il padre di Materazzi - Zidane gli ha detto "se vuoi la maglia te la do a fine partita", per schernirlo, e Marco gli ha risposto che poteva darla a un'altra persona.

 Se Zidane - spiega - per giustificare il suo gesto ha raccontato storie non veritiere, probabilmente ci può stare anche una reazione del genere. Credo, però, che avrebbe dovuto parlare subito e non aspettare tre giorni: per me ha fatto un'ulteriore brutta figura». L'ultima battuta Materazzi senior la dedica alla madre di Zidane che ha dichiarato di voler «castrare il giocatore azzurro». «Le chiedo di riferire al figlio di essere corretto e di dire cosa è realmente avvenuto senza giustificare il suo comportamento non sportivo. Mio figlio ha perso la madre a 15 anni e ha massimo rispetto per quelle degli altri. Io la capisco, ma quando mio figlio ha sbagliato, a differenza sua l'ho rimproverato».

Mokhtarr Addad, cugino di Zizou, ha una convinzione molto personale: "Per me gli ha detto figlio di un Harkis". Un Harkis, ai tempi della Battaglia di Algeri, era un collaborazionista dei francesi. Se davvero "Matrix" lo avesse provocato così meriterebbe quantomeno una cattedra di storia in qualche università...


Controcanto

Che pacchia per Israele questa arma di distrazione di massa. Mentre Negroponte-bush vincono in Iraq  le olimpiadi del terrorismo.

E l'ONU blablabla. E l'Europa piange e sta. E l'Italia afganistà.



Meglio andarsene con Exomars


L'Agenzia Spaziale Europea ha presentato il proprio automa che  perlustrerà in piena autonomia il Pianeta Rosso.  

Roma - Il robot europeo si chiama ExoMars e partirà nel 2011 per eseguire rilevamenti biochimici e geologici sulla superficie marziana. Concettualmente simile al Mars Rover della NASA, ExoMars verrà interamente sviluppato dagli scienziati di ESA, l'agenzia spaziale europea.


Il robot, compatto ed equipaggiato di ruote resistenti, sarà il protagonista di quella che viene considerata la prima missione puramente esobiologica, ovvero pensata per "andare a caccia" di vita extraterrestre. In realtà nella pagina dedicata alla missione appare chiaro come il lavoro di Exomars potrà rivelarsi determinante soprattutto in vista di una futura colonizzazione del pianeta.


ExoMars potrà essere comandato da Terra, ma gode di numerose funzioni d'intelligenza artificiale: secondo gli scienziati europei, il robot è capace di muoversi in maniera autonoma e condurre i propri esperimenti senza bisogno di interventi umani. "Si guiderà da solo e riuscirà ad identificare gli obiettivi della propria missione a seconda della situazione e degli ordini precedentemente ricevuti", ha detto Bob Chesson, responsabile del programma d'esplorazione spaziale di ESA.


Grazie ad una serie di sensori ottici polifunzionali, ExoMars potrà "tastare" le condizioni ambientali ed atmosferiche circostanti ed adattare i propri movimenti in base al luogo in cui si trova. Durante l'esplorazione di Marte, ExoMars userà una telecamera a 360 gradi per ricostruire con estrema precisione un modello geografico tridimensionale del pianeta rosso.

La missione del 2011 sarà il primo tentativo di ESA nell'esplorazione della superficie di un altro pianeta. L'unico precedente nella storia dell'esplorazione spaziale europea è il lancio della sonda Huygens all'interno della tumultuosa atmosfera di Titano, grande ed affascinante satellite di Saturno. ESA ha naturalmente partecipato in varie forme a numerose altre missioni spaziali perlopiù organizzate dalla NASA americana.

Conclusione

mercoledì 12 luglio 2006

Le aziende di Stato sono di proprietà dei cittadini. I manager che le gestiscono devono operare nell'interesse del Paese. Devono essere competenti. Non devono essere stati condannati in via definitiva o avere processi in corso. E ricevere uno stipendio equo per il compito che svolgono. Vi sembra ragionevole quello che ho scritto?


Continua con Beppe Grillo



martedì 11 luglio 2006

Lo scoop


Zinedine Zidane rivela a un giornalista dell'Equipe il motivo del suo folle gesto:So di aver sbagliato e di aver penalizzato la squadra; sono molto dispiaciuto e chiedo scusa ai compagni, all'allenatore, alla Francia intera. Quello che mi ha detto Materazzi?
Torna a giocare alla Juventus, zebra dei miei stivali (versione soft ANSA),  zebraccia di m. (versione hard AP) 
Nota storico-biografica
Zinédine Yazid Zidane   (Marsiglia, 23 giugno 1972), soprannominato Zizou, è un calciatore del Real Madrid e della nazionale francese, di origine berbero-algerina (della Cabilia), figlio di immigrati in seguito alla guerra d'Algeria.
Zidane è sposato con una donna francese di origine spagnola ed ha quattro figli.
Nel 2004, è stato incluso nella FIFA 100, una lista dei 125 più grandi giocatori viventi, selezionata da Pelé in occasione delle celebrazioni del centenario della FIFA.
Per le olimpiadi di Atene 2004 è stato uno dei tedofori.
Il 25 aprile 2006, ha annunciato il ritiro dopo i Mondiali di Germania. Nel corso della finale degli stessi Zidane macchia la propria prestazione colpendo con una testata il giocatore della nazionale italiana Marco Materazzi, gesto che gli costa l'espulsione, la dodicesima della carriera (3 a Bordeaux, 5 con la Juventus, 2 con il Real Madrid ed una con la nazionale Francese contro l'Arabia Saudita nel 1998, anche quest'ultima per gioco violento). Il giorno successivo, il 10 luglio 2006, Zidane viene comunque eletto miglior giocatore del mondiale. Il gesto inqualificabile, peraltro non per la prima volta nella sua carriera, costituisce una macchia sulla sua figura di campione e sconfessa l'onestà di coloro che, nonostante tutto, lo hanno eletto giocatore del mondiale.


Trofei
Con la nazionale francese (esordio nell'agosto 1994):


Campionato mondiale di calcio
Vincitore: 1998
apparizioni: 1998, 2002, 2006
Campionato europeo di calcio
Vincitore: 2000
apparizioni: 1996, 2000, 2004

Con la Juventus:
Supercoppa europea: 1996
Coppa Intercontinentale: 1996
Campionato italiano di Serie A: 1996/1997, 1997/1998
Supercoppa italiana: 1997

Con il Real Madrid:
UEFA Champions League: 2001/2002
Supercoppa europea: 2002
Coppa Intercontinentale: 2002
Campionato spagnolo - La Liga: 2002/2003

Personali:
FIFA World Player: 1998, 2000, 2003
Pallone d'Oro: 1998



I Berberi sono fieri dell'ascendenza cabila di Isabelle Adjani, e lei stessa non ha mancato di esprimere in più occasioni, sia pur con la sua tradizionale riservatezza, il proprio appoggio alla lotta di questi ultimi per il riconoscimento della propria lingua e cultura.

Isabelle Yasmine Adjani (nata il 27 giugno 1955 a Parigi) è un'attrice francese, di padre cabilo e di madre tedesca.
Fonte: Wikipedia


Aggiornamento del 12 luglio
...
4 - Mi sconvolge l'atteggiamento che ritiene che l'insulto - razzista o meno, non importa - sia la normalità in un campo di gioco. Zidane ha sbagliato a dare la testata, ma credo sia anche doveroso dire che ha sbagliato anche chi lo ha provocato. E invece da quello che leggo nei commenti sembra che l'unico ad aver sbagliato sia stato Zidane, reo di essere stato "visto" in quanto "l'insulto" che avrebbe detto Materazzi - che invece non si è sentito - "è una cosa normale durante le partite" e se proprio Zidane si era offeso, "bastava che insultasse anche lui Materazzi". Mah, sarà l'educazione salesiana ma questo ragionamento non mi convince affatto: la testata, come l'insulto, sono comportamenti vergognosi e sanzionabili. Se Zidane è stato espulso, anche Materazzi dovrebbe essere sanzionato.
Continua con Salam Elik



lunedì 10 luglio 2006


La trota ai tempi di Zorro è la prima prova narrativa di Michele Marziani, giornalista quarantenne appassionato di gastronomia e di pesca. Un romanzo in cui gli anni di piombo sono visti con gli occhi di un ragazzino, ingenui e curiosi e la pesca alla trota diventa chiave di lettura del mondo, possibilità di conoscenza e di riscatto rispetto al cinismo della vita.

Nota: A Mic Marziani debbo un ringraziamento: quello di avere aperto il blog collettivo sulla pace e sulla guerra, nel quale io - Stigli - da mesi scarico le mie tensioni indotte dalla premiata ditta Bush&Gang, specializzata nella produzione di guerra continua e terrorismo preventivoI miei 25 lettori possono così sperare di respirare qui su Barbabianca un'aria meno serrata e un po' più distesa.

Se quando che sia Marziani vorrà venire a dare un'occhiata alle trote che stanno acquattate nei "ruscelletti che de' verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, facendo i lor canali freddi e molli" sarà il benvenuto
.


Aggiornamento del 13 luglio.

Paola, la scrittrice-lettrice di casa, mi suggerisce la lettura di uno dei 49 racconti di Hemingway. Insiste che questi racconti sono più belli di certi suoi romanzi. Leggi questo...

Si tratta di una pesca alla trota e lo allego qui in onore di Marziani:


Grande fiume dai due Cuori

 -.Parte seconda


Al mattino il sole era alto e la tenda cominciava a scaldarsi. Nick uscì strisciando sotto la zanzariera tesa sopra l’imboccatura della tenda, per guardare il mattino. Mentre usciva sentì l’erba bagnata sotto le mani. Teneva in mano i calzoni e le scarpe. Il sole era appena spuntato dietro la collina. C’erano il prato, il fiume e la palude. C’erano delle betulle in mezzo al verde della palude sull’altra riva del fiume.

- Il fiume scorreva tranquillo, limpido e veloce nel primo mattino. Duecento metri a valle c’erano tre tronchi che lo sbarravano da una riva all’altra creando sopra di loro una pozza d’acqua profonda e tranquilla. Mentre Nick guardava, un visone attraversò il fiume sui tronchi e sparì nella palude. Nick era elettrizzato. Era elettrizzato dal primo mattino e dal fiume. Aveva veramente troppa fretta per fare colazione, ma sapeva di non poterlo evitare. Accese un focherello e vi mise sopra la caffettiera.

Mentre l’acqua si scaldava nella caffettiera prese una bottiglia vuota e scese sul prato dal rialzo dove aveva piantato la tenda. Il prato era umido di rugiada e Nick voleva prendere delle cavallette come esca prima che il sole asciugasse l’erba. Trovò un mucchio di ottime cavallette. Erano alla base dei fili d’erba. A volte si tenevano attaccate a un filo d’erba. Erano fredde e bagnate di rugiada, e non potevano saltare finché il sole non le avesse scaldate. Nick le raccoglieva, prendendo solo quelle brune di media grandezza, e le infilava nella bottiglia. Rovesciò un tronco e appena sotto l’orlo c’erano parecchie centinaia di cavallette. Era una pensione per cavallette. Nick ne mise una cinquantina, di quelle brune di media grandezza, nella bottiglia. Mentre stava raccogliendo le cavallette, le altre si scaldavano al sole e cominciavano a saltar via. Saltando si mettevano a volare. In principio facevano solo un volo e quando atterravano rimanevano irrigidite, come morte.

Nick sapeva che quando avesse finito di fare colazione sarebbero tornate alla vivacità di sempre. Senza rugiada sull’erba gli ci sarebbe voluto tutto il giorno per riempire una bottiglia di buone cavallette, e avrebbe anche dovuto schiacciarne parecchie, mentre le colpiva col cappello. Si lavò le mani nel fiume. La sua vicinanza lo elettrizzava. Poi ritornò alla tenda. Le cavallette stavano già saltando rigidamente tra l’erba. Nella bottiglia, scaldata dal sole, formavano una massa saltellante. Nick vi ficcò dentro, per tapparla, un ramo di pino. Chiudeva abbastanza bene la bocca della bottiglia, così da impedire alle cavallette di uscire, pur lasciando passare tutta l’aria che ci voleva.

Nick aveva rimesso a posto il tronco e sapeva che ogni mattina le cavallette avrebbe potuto trovarle là.

Appoggiò al tronco di un pino la bottiglia piena di cavallette saltellanti. Mescolò rapidamente un goccio d’acqua a un po’ di farina di grano saraceno e lavorò la pasta fino ad ammorbidirla, una tazza di farina, una tazza d’acqua. Mise nella caffettiera un pugno di caffè e tolse un pezzo di grasso da un barattolo e lo fece scivolare, sfrigolando, sul fondo della padella bollente. Sulla padella fumante versò pian piano la pasta di farina di grano saraceno. Si spandeva come lava, col grasso che friggeva scoppiettando. Ai margini la frittella di grano saraceno cominciò a indurirsi, poi a dorarsi, poi a diventare croccante. La superficie, bollendo, acquistava lentamente la sua porosità. Nick spinse sotto la faccia inferiore rosolata una scheggia di pino tagliata di fresco. Scosse trasversalmente la padella e la frittella si staccò dal fondo. A farla saltare non mi azzardo proprio, pensò. Fece scivolare sotto la frittella la scheggia di legno pulito e la voltò. La frittella sfrigolava sul fondo della padella.

Quando fu cotta Nick tornò a ungere la padella. Usò tutta la pasta. Bastò per un’altra frittella e per una più piccina.

Nick mangiò una frittella grande e la più piccola, coperte di purè di mele cotte. Spalmò la marmellata sulla terza, la piegò in due, l’avvolse in un pezzo di carta oleata e se la mise nella tasca della camicia. Ripose nello zaino il vaso di marmellata di mele e tagliò il pane per due sandwich.

Nel sacco trovò una grossa cipolla. La tagliò in due e tolse la lucente pellicola esterna. Poi affettò una delle due metà e fece dei panini con la cipolla. Li avvolse in un pezzo di carta oleata e se li abbottonò nell’altra tasca della camicia cachi. Capovolse la padella sulla graticola, bevve il caffè, addolcito e tinto d’un marrone chiaro dal latte condensato che vi aveva messo dentro, e riordinò il campeggio. Era un buon campeggio.

Nick tolse la canna da mosca dall’astuccio di cuoio delle canne, la montò e rimise l’astuccio nella tenda. Montò il mulinello e infilò la lenza nelle guide. Doveva passarsela da una mano all’altra, mentre la infilava, altrimenti sarebbe stata tirata giù e sfilata dal suo stesso peso. Era una lenza da mosca a fuso doppio, pesante. Nick l’aveva pagata Otto dollari tanto tempo prima. La facevano apposta, pesante, perché fosse possibile prendere la spinta e lanciarla davanti a sé, dritto e lontano, con una mosca che non pesa nulla. Nick aprì la scatola d’alluminio dei bassi di lenza. I bassi erano arrotolati tra due tamponi di flanella umida. Nick aveva inumidito i due tamponi con l’acqua del refrigeratore sul treno per St.Ignace. Tra i due tamponi umidi i bassi di budello si erano ammorbiditi e Nick ne svolse uno e lo assicurò con un nodo all’estremità della pesante lenza da mosca. Alla punta del basso attaccò un amo. Era un amo piccino: molto elastico e sottile.

Nick lo prese dal libretto degli ami, stando seduto con la canna sulle ginocchia. Tirando la lenza provò il nodo e l’elasticità della canna. Era una sensazione piacevole. Nick badò a non farsi mordere il dito dall’amo.

Si avviò lungo il fiume con la canna in mano e la bottiglia di cavallette appesa al collo con una cinghia legata con una serie di nodi mezzo collo intorno al collo della bottiglia. Il guadino era appeso con un ~gancio alla cintura. Sopra la spalla aveva un lungo sacco da farina legato agli angoli con una funicella. La funicella gli passava sopra la spalla. Il sacco gli batteva sulle gambe.

Nick si sentiva goffo e felice, professionalmente, con addosso tutto quell’armamentario. La bottiglia delle cavallette gli dondolava su1 petto. Il pranzo e il libretto degli ami gli gonfiavano le tasche della camicia.

Entrò nell’acqua. Fu un colpo. I calzoni gli aderivano alle gambe. Le scarpe tastavano la ghiaia. L’acqua fredda era uno shock.

Impetuosa, la corrente gli risucchiava le gambe. Dov’era entrato lui, l’acqua gli arrivava sopra le ginocchia. Camminò seguendo la corrente. La ghiaia gli scivolava sotto le scarpe. Abbassò lo sguardo al mulinello che l’acqua gli formava sotto le gambe e capovolse la bottiglia per prendere una cavalletta.

La prima cavalletta saltò fuori dal collo della bottiglia e cadde in acqua. Venne risucchiata sotto la superficie dal gorgo vicino alla gamba destra di Nick e riemerse un po’ più a valle. Galleggiava, muovendo le zampine. Scomparve in un cerchio improvviso che aveva rotto la liscia superficie. Una trota l’aveva catturata.

Un’altra cavalletta si affacciò alla bottiglia. Le sue antenne vibravano. Stava mettendo fuori le zampe anteriori per saltare. Nick la prese per la testa e la tenne ferma mentre le infilava il sottile amo sotto il mento, attraverso il torace e negli ultimi segmenti dell’addome. La cavalletta si aggrappò all’amo con le zampe anteriori, sputandovi sopra sugo di tabacco. Nick la lasciò cadere in acqua.

Tenendo la canna nella destra diede filo alla cavalletta portata dalla corrente. Svolse con la sinistra la lenza dal mulinello e lo lasciò girare. Vedeva la cavalletta sulle piccole onde del fiume. Poi la cavalletta scomparve.

Ci fu uno strappo. Nick tirò e la lenza si tese. Era il suo primo ferraggio. Tenendo la canna, ora viva, oltre la corrente, tirò la lenza con la mano sinistra. La canna si piegava, a scatti, quando la trota dava un guizzo per fuggire. Nick sapeva che era un pesce piccolo. Alzò dritta in aria la canna che s incurvava per la tensione.

Vide la trota nell’acqua opporsi con la testa e tutto il corpo alla volubile tangente della lenza nel fiume.

Nick prese la lenza con la sinistra e tirò la trota, che lottava stancamente contro la corrente, a galla. Il dorso era screziato dei colori chiari dell’acqua sulla ghiaia, il fianco brillava sotto i raggi del sole. Con la canna sotto il braccio destro, Nick si chinò, immergendo la mano destra nella corrente. Tenne la trota, mai ferma, con la destra bagnata, mentre le staccava l’amo dalla bocca, poi la lasciò ricadere nel fiume.

La trota oscillò incerta nella corrente, poi si fermò sul fondo vicino a un sasso. Nick abbassò la mano per toccarla, col braccio immerso fino al gomito. La trota era immobile nell’acqua in movimento, posata sulla ghiaia, vicino a un sasso. Quando le dita di Nick la toccarono, quando toccarono, sott’acqua, la sua pelle viscida e fresca, la trota sparì, sparì come un’ombra sul fondo del fiume.

Sta benone, pensò Nick. Era solo stanca.

Si era bagnato la mano prima di toccare la trota per non togliere il delicatissimo muco che la copriva. Se si toccavano le trote con le mani asciutte, un fungo bianco attaccava il punto rimasto senza protezione. Alcuni anni prima, quando pescava in fiumi affollati, con pescatori alla mosca a monte e a valle, Nick aveva trovato molto spesso delle trote morte, coperte da una peluria di funghi bianchi, spinte dalla corrente contro un masso o galleggianti in una pozza a pancia in su. Nick non amava pescare con altri uomini sul fiume. Se non erano della tua comitiva, rovinavano tutto.

Sguazzò lungo il fiume, che in mezzo alla corrente gli copriva le ginocchia, attraverso i cinquanta metri d’acqua bassa a monte del mucchio di tronchi che sbarravano il fiume. Non tornò a innescare l’amo e lo tenne in mano mentre camminava. Era certo di poter prendere delle trotelle nell’acqua bassa, ma non le voleva. E a quell’ora nell’acqua bassa non potevano esserci trote grosse.

Poi l’acqua divenne più alta, fredda e pungente intorno al-

le sue cosce. Davanti a lui c’era la cascatella formata dalla diga di tronchi. Qui l’acqua era placida e scura; a sinistra, la parte inferiore del prato; a destra la palude.

Nick puntò i piedi contro la corrente e tolse una cavalletta dalla bottiglia. Infilò la cavalletta sull’amo e ci sputò sopra per scaramanzia. Poi srotolò dal mulinello parecchi metri di lenza e lanciò la cavalletta davanti a sé sull’acqua scura e veloce. L’esca scese galleggiando verso i tronchi, poi il peso della lenza la trascinò sotto la superficie. Nick teneva la canna nella destra, lasciando scorrere il filo tra le dita.

Ci fu un lungo strattone. Nick tirò e la canna diventò viva e pericolosa, piegandosi in due, mentre la lenza si tendeva, usciva dall’acqua, si tendeva, sempre più forte e pericolosamente. Nick avvertì che il basso di lenza si sarebbe spezzato, se fosse aumentata la tensione, e allora mollò il filo.

Il mulinello mandava uno stridulo lamento mentre la lenza si svolgeva a precipizio. Troppo in fretta. Nick non riusciva a frenarla, la lenza si svolgeva, e mentre la lenza finiva la nota del mulinello diventava più acuta.

Col mulinello quasi vuoto, col cuore in gola per l’emozione, puntando i piedi contro la corrente che gli lambiva gelidamente le cosce, Nick cercava di fermare il mulinello col pollice della sinistra. Non era facile ficcare il pollice nel tamburo del mulinello.

Quando premette col dito la lenza si tese all’improvviso e dietro i tronchi una grossissima trota fece un salto fuori dall’acqua. Mentre saltava, Nick abbassò la punta della canna. Ma sentì, mentre abbassava il cimino per ridurre la tensione, il momento in cui lo sforzo era troppo sostenuto, e il filo troppo teso. Di sicuro il basso di lenza si era rotto. Impossibile sbagliarsi, quando il filo perdeva tutta la sua elasticità e diventava secco e duro, per poi allentarsi di colpo.

La bocca asciutta, il cuore in tumulto, Nick girò il mulinello. Non aveva mai visto una trota così grossa. C’era una pesantezza, una forza irresistibile, e poi la sua mole, mentre saltava. Pareva grossa come un salmone.

Gli tremava la mano, mentre girava lentamente il mulinello. L’emozione era stata troppo forte. Nick provava un vago senso di nausea. Forse sarebbe stato meglio mettersi a sedere.

Il basso di lenza si era rotto nel punto in cui era attaccato all’amo. Nick lo prese in mano. Pensò alla trota là sui fondo, chissà dove, che si teneva sospesa sopra i sassi, lontano dalla luce, sotto i tronchi, con l’amo infisso nella mandibola. Nick sapeva che i denti della trota avrebbero tagliato il filo dell’amo. L’amo le si sarebbe incistato nella mandibola. Per forza la trota era furiosa. Chi non si sarebbe infuriato, se fosse stato grosso come lei? Che trota. Nick l’aveva ferrata bene. Ma era solida come una roccia. E sembrava davvero una roccia, prima di scappare. Pendio, che trota. Pendio, era la più grossa di cui si fosse mai sentito parlare.

Nick si arrampicò sulla riva e si fermò sul prato, con l’acqua che gli grondava dai calzoni e dalle scarpe, che mandavano rumori chiocci. Attraversò il prato e si sedette sui tronchi. Voleva assaporare con calma le proprie sensazioni.

Mosse le dita nell’acqua, nelle scarpe, e tolse una sigaretta dal taschino. L’accese e gettò il fiammifero nell’acqua che scorreva veloce sotto i tronchi. Una minuscola trota venne a galla, attirata dal fiammifero che girava su se stesso nella corrente impetuosa. Nick scoppiò in una risata. Prima voleva finire la sigaretta.

Sedeva sui tronchi, fumando, asciugandosi al sole, col sole che gli scaldava la schiena, col fiume poco profondo davanti a sé che entrava nel bosco, che formava un’ansa e poi entrava nel bosco; lingue di terra, luci sfavillanti, grandi massi levigati dall’acqua, cedri lungo la riva e bianche betulle, i tronchi caldi sotto i raggi del sole, lisci sotto il sedere, senza corteccia, grigi sotto le dita; piano piano la delusione gli passò. Scomparve lentamente, la delusione che lo aveva preso subito dopo il brivido di emozione che gli aveva fatto dolere le spalle. Ora andava tutto bene. Con la canna posata sui tronchi, Nick legò al basso di lenza un altro amo, tirando il budello finché non si fu stretto in un nodo indissolubile.

Mise l’esca, poi prese la canna e si diresse verso l’altra estremità della diga di tronchi per entrare in acqua, dove non era troppo alta. Sotto i tronchi, e al di là, c’era una pozza profonda. Nick passò tra il fiume e la palude, dove l’acqua era bassa, e tornò a inoltrarsi nel fiume dove il suo letto quasi riaffiorava.

A sinistra, dove il prato finiva e cominciava il bosco, c’era un grande olmo sradicato. Caduto durante un temporale, era disteso nel bosco, con le radici incrostate di terriccio e l’erba che vi cresceva in mezzo, e formava una solida sponda lungo il fiume. Il fiume scorreva proprio ai margini dell’albero sradicato. Da dove si trovava Nick poteva vedere i profondi canali, simili ai solchi lasciati dalle ruote di un carro, scavati dalla corrente nel letto poco profondo del fiume. Sassoso dove si trovava lui e sassoso e pieno di massi più in là; dove il fiume formava un’ansa, vicino alle radici dell’albero, il suo letto era marnoso, e tra i solchi scavati dall’acqua ciuffi di alghe verdi ondeggiavano nella corrente.

Nick fece roteare la canna e lanciò, e il filo, descrivendo una parabola, depose la cavalletta sopra uno dei profondi canali pieni di alghe. Una trota abboccò e Nick la prese all’amo.

Tenendo la canna puntata verso l’albero sradicato e sguazzando all’indietro nella corrente, Nick portò la trota, che tirava, con la canna piegata come una cosa viva, fuori dal pericolo delle alghe, nel fiume aperto. Tenendo la canna, che come una cosa viva lottava contro la corrente, Nick tirava la trota verso di lui. La trota dava degli strappi, ma finiva sempre per cedere terreno, con la canna che assorbiva gli strappi grazie alla sua elasticità, e che a volte finiva con la punta sott’acqua, ma che non la smetteva di trascinare il pesce. Piano piano Nick vinse la sua resistenza. Con la canna sopra la testa, portò la trota sopra il guadino e la sollevò.

La trota era pesante nella rete, col suo dorso screziato e i fianchi argentei tra le maglie. Nick la staccò dall’amo —fianchi pesanti, facili da stringere, grossa mandibola sporgente — e la fece scivolare, grossa e guizzante com’era, nel lungo sacco che dalle spalle gli pendeva in acqua.

Nick allargò la bocca del sacco contro la corrente e il sacco si riempì, gonfiandosi d’acqua. Lo sollevò, col fondo nel fiume, e l’acqua zampillò dalle pareti. Dentro, sul fondo, c’era la grossa trota, viva nell’acqua.

Nick scese un po’ a valle. Il sacco, spinto dalla corrente davanti a lui, affondava nell’acqua, segandogli le spalle.

Cominciava a far caldo, il sole scottava sulla nuca.

Nick aveva una bella trota. Non gli importava di prenderne molte. Ora il fiume era largo e poco profondo. C’erano alberi su entrambe le rive. Gli alberi della riva sinistra formavano, sotto il sole del mattino, brevi ombre sulla corrente. Nick sapeva che in ciascuna di quelle ombre c’erano delle trote. Nel pomeriggio, dopo che il sole, scavalcando il corso d’acqua, si fosse spostato verso le colline, le trote avrebbero indugiato nelle ombre fresche dall’altra parte del fiume.

Le più grosse si tenevano vicino alla riva. Era sempre lì che le trovavi, sul Black. Quando il sole tramontava si spostavano tutte. Nel preciso momento in cui il sole, prima di sparire, trasformava con i suoi raggi la superficie dell’acqua in uno specchio abbacinante, potevi prendere una grossa trota pescando in qualsiasi punto della corrente. Era quasi impossibile pescare, allora, perché la superficie dell’acqua era accecante come uno specchio esposto al sole. Naturalmente potevi pescare controcorrente, ma in un fiume come il Black, o come questo, dovevi procedere, sguazzando, controcorrente, e nei punti dove l’acqua era profonda la corrente ti portava via. C’era poco da divertirsi a pescare contro-corrente, in quelle condizioni.

Nick camminava nell’acqua bassa cercando i buchi profondi vicino alle rive. C’era un faggio che cresceva lungo il fiume, lasciando pendere i rami nell’acqua. Il fiume si spingeva sotto le foglie. C’erano sempre delle trote in un posto come quello.

Nick non voleva pescare in quel buco. Era certo che avrebbe impigliato l’amo nei rami.

Sembrava profondo, però. Nick lasciò cadere la cavalletta in modo che la corrente la trascinasse sott’acqua, sotto il ramo proteso. La lenza si tese e Nick tirò. La trota si dibatteva pesantemente, mezzo fuor d’acqua tra i rami e le foglie. La lenza s’impigliò. Nick diede uno strattone e la trota guizzò via. Nick riavvolse il filo sul mulinello e, con l’amo in mano, continuò a scendere a valle.

Davanti a lui, vicino alla riva sinistra, c’era un grosso tronco. Nick vide che era cavo; descrivendo una curva come se volesse risalire il fiume, la corrente vi entrava senza intoppi, increspandosi appena ai lati del tronco. L’acqua stava diventando più alta. La parte superiore del tronco cavo era grigia e asciutta. Il tronco era, in parte, all’ombra.

Nick tolse il tappo dalla bottiglia delle cavallette e scoprì che c’era attaccata una cavalletta. La prese, la mise sull’amo e la gettò in acqua. Tenne la canna lontano, in modo che la cavalletta, galleggiando, venisse presa dalla corrente che entrava nella cavità del tronco. Nick abbassò la canna e la cavalletta sparì dentro il tronco. Ci fu uno strappo violento. Nick strinse e tirò nell’altro senso. Sembrava che l’amo si fosse impigliato nel tronco, se non ci fosse stata quella sensazione di aver pescato qualcosa di vivo.

Nick cercò di costringere il pesce a uscire da sotto il tronco. Faticosamente vi riuscì.

Poi la lenza si allentò e Nick credette che la trota fosse scappata via. La vide, invece, vicinissima, nella corrente, che scuoteva la testa, cercando di liberarsi. Teneva la bocca ermeticamente chiusa. Lottava contro l’amo nell’acqua limpida del fiume.

Avvolgendo la lenza con la mano sinistra, Nick girò la canna per tendere il filo e cercò di guidare la trota verso il guadino, ma la trota fece un guizzo e scomparve, dando degli strappi alla lenza. Nick la tenne ferma, controcorrente, lasciando che lottasse, nell’acqua contro l’elasticità della canna. Passò la canna nella mano sinistra, tirò la trota a sé, guadagnando terreno a poco a poco, spostando la canna su e giù, e alla fine la portò sopra il guadino. La sollevò dall’acqua, un pesante semicerchio nella rete, con la rete gocciolante, la staccò dall’amo e la mise nel sacco.

Aprì la bocca del sacco e guardò le due grosse trote vive nell’acqua.

Camminando nell’acqua sempre più profonda, Nick si avvicinò al tronco cavo. Si tolse il sacco, sfilandoselo dalla testa, con le trote che si dibattevano quando uscivano dall’acqua, e lo appese in modo che le trote rimanessero sott’acqua. Poi si issò sul tronco e si sedette, con l’acqua che gli zampillava dai calzoni e dagli scarponi nel fiume. Depose la canna, si spostò verso l’estremità del tronco che era all’ombra e trasse di tasca i panini. Tuffò i panini nell’acqua fredda. La corrente portò via le briciole. Mangiò i panini e riempì il cappello d’acqua da bere, con l’acqua che gli sfuggiva dalle labbra per colare giù dal fondo.Faceva fresco all’ombra, seduti sul tronco. Nick tirò fuori una sigaretta e strofinò un fiammifero per accenderla. 11 fiammifero affondò nel legno grigio, scavandovi un piccolo solco. Nick si sporse da un lato del tronco, trovò un punto duro e accese il fiammifero. Sedette a fumare e a guardare il fiume.

Più avanti, il fiume si restringeva ed entrava in una palude. Il fiume diventava tranquillo e profondo e la palude pareva fitta di cedri, con i tronchi vicinissimi e i rami intrecciati. Non sarebbe stato possibile attraversare una palude come quella. I rami erano troppo bassi. Bisognava tenersi quasi a livello del terreno, per potersi muovere. Non potevi farti largo tra i rami. Doveva essere questo il motivo per cui gli animali che vivevano nelle paludi erano fatti com’erano, pensò Nick.

Gli dispiaceva di non aver portato qualcosa da leggere. Aveva voglia di leggere. Non aveva voglia di entrare nella palude. Guardò nella direzione in cui scendeva il fiume. C’era un grosso cedro inclinato che lo attraversava da una sponda all’altra. Dopo quell’albero, il fiume entrava nella palude.

Ora Nick non aveva voglia di andarci. Lo infastidiva l’idea di camminare nella palude con l’acqua fino alle ascelle, di prendere grosse trote in posti dov’era impossibile tirarle a riva. Nella palude le rive erano brulle, i grossi cedri si univano sopra la testa, il sole non penetrava, salvo che a tratti; nell’acqua rapida e profonda, nella mezza luce, pescare sarebbe stato una tragedia. Pescare nella palude era una tragica avventura. Nick poteva farne a meno. Oggi non aveva voglia di scendere ancora più a valle.

Estrasse il coltello, lo aprì e lo piantò nei tronco. Poi tirò il sacco fuori dall’acqua, vi ficcò una mano dentro e ne tolse una trota. Reggendo per la coda quel pesce così difficile da tenere in mano, vivo, lo sbatté sul tronco. La trota ebbe un fremito e s’irrigidì. Nick la depose sul tronco, all’ombra, e spezzò nello stesso modo il dorso all’altro pesce. Depose le due trote sul tronco, fianco a fianco. Erano belle.

Nick le pulì, aprendole dall’ano alla punta della mascella. Tutte le interiora e le branchie e la lingua vennero via in un colpo solo. Erano due maschi; lunghe strisce bianco-grigie di sperma, lisce e pulite. Tutte le interiora pulite e compatte, che venivano via tutte insieme. Nick gettò i rifiuti sulla riva, dove li avrebbero trovati i visoni.

Lavò le trote nel fiume. Mentre le teneva nell’acqua, col dorso in alto, sembravano pesci vivi. Il colore non era ancora andato via. Nick si lavò le mani e le asciugò sul tronco. Poi depose le trote sopra il sacco disteso sui tronco, ve le avvolse, legò l’involto e lo mise nel guadino. Il coltello era ancora diritto, con la lama piantata nel tronco. Nick lo pulì sul legno e se lo mise in tasca.

Si alzò in piedi sul tronco, con la canna, e il guadino appesantito dalle trote, poi entrò nell’acqua e sguazzò verso la riva. Si arrampicò sulla sponda e tagliò per il bosco, verso il rialzo nel terreno. Tornava al campo. Si voltò indietro. Il fiume, tra gli alberi, si vedeva appena. Aveva tutto il tempo che voleva, per pescare nella palude.

(Ernest Hemingway I quarantanove racconti Traduzione di Vincenzo Mantovani – Oscar Mondatori).

venerdì 7 luglio 2006

Volpi e tassi
Le volpi non scavano tane. Utilizzano quelle dei tassi, che hanno tane multiple, appartamenti a più stanze. Hanno anche il bagno o fossa biologica. La volpe occupa un vano, ci fa la cacca o "fatta", Quando è il momento (nascita di prole o altro) occupa altri vani fino a che il tasso sloggia e si va a costruire una tana altrove. (1)
NB. La storia di volpi e tassi l'ho imparata ieri sera da Silvia, guida autorizzata del parco delle Foreste Casentinesi nel fare in notturna (Ore 21-23,45) l'anello Moltalto-Rivoreta, sopra Stia, sotto il Falterona.
Da Silvia ho imparato che i carpini sono gli alberi pionieri di ogni bosco in formazione: preparano la strada a ontani, abeti, castagni e faggi...L'abete permette ai faggi di nascere e crescere; poi l'abetina muore e lascia spazio e luce ai faggi nati sotto la sua ombra...Le felci diventano arbusti, proteggono i semi di infinite specie, poi se ne vanno e lasciano il posto ad altra vegetazione: come chioccie animali. Già perché anche gli alberi sono animali o almeno animati. I semi sono nuclei di intelligenza di questa Natura panteista, custodiscono il loro DNA anche per centinaia di anni, aspettano il loro momento e entrano in azione. Il seme è, lo ripeto perché mi piace ricordarlo, un nucleo di memoria e di intelligenza: si attiva quando ce ne sono le condizioni, dirige la radice, ricerca lo spazio più adatto...La volpe fa il suo giro giornaliero lungo i confini della sua proprietà lasciando fatte e urina. Sotto i polpastrelli ha ghiandole odorifere supplementari, più ecologiche e sempre attive, perché non sempre gli scappa...Per riconoscere se un capriolo o cinghialino è stato sbranato da un lupo o da un cane randagio devi osservare la testa: il lupo ha zanne potenti per sfondare la testa e mangiarsi il cervello, la parte migliore per sapore, vitamine, quoziente ...d'intelligenza. Il boccone preferito dal lupo nel supermercato della foresta è il cinghialino di 6 mesi, al momento del distacco dalla madre e ancora sufficientemente inesperto della vita. E che dire della ghiandaia? Grande quanto un grande merlo, con piume nere, bianche e azzurre, la si trova dovunque nei nostri boschi. Bella a vedere, ma con una voce gracchia che te la raccomando. Non sapevo che quel richiamo costituisce un segnale di allarme a tutti i volatili del bosco. Per questo mi son sempre sentito salutare con quelle grida stridule. Lei sta dicendo: attenzione, un rompic. in vista. Silvia ci dice che può modulare la voce a suo piacimento ed è una ottima imitatrice della voce degli altri alati. Sa quindi anche cantare senza stridere. Ma un segnale di allarme è un'altra cosa.  Bello girare per il bosco con la guida.
Il ritorno - dal rifugio Lago alla chiesa di Montalto - completamente al buio, con mille lucciole e due torce, esperienza nuova, in compagnia di 7 persone più Silvia, la guida.  Il cielo era coperto, la pioggia, molto discreta, ci ha fatto musica contro le tegole del rifugio,intorno alle 22,poi si è interrotta durante il viaggio di ritorno, avvenuto in piena notte in compagnia delle mille lucciole e di uno sprazzo di luna nel cielo appena rialzato. Al Planetario di Stia una lezione astronomica per Tommaso, di Reggello, 11 compiuti oggi. Tutto offerto dal Comune di Stia. Viva l'ICI.
Silvia, la guida, non è della forestale; fa questo lavoro per passione vera e competenza rara. Compenso a prestazione occasionale. Lo stipendio vero lo riceve dal Ministero della P.I. come insegnante di sostegno in una scuola elementare di Arezzo.  Considerazione a latere: quando incontro giovani così maturi, motivati e preparati mi sento più in sintonia col gran dono della vita e non perdo del tutto la speranza nelle magnifiche sorti e progressive dell'animale uomo.
Vedi le foto

Nota (1) - Dove si vede che quanto fa Israele in Palestina non è una cosa "contro natura". Ricordi il soldatino israeliano? Sicuramente sai anche il nome. La sua cattura sta costando sangue, fame, umiliazione e morte a decine di palestinesi di cui non sai il nome né l'età, né il genere.
L'Unione Europea piange su questo giovane soldato "rapito" - kidnapped - dai terroristi palestinesi. Il governo svizzero non ride. Solamente dichiara "captured" (catturato in una azione di guerra) il giovane soldato israeliano. E dice anche a Israele di smetterla con questa sporca guerra. Unione Europea di m.
Notizia della radio, mentre scrivo (ore 14 di venerdi 7 luglio): elicotteri apache, aerei senza pilota, buldozer e armi intelligenti contro qualche kalashnicof...40 morti palestinesi come primo antipasto della bestia scatenata.
In nome di Anna Frank, con la copertura di Auschwitz? Con la "comprensione" dell'U.E.?
SHAME! not shalom.
Lo dicono anche loro. Siamo una gang non uno Stato.

lunedì 3 luglio 2006

Dialogo sopra i grandi sistemi


Mi piace oggi riepilogare un carteggio digitale avvenuto all'interno del gruppo email di Libera Uscita, una delle due associazioni italiane per la depenalizzazione dell'eutanasia. Da una comunicazione del  segretario Giampiero Sestini che  scrive giustamente soddisfatto dell'aria nuova che tira - nel campo dei diritti civili - da quando il governo Prodi ha sostituito il malgoverno Berlusconi. Sestini paragona quest'aria nuova che si respira in Italia con l'Atene di Pericle, "fondatore" della moderna democrazia col suo discorso del 461 a.C.
Segue una prima reazione di Marco Aurigi, una controreazione di Giuliano degli Antoni e successive botta e risposta. Le questioni storiche mi sono sempre interessate; vederle attualizzate al mondo d'oggi e mescolate con le personali esperienze di vita (v. la scaletta autobiografica di Marco Aurigi nell'ultima replica) mi intriga particolarmente. E poi voglio dire anch'io la mia su autocrazia e dittatura, destra sinistra e convergenze parallele... Non ho voluto appesantire la hotmail dei soci di Libera Uscita con mie interferenze, anche per non disperdere gli argomenti serrati dei due interlocutori. Ma qui sono in casa mia, e tu che passi non sei obbligato a rallentare il passo per seguire questo dialogo sopra i grandi sistemi di democrazia e dittatura. Un colpo di mouse e ciao.


Si comincia con l'email di Sestini.


30 giugno 2006
Apprendiamo dalla stampa (agenzia ANSA).
"L'iter per arrivare in tempi rapidi ad una legge sul testamento biologico sarà avviato già dalla prossima settimana nella Commissione Sanità del Senato, con l' esame dei disegni di legge presentati fino ad oggi sia dalla maggioranza che dall'opposizione".
Lo rende noto il presidente della stessa Commissione, Ignazio Marino, che descrive il provvedimento come ''una legge per evitare l'accanimento terapeutico e per dare ad ogni persona la possibilità di esprimere in vita le proprie volontà per interrompere le terapie quando non esiste una ragionevole speranza di ritrovare una condizione di vita accettabile''.
''L'obiettivo - commenta il presidente della commissione Ignazio Marino - è quello di arrivare nei tempi più rapidi possibili ad una legge condivisa che tenga conto del lavoro già fatto nella scorsa legislatura e che porti ad una legge in grado di riflettere gli orientamenti di tutti e che sia davvero nell' interesse dei cittadini. L'Italia - continua - soffre per un grave ritardo in questa materia rispetto ad altri Paesi, basti pensare che negli Stati Uniti il testamento biologico è stato introdotto negli anni Settanta''.
''Inoltre - aggiunge Marino - si fanno sempre più pressanti le sollecitazioni da parte della società che risente di questo vuoto legislativo. Il parlamento ha il compito di dare delle risposte e per questo vogliamo dare priorità assoluta all'iter legislativo sul testamento biologico indicandolo come primo atto all'ordine del giorno della Commissione Sanità''.
 
Prendiamo atto con soddisfazione che il risultato delle ultime elezioni, confermato da quello del referendum, ha radicalmente cambiato il clima politico. Per tre anni la proposta di legge sul testamento biologico presentata alla Camera dall'on. Giorgio Benvenuto non è stata neppure discussa in Commissione. Nel contempo, la nostra associazione aveva reiteratamente ma inutilmente richiesto al Presidente del Senato di ricevere le firme di cittadini da noi raccolte a sostegno della proposta di legge sull'eutanasia, presentata dal sen. Battisti oltre due anni orsono.
Ovviamente, nulla è ancora definito, ma almeno si è aperta la speranza, come avevamo auspicato prima delle elezioni.
In proposito, riportiamo una frase stralciata dalla "lettera" di Corrado Augias "Il testamento biologico, una scelta di civiltà" , pubblicata su la Repubblica del 27.6.2006:
 
Nessuno di noi ha chiesto di venire al mondo, ci siamo trovati inconsapevoli in questa 'valle di lacrime'; credo che sia diritto di ognuno decidere di volersene allontanare se le condizioni di sopravvivenza dovessero diventare troppo pesanti, se la scintilla dell'intelligenza (divina o no che sia) dovesse spegnersi, se la dignità dell'alimentarsi, del defecare, del sorridere a una persona cara dovesse spegnersi. Così usa nel mondo civilizzato.
 
Così usa il mondo civilizzato, scrive giustamente Augias. E allora ci torna alla memoria il discorso di Pericle agli ateniesi del 461 avanti Cristo, dal quale prese le mosse la democrazia. Ecco la sintesi che ne ha fatto Paolo Rossi nel suo spettacolo:
 
"Qui ad Atene noi facciamo così.
Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi per questo è detto democrazia. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private. Ma in nessun caso si occupa delle pubbliche faccende per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato a rispettare i magistrati e c'è stato insegnato a rispettare le leggi, anche quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede soltanto nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso. La nostra città è aperta ed è per questo che noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così."
 
Da parte nostra, nel rispetto della cultura di allora, possiamo aggiungere:
 
"Qui ad Atene noi facciamo così.
Ringraziamo gli Dei per i favori che ci accordano ma crediamo che spetti a noi mortali giudicare sulla dignità e sull’onore della nostra esistenza.”
 
Cordiali saluti
Giampietro Sestini


Prima breve replica di Aurigi:


Con Pericle (un tiranno) non cominciò la democrazia a Atene, ma finì.
Esattamente come con Lorenzo il Magnifico a Firenze: la democrazia finì e con essa, come ad Atene, finì il primato di Firenze e della Toscana nel mondo, com'è logico che sia ogniqualvolta la democrazia è in declino. Basta un'occhiata all'Italia di oggi: il declino è inarrestabile per colpa congiuntamente e solidalmente dei due poli (che stupidamente se ne rinfacciano reciprocamente la responsabilità), perché ambedue indaffarati a restringere gli spazi democratici del popolo "sovrano".
Mauro Aurigi


Ad Aurigi risponde Giuliano degli Antoni


>..Ne era motivo il fatto che Pericle, potente per dignità e senno, chiaramente incorruttibile al denaro, dominava il popolo senza limitarne la libertà, e non era da lui condotto più di quanto egli stesso non lo conducesse, poiché Pericle non parlava per lusingarlo, come avrebbe fatto se avesse ottenuto il potere con mezzi illeciti, ma lo contraddiceva anche sotto l'influsso dell'ira, avendo ottenuto il potere per suo merito personale. [...] Vi era così ad Atene una democrazia, ma di fatto un potere affidato al primo cittadino. (Tucidide, Storie, II, 65)
se Lei immagina la Democrazia Ateniese del V secolo a.e.v. simile o paragonabile alla democrazia moderna che noi nei paesi del primo mondo viviamo...beh, ne abbiamo da discutere!!
Anche Tucidide, che non era propriamente un appartenente al partito di Pericle  non manifesta alcuna considerazione negativa su di lui; d'altra parte uno che si sottopose per quindici volte al suffragio popolare di Atene e per quindici volte venne eletto "stratega" non mi pare risponda all'immagine che noi abbiamo dei tiranni: l'accusa che normalmente viene fatta a Pericle è quella di aver spinto molto verso l'emancipazione , anche culturale, del popolo offuscando così la sua immagine con l'accusa di "populismo" lanciatagli dagli ipercritici. d'altra parte quella che volgarmente si chiama "età di Pericle" comprese sotto la sua guida la spinta al miglioramento della flotta non solo militare, la pace di Callia con i Persiani e la conseguente delimitazione degli ambiti di influenza, le mura di collegamento del Pireo con Atene, il Partenone,l'impulso allo sviluppo dei commerci e dell'influenza economico-commerciale, il tempio dei misteri di Eleusi, e tantissime altre cose  non da ultimo il suo aderire alla politica di Temistocle, la sua frequentazione con Anassagora e tanti altri personaggi della cultura immortale, come Euripide. basta pensare che a detta di Cicerone  Pericle era criticato da quei politici che lo biasimavano per  spendere nel campo della cultura capitali che avrebbero dovuto essere investiti negli armamenti in previsione di eventuali guerre. a queste critiche Pericle rispondeva che se non altro gli investimenti nella cultura e nelle costruzioni, che sarebbero poi diventate immortali, rappresentavano possibilità di lavoro per gli ateniesi. ci sono voluti circa duemilatrecentocinquant'anni (fino al 1930 con il "trattato della moneta" di Keynes) per vedere un economista teorizzare queste idee.
In effetti dopo di lui la storia ateniese subì una precipitazione sino ad arrivare ai trenta tiranni imposti da Sparta dopo la sconfitta nella guerra del peloponneso e poi , verso il 340 ai Macedoni ed Alessandro. ma però è tutta la storia della grecia ad essere caratterizzata da costante instabilità e mutevolezza.
Tutte queste chiacchiere per arrivare a dire che non mi pare proprio di riscontrare quanto da lei detto nell'Unione. anzi: si trova nel comportamento del Governo una sensibilità nei confronti del sentimento democratico imparagonabile con quanto evidenziato dal precedente disastroso governo: un semplice esempio è l'impegno a far rivivere la "concertazione" indebitamente affossata dalle destre. se poi Lei si riferisce all'insieme di scandali che da più di anno ci perseguita, io vedo in quelli  più che la presenza dei "due poli"  da parte di tutta la cittadinanza una assolluta mancanza di cultura, di senso dello stato, di senso della moralità. sarebbe interessante discutere sulle cause di un simile "imbarbarimento civile": io modestamente le mie idee le ho, ma il discorso si farebbe un pò lunghetto.. per questo La saluto qui.
Cordialità giuliano


Risponde Marco Aurigi
Caro Giuliano, la sua lunga risposta mi ha lusingato: non pretendevo né mi aspettavo tanto. Ma devo dire che non mi ha convinto o non mi ha convinto fino in fondo. A prescindere dalle persone che le hanno pronunciate, queste tre frasi celebri sono di sinistra:
"Non abbiamo bisogno di buoni politici, ma di buoni cittadini" (Rousseau)
"Non domandatevi cosa il governo possa fare per voi, ma domandatevi cosa voi potete fare per la nazione" (Kennedy)
"Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi" (Brecht).
D'altra parte questo ritratto di Pericle che lei fa:
"l'accusa che normalmente viene fatta a Pericle è quella di aver spinto molto verso l'emancipazione , anche culturale, del popolo offuscando così la sua immagine con l'accusa di "populismo" lanciatagli dagli ipercritici. d'altra parte quella che volgarmente si chiama "età di Pericle" comprese sotto la sua guida la spinta al miglioramento della flotta non solo militare, la pace di Callia con i Persiani e la conseguente delimitazione degli ambiti di influenza, le mura di collegamento del Pireo con Atene, il Partenone,l'impulso allo sviluppo dei commerci e dell'influenza economico-commerciale, il tempio dei misteri di Eleusi, e tantissime altre cose  non da ultimo il suo aderire alla politica di Temistocle, la sua frequentazione con Anassagora e tanti altri personaggi della cultura immortale, come Euripide ecc."
si attaglia perfettamente a qualsiasi tiranno moderno o contemporaneo (Napoleone, Stalin, Hitler, Mussolini). E' QUINDI UN RITRATTO DI DITTATORE-TIRANNO, OSSIA DI DESTRA.
Il fatto è che dei paesi più civili, ricchi e colti del mondo (Svizzera, Scandinavia, Olanda, Nuova Zelanda, Canadà e perfino gli USA ecc.) non si conosce il nome di un solo Pericle o Lorenzo il Magnifico locale, responsabile  di quella civiltà, ricchezza e cultura, mentre i nomi dei Pericle e Lorenzo il Magnifico dei paesi più incivili, poveri e incolti del mondo sono tutti senza eccezione ben noti a tutti.
Quello dell' "età di Pericle" che fece splendere Atene e quello dell' "età del Magnifico" che fece splendere Firenze, sono falsi storici tra i meglio conservati. Se i due "eroi" fossero nati a Timbuctù, pure esistente ai tempi di Atene e Firenze, di loro oggi non avremmo traccia alcuna, mentre le due città sarebbero state ugualmente splendenti e assai probabilmente per un periodo più lungo. In realtà i due rilucono oggi come allora di luce riflessa, quella della grande civiltà in cui ebbero la fortuna di nascere, frutto esclusivo della "democrazia" dell'epoca, che in ambedue casi era la più avanzata del mondo contemporaneo. Insomma ereditarono le due città più colte, ricche e potenti della loro epoca, e fecero il possibile, riuscendoci, affinché quello splendore fosse loro accreditato (autentiche mosche cocchiere!), assoldando e pagando profumatamente i migliori mercenari della cultura delle loro epoche rispettive. E noi oggi invertiamo il rapporto di causa-effetto: Pericle e Lorenzo (non meno di Aristotele e Machiavelli) furono due effetti, non la causa di quella civiltà. Diciamo pure che ambedue furono i becchini di quelle civiltà.
 
Capisco che concetti del genere, comuni nel mondo anglo-sassone, siano da noi piuttosto ostici da digerire. Questo Paese è fascista non dal 1924, ma dal '500 grazie alla Controriforma (ed all'avvento delle signorie rinascimentali e della dominazione spagnola che la Controriforma favorirono): il Ventennio fu solo il culmine di quel plurisecolare processo. 60 anni dopo è illusorio e infantile credere che quella lunga gestazione culturale non abbia lasciato segni: la nostra cultura è ancora fascista. E quando la cultura di una comunità è fascista, non si salvano dal fascismo le sue espressioni culturali più importanti (si salvano solo alcune ristrettissime frange minori, spesso perseguitate), per cui non si salva, per esempio, il PCI-PDS-DS (figurarsi gli altri). Fatto sta che, rinnegando Rousseau, Kennedy e Brecht, siamo ancora alla ricerca (ma ci può essere cosa più fascista?) dell'uomo della provvidenza, dell'unto del signore che ci tragga fuori dal pantano (che si chiami Prodi o D'Alema o Berlusconi o Bossi non fa differenza alcuna: sempre del salvator patriae si tratta). E più ci rinfidiamo in lui, ossia più concentriamo nelle sue mani il potere (altrimenti come potrebbe risolvere la crisi!) e più la crisi cresce, come è logico che sia sotto ogni forma di dittatura. E più la crisi cresce, più siamo disposti ad affidargli ulteriore potere. Una spirale senza fine, anzi con alla fine, stando ad analisti americani, un nuovo caso Argentina (temo che gli americani sbaglino per difetto: secondo me stiamo navigando a vele spiegate verso il Nord Africa).
 Mi scusi se ho usato più l'ascia del bisturi, ossia se non ricorro ai chiaro-scuri, che invece ci sono, ma lo faccio per essere certo di non essere frainteso.
E comunque grazie per l'attenzione riservatami
. Cordialità. Mauro Aurigi
PS n.1
Quando lei dice:
"io vedo ... da parte di tutta la cittadinanza una assoluta mancanza di cultura, di senso dello stato, di senso della moralità. sarebbe interessante discutere sulle cause di un simile "imbarbarimento civile" non solo ricalca il Rousseau, il Kennedy e Brecht, ma dice esattamente quello che dico io: si tratta del persistere di quella plurisecolare cultura fascista. La colpa e del popolo (della sua cultura) e non dei capi (tutti, sia quelli della cosiddetta destra che quelli della cosiddetta sinistra) che questo popolo esprime, che non possono non esserne li specchio.
PS n.2
Non mi passa neanche per la testa di paragonare le democrazie di Atene e Firenze alla nostra italiana. Tutto è relativo: quelle erano le massime del mondo di allora e, giustamente, produssero i due balzi culturali più importanti dell'intera storia dell'umanità. La nostra al confronto, sempre in termini temporalmente relativi, è una farsa: non solo non è la più avanzata del mondo contemporaneo, ma non è neanche una democrazia (sennò qualcuno dovrebbe meglio spiegarmi Berlusconi, Fini e Bossi "democraticamente" al governo). E gli effetti si vedono. MA


Ancora Degli Antoni:
Caro Mauro. mi permetta di chiamarLa "caro" se non altro perchè vivacizza con una conversazione colta ed interessante queste giornate di calura estiva e per più "tormentate dal tormentone" delle partite di calcio, veri circenses di questo oscuro periodo. potremmo io e Lei stare qui a farci pelo e contropelo per almeno un paio d'anni senza arrivare ad una conclusione comune. sono sempre più convinto, a leggerLa, che son più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono; quelle che ci dividono mi pare siano, però, di non secondaria importanza: il giudizio storico sulla "sinistra", prima di lotta, ora di governo. se Le dicessi che il comportamento sia privato che pubblico dei componenti della cosiddetta "sinistra" di oggi mi affascina e mi convince , direi una bugia; come LEi vedo in QUESTA sinistra una grossa componente di arrivismo, clientelarismo, e di tutti i maggiori difetti tipici dell'italico popolo; non posso dimenticare però che questo è solo un "momento" del percorso storico: la sinistra viene da lontano: dalle lotte bracciantili dei primi socialisti, dalle rpime camere del lavoro, dal popolo bombardato di bava-beccaris che obbediva agli ordini di quel bastardo del savoia il cui discendente dà prova di sè e di tutta la sua stirpe in questi giorni, dagli scioperi operai di Torino del 43, dalla sinistra tedesca per la quale fu inugurato il campo di Dachau nel febbraio 33, dalla lotta di Resistenza al nazifascismo; certo che dopo la "sinistra" ha dovuto beccarsi l'amnistia di togliattiana memoria la quale, impedendo la elaborazione storico/popolare del ventennio è stata la madre di tutti i neofascismi e populismi italiani: non da ultimo quello del dott. berlusconi. vede, è questa "memoria" che vedo assente nelle sue lettere:ed è questa assenza che mi spinge a sottolineare di più quella che chiamo afflizione. non ho il minimo dubbio che Lei sia una persona impegnata: la stessa Sua presenza qui ne fa testo! e soprattutto non avevo la minima intenzione di "accusarLa" di qualunquismo. se pensa di essere stato offeso, abbia la cortesia di scusarmi.
con sincera stima giuliano.
p.s. senza Stalin ( a Venezia lo chiamavamo "bepi dal giaso"=giuseppe dal ghiaccio) e i ventinove milioni di morti dell'Unione Sovietica oggi, domenica, io, Lei, i nostri figli e nipotini, se ne abbiamo, saremmo al Campo di Marte a marciare ai "paramilitari" in camicia nera.
Saluti g.


Aurigi:
- Bisnipote di un  prete spretato (nella profonda provincia di una Toscana ancora pigramente lorenese),
- nipote di un nonno operaio totalmente autodidatta (neanche un giorno di scuola, ma i compagni in fabbrica lo chiamavano avvocato perché sapeva leggere e scrivere) e co-fondatore della federazione socialista senese nel 1896,
- figlio di operai antifascisti perseguitati (uno zio assassinato durante i fatti della Camera del Lavoro di Siena nel 1924),
- perseguitato, nel mio piccolo, io stesso nonostante sia nato nel 1939 (escluso da Scelba dal corso allievi ufficiali di complemento per l'antifascismo dei genitori: scoprimmo allora che le prefetture avevano accuratamente conservato i fascicoli dei "sovversivi"),
- ho fatto il '68 da studente e il '69 da lavoratore,
- Iscritto al PCI dal 1968 al 1984 durante la segreteria di Enrico Berlinguer (ossia dallo strappo dall'URSS e dalla denuncia dell'invasione della Cecoslovacchia e della persecuzione dei dissidenti, fino alla sua morte) e quadro sindacale (ma lavoratore) della Cgil.
- uscito dal PCI e Cgil nel 1984 e presente da allora in tutte le istanze di iniziativa popolare extra e/o anti partitiche (da Italia Nostra a Survival, dai comitati spontanei alle liste civiche).
 
Caro Giuliano (certo che ci siamo "cari" reciprocamente: vorrei vedere!), questo per rispondere al suo << è questa "memoria" che vedo assente nelle sue lettere>>.
 
E' un secolo di storia e di esperienze di sinistra. E tollero male che mi si faccia la predica da pulpiti di "sinistra" (come quello di D'Alema, uno che non ha mai lavorato e letto e che deve la carica a un fatto dinastico: l'ho sentito l'anno scorso dire che aveva cominciato la lettura del Principe di Machiavelli e che ne era rimasto molto colpito!).
Voglio perciò rassicurarla che non rinnego e soprattutto non sottovaluto nulla di quella storia (dalle cannonote del Bava Beccaris alle lotte bracciantili), ma per quanti sforzi faccia non riesco a riconoscere nella sinistra di oggi (una sostanziale e robusta destra), la sinistra di allora. Quella di oggi è una chiesa con i suoi preti, vescovi, cardinali e papi (si è accorto che fino a Occhetto i suoi segretari restavano in carica fino alla morte come i papi?). Come nella chiesa ufficiale, come dice lei, si tratta di una casta tutta tesa a difendere i privilegi di casta, del suo potere temporale, e niente affatto interessata alle questioni ideali (e spessissimo morali), prima tra tutte quella per cui la sinistra è nata: portare il popolo a gestire se stesso.
 
Tutto sommato sono comunque anche io convinto che ciò che ci unisce sia assai più di ciò che ci divide. Ma ciò che ci divide - ha ancora ragione lei - non è cosa di poco conto.
 
Io sono arrivato alla conclusione che, a parte particolari ininfluenti, nulla distinguesse il nazismo tedesco dal comunismo sovietico (lo sa che ogni prezzo, salario, costo, ricavo nella Germania nazista era determinato dal partito?). Unica differenza: il primo si dichiarava anticomunista e il secondo antinazista. Anzi, un'altra differenza c'era: Hitler non aveva mai neanche pensato (e neanche lo Zar) di costruire ospedali e case e negozi ovviamente riforniti di tutto quello che mancava al popolo, ad uso esclusivo e privilegiato dei propri gerarchi (o della propria nobiltà), come invece fece Stalin per i suoi membri del Soviet supremo (sono testimone diretto dell'arrogante abbondanza nei negozi per membri del Soviet e della disperata penuria nei negozi del popolo e delle tristissime file per approvvigionarsi del poco che c'era).
 
Il detto che la storia non si faccia con i "se" e con i "ma" è un po' abusato. Ma devo dirle che senza Stalin (quello a cui dobbiamo, secondo lei, il fatto che oggi non si sia  tutti obbligati a marciare in camicia nera) o senza quella che è chiamata la rivoluzione d'ottobre (molto fascista e poco comunista e comunque nient'affatto marxista, e non solo negli esiti) i fascismi e i nazismi non avrebbero avuto la stessa virulenza e soprattutto ben difficilmente sarebbero arrivati al potere.
E comunque Stalin non fece quello che fece affinché io e i miei discenti non fossimo obbligati a marciare in Campo di Marte in camicia nera (ma a causa di Stalin e "compagni" abbiamo corso il rischio di dovervi marciare in camicia rossa e non vedo ancora una volta la differenza), ma assolutamente per motivi di pura potenza. Ha anche pesanti responsabilità: inizialmente andò molto d'accordo con il nazismo e, per aggirare il trattato di pace della prima guerra mondiale che impediva certe attività militari alla Germania, mise a disposizione dei militari tedeschi le sue accademie militari per la costituzione di quella che poi fu la Luftwaffe. L'episodio della spartizione della Polonia tra URSS e Germania è esemplare (onore a Terracini che unico tra i "grandi compagni" condannò il patto Hitler-Stalin e per questo fu espulso dal partito  mentre era al confino). Quando la Germania invase l'URSS il primo a restarci male fu proprio Stalin che tutto si sarebbe aspettato tranne che il tradimento dell' "amico". E comunque non fu Stalin a vincere quella guerra, ma il popolo russo, che si decise a farla sul serio solo quando Stalin abbandonò la strategia della "difesa del comunismo" e abbracciò (ma solo per opportunismo) quella della difesa della patria.
Devo anche dirle che non  me la sento più di attribuire le lotte bracciantili e quelle operaie alla "sinistra", ma, appunto ai braccianti e agli operai (quelle lotte c'erano state per secoli prima che la sinistra vedesse la luce). E comunque senza braccianti e operai il termine "sinistra" non avrebbe avuto alcun senso (come non ce l'ha più oggi, visto cos'è diventata la sinistra ufficiale). Lo stesso vale per la Resistenza, il cui merito va tutto ai partigiani, infima minoranza (forse 100.000, forse 200.000 anche se poi ufficialmente sono diventati due milioni) di questo fascistissimo Paese.
Il fatto di continuare a dare il merito di tutte queste lotte alla "sinistra", ossia a Gramsci, Togliatti e compagnia e alla loro ideologia, rischia di farci compiere un'operazione assai simile a quella della Chiesa, con i suoi santi, la sua storia, le sue incensate tradizioni e la sua liturgia (tradimento dei valori primordiali: ecclesia=assemblea del popolo e non di preti). Si ricorda lo slogan "Viva Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer!" urlato nei cortei? Che differenza c'è col grido "Viva Maria!" delle processioni cattoliche?
E comunque Stalin era un dittatore, e il suo regime una dittatura, ossia era di destra, quella più nera. Tutte le volte che sento dire dittatura di sinistra o terrorismo di sinistra trasecolo e mi domando come la nostra cultura possa essersi così degradata. Si tratta di ossimori perfetti: una ristrettissima minoranza (tale è una dittatura o un terrorismo) che vuole imporre con la violenza il proprio credo "religioso" alla stragrande maggioranza, ossia al popolo, (questo è esattamente quello che storicamente ha fatto santa romana chiesa) non può che essere di destra. Almeno tale appare a chi sa per quali motivi la sinistra è nata (non a Mosca, ma nell'Umanesimo dei liberi comuni italiani, nella riforma protestante e nell'Illuminismo europeo).
 
Mi accorgo di avere approfittato troppo della pazienza di tutti. Era almeno un decennio, ossia da quando mi sono convinto della sua totale inutilità, che non avevo un confronto dialettico di questo tipo con i compagni. Dovete comprendermi.
Scusatemi: non lo farò più.
Mauro


NB. A comodo vorrò dire anch'io la mia.

domenica 2 luglio 2006

Pensierino domenicale


Come sono inconsapevolmente modeste le persone  che votano se stesse a un’unica religione! Io ho moltissime religioni, e quell’una che sta sopra di esse si forma solo nel corso della vita.
(citerò la fonte appena rintraccio Franco che me l'ha suggerita)