venerdì 28 luglio 2006

Dante e Maometto




Il  maggiore arabista spagnolo Palacios nel 1919 annunciò che Dante (1265 – 1321) nel suo capolavoro aveva ripreso alcuni testi arabi derivanti dal racconto dell’ascensione notturna di Maometto, in primis L’epistola del perdono e Le conquiste meccane di Ibn ‘Arabi.


Comparazione tra il poema dell’Alighieri e alcuni manoscritti arabi


Il sintetico riassunto di uno dei manoscritti analizzati dallo studioso può, da solo, illustrare il realismo delle pene che affliggono i dannati dell’inferno musulmano; leggiamo infatti che Maometto, accompagnato da due guide nell’inferno, ha modo di osservare una serie di raccapriccianti supplizi: “Vede per primo un uomo a terra supino e al suo fianco, in piedi, un'altra persona, uomo, angelo o demone: costui tiene nella propria mano un enorme masso o pilone di pietra, che scaglia violentemente sulla testa della sua vittima, schiacciandogli il cervello; il masso rotola, e quando il carnefice torna con esso al fianco della vittima, già il capo di questa riappare integro e sano, affinché il boia possa ripetere indefinitamente il suo supplizio.

Maometto, spaventato alla vista di uno spettacolo tanto atroce, vuole sapere di quali colpe sia rea la vittima, ma le sue guide lo obbligano a proseguire il cammino, finché trovano un uomo seduto, vicino al quale un altro carnefice, in piedi, introduce alternativamente in ognuna delle commessure della bocca un arpione di ferro che gli strazia le guance, gli occhi e le narici.

Un po' più in là si presenta alla sua vista un fiume rosso di sangue, agitato come se fosse pece bollente, tra le cui onde nuota a fatica un uomo che lotta per guadagnare la riva; ma nel giungere a questa ecco che un feroce boia lo aspetta con la mano piena di pietre roventi come braci e con violenza gliele introduce in bocca facendogliele inghiottire e obbligandolo a ritornare a nuoto fino al centro del fiume. E il supplizio si ripete, come i precedenti, all'infinito.

Più in là una costruzione a torre, stretta in alto e larga in basso, s'innalza davanti agli occhi dei viaggiatori. Si ode una confusa gazzarra di voci umane attraverso le mura. Una volta entrato all'interno, Maometto vede che esso è come un forno acceso, tra le cui fiamme si agitano donne e uomini nudi, che alternativamente sono scagliati fino alla bocca superiore del forno dalla forza delle fiamme, o scendono fino al fondo, a seconda che l'ardore del fuoco aumenti o diminuisca; la scena si ripete con un ritmo incessante, che i lamenti delle vittime sottolineano”.

L’uomo dal capo schiacciato è l’ipocrita; il dannato con il volto straziato dagli arpioni è il bugiardo; l’uomo che nuota nel fiume di sangue è l'usuraio; quelli che bruciano nel forno sono gli adulteri. Non è difficile cogliere il contrappasso, il rapporto di analogia tra colpa commessa e punizione. Occorre peraltro osservare che una forma di contrappasso è implicata anche nella legge mosaica del taglione.

Trovato qui.



La Divina commedia tra Abu l-‘Ala’ al-Ma‘arri e Dante      

di Salam Kubic Al-‘Atibi
    

 

Tra le fonti della Divina Commedia gli studiosi hanno riconosciuto l'Epistola del perdono del poeta siriano Abu l-‘Ala’ al-Ma‘arri.



Il paradiso di Al-Ma‘arri è popolato da linguisti e poeti, oltre che fanciulli ed eterni giovinetti, cantanti e musici che provvedono al loro servizio. Adamo viene introdotto per questionare su questioni poetiche e linguistiche. I jinn (geni) credenti sono poeti provetti, i serpenti declamano poesia e ce ne sono alcuni che tramite la lettura hanno preso conoscenza di testi. Ai poeti vengono rimessi i peccati grazie ai versi poetici composti e la loro posizione nel Paradiso dipende dal calibro della loro poesia. Cantanti intonano pezzi scelti di poesia, al cui suono e ritmo ballano le danzatrici. Il discorso dei penitenti volge su lingua e poesia,  concorrenti ed avversari si contendono e disputano gare su questioni linguistiche e racconti di poesia.


Il paradiso di Al-Ma‘arri è quello di un uomo che ha vissuto la maggior parte della vita invalido e confinato, battendosi contro gli amori e i desideri umani: non fu in grado di rappresentarsi un paradiso sereno di calma e pace, ma piuttosto uno pieno di movimento e rumore, danza e canto, passeggiate e battute di caccia; la voce si alza fino a diventare grido, il movimento si esaspera fino alla rissa.


Al-Ma‘arri, che si era negato ogni godimento della vita terrena, ha radunato nel suo paradiso tutto ciò di cui si era privato. Si è rappresentato con la sua natura umana passionale ma repressa generi di grande voluttà e di sollazzo materiale, spingendosi fino a personificare ed esemplificare questi godimenti. Chiaramente Al-Ma‘arri non può privare il suo paradiso dalle caratteristiche del nostro mondo. Sui castelli appaiono placche con i nomi dei poeti, l’entrata al paradiso non è accessibile senza un permesso approvato, ci sono cavalli per gli amanti della caccia e una cammella per chi ama mungere il latte; l’anziano ordina che tra i cuochi della sua mensa ce ne siano alcuni di Aleppo; i commensali non hanno bisogno di dichiarare quello che stuzzica il loro appetito: gli basta desiderare per trovare pronto davanti a sé ciò che desiderano.


Il paradiso non sarebbe tale per Al-Ma‘arri se in esso ci fosse il cieco e il disabile; ma non basta che il cieco possa vedere o che l’orbo abbia buona vista o il guercio occhi sani: occorre che a chiunque sia stato provato da un’imperfezione in questo mondo venga resa una compensazione nell’Aldilà che solo il povero afflitto ha diritto di proporre.


Lo stesso accade nell’inferno: a Bashar vengono dati occhi dopo una cecità congenita. Ibn al-Qarih chiede ai guardiani dell’inferno di vedere Muhalhal. Il dialogo tra i poeti nell’Inferno e l’anziano visitatore non tocca altri soggetti: parlando di poesia, lingua, racconti e plagi questi li conforta nel tormento, si rattrista della loro sventura e si affligge per le loro sofferenze senza peraltro spogliarli di emozioni umane.


Al-Ma‘arri nella raffigurazione dell’Aldilà è influenzato senz’altro dalla descrizione dell’ambiente islamico e in particolare quella del Corano e dei racconti islamici sulle ricompense, le punizioni e l’intercessione contenute nei libri di Hadith e di esegesi, nel racconto del Mi‘raj, oltre al corpus poetico arabo preislamico e protoislamico, per quanto concerne la descrizione di piaceri e godimenti, arti dell’intrattenimento, del canto e del divertimento. Al-Ma‘arri le trasporta nel suo paradiso insieme ai miti arabi che l’ambiente islamico ha prodotto sulle macchinazioni e le avventure dei jinn (geni) o le scaramucce tra le vergini del Paradiso.


Sta di fatto che l’Epistola del perdono rimane una fertile e viva riserva del patrimonio umano di cui non abbiamo ancora interiorizzato tutti i tesori e di cui non abbiamo scoperto tutti i segreti artistici.


Se non fosse stato per la Divina Commedia, l’Epistola del perdono non sarebbe uscita dalla sua tomba.


Gli italiani rifiutarono la tesi di Palacios, ma la dimostrazione giunse quando l’orientalista italiano Enrico Cerulli pubblicò nel 1949 un libro in cui divulgava la traduzione latina e provenzale di libri arabi sul Mi‘raj islamico. La storia di questa traduzione si riassume come segue: Alfonso X, re di Castiglia, commissionò la traduzione dei testi dall’arabo al castigliano, cosa che venne eseguita dal medico ebreo Ibrahim al-Hakim nel 1264, ovvero un anno prima della nascita di Dante. Sempre in quell’anno, il medesimo re commissionò al traduttore italiano Bonaventura da Siena la versione dal castigliano al latino e al provenzale per diffonderla al di là di confini della Spagna. Con questo, Cerulli sostenne l’idea di Palacios senza lasciare ombra di dubbio sul fatto che Al-Ma‘arri portò ogni mortale al cielo grazie alla sua Epistola del perdono.

Trovato qui




 

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