mercoledì 31 maggio 2006

      Senatore


                :                                


"Walter Veltroni, cui faccio gli auguri di una pronta guarigione, è il sindaco buono, il sindaco più buono di tutti, talmente buono che per lui tutti sono uguali: ama i bianchi e i neri, i musulmani quanto gli ebrei, gli asiatici quanto gli europei, gli omosessuali e gli eterosessuali, i cattolici come i laici. Questa è assenza di gerarchia, questo è relativismo".   Trovato qui

Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Dov'è scritto?

Calendario laico



31 maggio 1819
Nasce a Long Island, USA, il giornalista antischiavista e poeta Walt Whitman. 















To you.


 


A te.


STRANGER, if you passing meet me and desire to speak to me, why should you not speak to me? And why should I not speak to you?


 


A te Straniero, se tu passando mi incontri e desideri parlare con me, perché non dovresti parlarmi? E perché io non dovrei parlare con te?


 
























 


Youth, day, old age and night.


 


Giovinezza, giorno, vecchiaia e notte.


 


YOUTH, large, lusty, loving-youth full of grace, force, fascination,
Do you know that Old Age may come after you with equal grace,
force, fascination?

Day full-blown and splendid-day of the immense sun, action,
ambition, laughter,
The Night follows close with millions of suns, and sleep and
restoring darkness.


 


Giovinezza, vasta, vigorosa, amante — giovinezza piena di grazia, forza, fascino,
lo sai che la Vecchiaia può venire dopo di te con eguale grazia, forza, fascino? Giorno fiorito appieno e splendido — giorno
dell’immenso sole, azione, ambizione, risa,
la Notte segue da vicino con milioni di soli, il sonno e il buio che ristora.


 


 Altre poesie con testo a fronte


 





Gli anni a venire non conosceranno mai l'inferno ribollente e l'oscuro ambiente infernale, gli innumerevoli drammi minori e i retroscena della guerra di secessione ed è meglio che sia così. La guerra vera non comparirà mai nei libri.
Quando udii l'astronomo acculturato,/Quando dimostrazioni e cifre vennero incolonnate dinanzi a me,/quando mi mostrarono carte e diagrammi per sommarle, dividerle e misurarle,/quando mi sedetti a udire il seminario dell'astronomo tra mille applausi in sala,/oh, quanto presto mi stancai e stufai,/fino a che mi alzai e me ne scivolai via scappando,/nella mistica aria notturna brumosa, e di quando in quando/rimirai in perfetto silenzio le stelle.


Nel 1885 apparve negli Stati Uniti un volume di poesie di un centinaio di pagine. Delle ottocento copie stampate ne fu venduta solo una.
Lo scrittore Emerson, allora molto famoso, scrisse però allo sconosciuto autore:
" Egregio signore, non ignoro il valore del vostro prezioso dono di 'Foglie d'erba'. Le trovo la più straordinaria manifestazione d'intelligenza e sapienza che l ' America abbia avuto finora ".
L'autore di ' Foglie d'erba ' ( Leaves of Grass ) era il trentaseienne Walt Whitman che si autodefinì il turbolento figlio di Manhattan e anche il poeta della fratellanza. Per tutta la vita, come si era augurato, aggiunse poesie a quell'unico poema . Irruento, appassionato, fervente democratico, panteista, indifferente al denaro Whitman rivoluzionò la poesia moderna ed insieme alla fragile e delicata Emily Dickinson creò la nuova poesia americana che avrebbe influenzato e suggestionato tutta la poesia del Novecento.
Nato nel 1819 a New York era figlio di un carpentiere d'origine inglese e di una donna d'origine olandese e di fede quacchera. Aveva otto fratelli e dopo le scuole elementari fece l'apprendista tipografo, il maestro in scuole rurali, aiutò il padre come falegname, divenne giornalista in piccole riviste.
I suoi libri prediletti furono i grandi libri sacri dell'umanità, la Bibbia, i poemi omerici, il Canto dei Nibelunghi, i poemi indù, la Divina Commedia. Quest'ultima raccontò di averla letta in un bosco, mentre l'Iliade in un'insenatura di rocce e sabbia, con il mare tutt'intorno. La lettura all'aperto, a contatto con le forze elementari della natura, fece sì che Whitman non si sentisse schiacciato da questi capolavori; presto, anzi, si sentì chiamato a emularli. Il vagabondo giornalista autodidatta e fannullone cominciò a pensare a sé come poeta intorno ai trentacinque anni.
Nel 1862, do po una visita al fratello George ferito nella guerra civile, scoprì la vocazione di infermiere: negli ultimi tre anni della guerra civile si prodigò con straordinaria energia negli ospedali da campo.


Il lungo addio e l'immortalità nella morte
Come ha detto Emily Dickinson il poeta è già morto ed è stato sepolto più volte, ha prefigurato molti addii, mai convinto che si tratti dell'ultimo, anzi sempre più convinto che finché le Foglie d'erba vivranno l'addio non si potrà mai verificare.
Whitman ha una precisa idea di immortalità nella morte:
"Il più piccolo germoglio dimostra che non c'è morte in realtà;| E che se mai ci fosse porterebbe verso la vita, e non l'aspetta alla fine per fermarla| E che è cessata nell'attimo in cui la vita è apparsa.| ...| Tutto progredisce e si espande, niente crolla,| E morire è diverso da quel che ciascuno abbia mai creduto, e più felice.".


E a misura in cui egli invecchiava, la morte occupava indubbiamente un posto maggiore nei suoi pensieri, ma solamente come interludio tra una vita e un'altra. Per il poeta infatti non c'è niente di tragico nella morte ed egli cominciò a fare i suoi addii alla vita in età notevolmente giovane.
Senza dubbio gli ospedali della guerra civile affrettarono il processo, dal momento che, come dice uno storico greco, in tempo di pace i figli sepelliscono i padri, in tempo di guerra i padri sepelliscono i figli e Whitman, insieme a Melville è il solo, tra gli scrittori americani dell'epoca, ad afferrare il tragico significato della guerra.
Che cosa pensate sia avvenuto dei giovani e dei vecchi?
E che cosa pensate sia avvenuto delle madri e dei figli?
Vivono e stanno bene in qualche luogo,
Il più minuscolo germoglio ci dimostra che in realtà  non vi è morte,
E che se mai c'è stata conduceva alla vita,
e non    aspetta il termine per arrestarla,
E che cessò nell'istante in cui la vita apparve.
Tutto continua e tutto si estende, niente si annienta,
E il morire è diverso da ciò che tutti suppongono, e  ben più fortunato.


Passim su Wikipedia e altrove.
Qualche foglia d'erba  in italiano qui


martedì 30 maggio 2006

Domandare è lecito


Ratzinger: «Auschwitz, perché Dio ha taciuto?»


Barbabianca: "Vaticano, perché dio parla tanto?"

lunedì 29 maggio 2006

Grazie, Paola


In anni molto lontani una mia professoressa di italiano, che era stata amica di Benedetto Croce e poeta lei stessa all’interno di quel gruppo di persone colte che avevano frequentato a Napoli la casa del famoso filosofo negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale(c’è un ricordo di quell’ambiente in “Una scelta di vita” di Giorgio Amendola) ci parlava della Vita Nova come di un grazioso romanzo, poetico e “vaporoso”, come diceva lei, e noi, ingenue sognanti ragazze degli anni cinquanta traducevamo con pre-pre-romantico. A dir la verità, allora ci attiravano più i romanzi di Carlo Levi e di Cesare Pavese, come era giusto. Oggi, rileggendo quell’opera giovanile di Dante, anche se mi sembra che indulga eccessivamente al patetico, con quel continuo piangere per amore, mi ritrovo a notare alcune cose positive, che sono queste. L’elemento stilnovista degli spiriti e spiritelli, così evidente anche in Guinizelli e Cavalcanti, è applicato in maniera convincente nel famoso episodio in cui Dante si trova in una casa dove si erano riunite molte giovani donne ( quante donne gentili e di novella etade nella Vita Nova!) e a un certo punto sente “un mirabile tremore” che lo costringe ad appoggiarsi a una pintura, cioè al muro affrescato per non cadere. Perché lo spirito d’amore si è impossessato di lui, occupando ogni facoltà sensoriale, al di fuori di quella degli occhi che, benché in maniera stravolta, possono vedere Beatrice, che è improvvisamente entrata nella stanza. E dicono: ma perché amore ci tratta così, che non possiamo nemmeno godere della bellezza di questa donna? Questo punto è molto bello, secondo me, e credo che non ci voglia troppa fantasia per immaginare questa bella casa dove tante ragazze allegre e ben vestite fanno crocchio, ammiccando a Dante e si gabbano di lui e della sua emozione proprio con lei. Da questo momento si scatena una serie di fughe di lui che ne inventa tante per nascondere questo sentimento, facendo finta di guardare un’altra donna, perfino in chiesa, dicendo cose non plausibili quando gli si chiede perché cerchi sempre di vedere Beatrice se poi non può sostenerne la vista e via dicendo. In un certo senso si prova quasi difficoltà a pensare che questo fragile, emozionabilissimo e anche un po’ bugiardo Dante sia lo stesso che pochi anni dopo – sia pure in tutt’altra situazione d’animo - comincerà a scrivere la Commedia.  Molte chiacchiere nella piccola Firenze di allora vennero fuori intorno a quella storia personale, Beatrice tolse il saluto a Dante e il lettore potrebbe finalmente pensare che a lei importasse qualcosa del povero Dante, ma niente successe in questo senso. Presto lei morirà. Niente del suo matrimonio viene detto nel libro, come non viene mai nominato il matrimonio di Dante. E Gemma poveretta, che non c’è un angolo piccolo piccolo dell’opera di Dante in cui venga ricordata, che avrà pensato? Si sarà accontentata, lei che aveva portato una bella dote, di guardare alla casa e ai figlioli? Ma confesso che, se fossi stata Beatrice, non sarei stata del tutto soddisfatta. Lei è al di sopra di tutto, di lei Dante si ripromette di parlare come mai siè parlato di nessun’altra donna, ma è giusto che tutto il suo incanto sfumi in questa figura di Madonna? Che di lei si parli come di una figura santa al di sopra dei sentimenti umani? Così, mentre a lei tributava un’attenzione sacrale, della donna Pietra stringeva nel pensiero e maltrattava le trecce, della donna casentinese vedeva il biondo dei capelli e il verde dell’abito. Cose di donne vere. Veramente in un sogno della Vita Nova aveva visto Beatrice nuda e avvolta in un drappo rosso in braccio ad Amore che le faceva mangiare il cuore di Dante, ma la crudezza e sensualità del sogno, anche se immagine poetica ricorrente, era stata poi cancellata dai successivi proponimenti di amore spiritualissimo e di lode per lei così superiore ai comuni mortali, che costituiscono la materia preferenziale di questo amore particolarissimo. Di più, quando verso la fine dell’opera, si racconta di una giovane e bella donna che s’impietosisce del dolore del poveretto, Dante si premura di aggiungere subito che, siccome si era accorto che cominciava a “vederla troppo volentieri”, d’autorità il super-io si era imposto e aveva decretato che il piacere di pensare a Lei era molto superiore a quello di guardare la donna pietosa. Questo era Dante giovane, quando viveva in Firenze, ancora ignaro di tutto lo scombussolamento che avrebbe sconvolto la sua vita. Quanto di realistico e quanto di poeticamente costruito in questo “romantico” romanzo giovanile? Forse a molti piacerebbe saperlo. (Paola Galli)


Nota (La parte dell'opera citata da Paola)


XIV. Appresso la battaglia de li diversi pensieri avvenne che questa gentilissima venne in parte ove molte donne gentili erano adunate; a la qual parte io fui condotto per amica persona, credendosi fare a me grande piacere, in quanto mi menava là ove tante donne mostravano le loro bellezze. Onde io, quasi non sappiendo a che io fossi menato, e fidandomi ne la persona la quale uno suo amico a l'estremitade de la vita condotto avea, dissi a lui: «Perché semo noi venuti a queste donne?». Allora quelli mi disse: «Per fare sì ch'elle siano degnamente servite». E lo vero è che adunate quivi erano a la compagnia d'una gentile donna che disposata era lo giorno; e però, secondo l'usanza de la sopradetta cittade, convenia che le facessero compagnia nel primo sedere a la mensa che facea ne la magione del suo novello sposo. Sì che io, credendomi fare piacere di questo amico, propuosi di stare al servigio de le donne ne la sua compagnia. E nel fine del mio proponimento mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo. Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura la quale circundava questa magione; e temendo non altri si fosse accorto del mio tremare, levai li occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice. Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna. E avvegna che io fossi altro che prima, molto mi dolea di questi spiritelli, che si lamentavano forte e diceano: «Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come stanno li altri nostri pari». Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima; onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori de la veduta di queste donne, sì mi domandò che io avesse. Allora io, riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei, e li discacciati rivenuti a le loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare». E partitomi da lui, mi ritornai ne la camera de le lagrime; ne la quale, piangendo e vergognandomi, fra me stesso dicea: «Se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietade le ne verrebbe».

sabato 27 maggio 2006

Calendario laico



28 maggio 1961: con l'articolo "Forgotten prisoners" pubblicato sui giornali "The Observer" e "Le Monde", l'avvocato inglese Peter Benenson fonda Amnesty International.


 


Buon compleanno a Dante

A Firenze tra la fine di maggio e i primi di giugno, in centro città, una giovane donna di nome Gabriella, soprannominata Bella, dà alla luce Durante. Per la festa del 24 giugno lo porterà insieme a decine di altri bambini al battistero di S.Giovanni. Grande festa e tanta confusione. Dante, fatto grande, racconterà di quella volta che salvò un piccolo finito nella  vasca e a rischio di affogare. Che giornata! Il padre, Alighiero, è tutto preso dagli affari (poderi e prestito di denari) e il nonno, il grande Bellincione, quello che, barcamenandosi nelle vicende tormentate dalla gara per il predominio politico-amminisrativo di una città ricca e operosa, ha modo, prima di morire, di tenersi in collo il nipotino Dante, primogenito del suo primogenito. Le cose si sono messe bene per i guelfi, ormai signori incontrastati in quasi tutta la Toscana, dopo la battaglia di Benevento, avvenuta quando Dante stava imparando le prime parole: pappo e dindi. Grande nonno, esperto negli affari, saggio e affettuoso come tutti i nonni. Il padre si vede meno. La mamma si gode il suo primogenito per pochi anni, finché lo lascia orfano con una sorellina più piccola. Il padre procura a Dante una seconda mamma, Lapa, che lo accudisce come suo e gli dà presto un fratellino, Francesco e poi una sorellina, Gaetana, Tana. Sono anni sereni. In una città sempre più bella, con le strade da poco lastricate, le botteghe in piena attività, tanti palazzi in costruzione…I Magnati ghibellini, dopo la disfatta di Benevento, sono ormai fuori del gioco. I mercanti si arricchiscono con le lane di Fiandra e d'Inghilterra, i capi bottega moltiplicano  gualchiere e tintorie, la città costruisce palazzi e allarga la cerchia delle mura,  i giovani scorrazzano beati nelle strade, nei chiassi tra le mura e negli orti fuori le mura. Dantino dà la caccia alle lucertole e cerca i nidi dei cardellini nei poderi di S.Ambrogio, arriva fino all’Africo e al Mugnone, si arrampica sulle colline si Camerata sotto Fiesole e sulle pendici di S.Miniato a Pagnolle.  Presto va a scuola, insieme ad altri pochi fortunati che possono pagarsi i maestri. Si impara il latino, ma nelle strade e nelle botteghe si parla col sì, l’oui e l’oc. Quante storie si sentono raccontare dai mercanti di terre lontane, storie di paladini carolingi, di Troia, di Tebe, di Roma. E i compagni più grandi, i figli di papà ridono, cantano ballano e fanno musica. Tanta musica, con archi e flauti, mandole e chitarre. Le poesie nascono per esser suonate, e si chiamano sonetti, per essere cantate, e si chiamano canzoni, e poi danzate, e si chiamano ballate. Quando Dante ha 17 anni si trova in mezzo ad un festival musicale che riempie la città di gente proveniente da tutta italia. Mille suonatori vestiti di bianco gareggiano per tre giorni sui lungarni e tra le vie…E’ la festa della nuova democrazia: i capi d’arte hanno ottenuto di guidare il governo della città, mettendo da parte la vecchia nobiltà terriera. Sono loro che hanno coniato la nuova moneta europea, tutta d’oro, con S.Giovanni sul diritto e il fiore sul rovescio.
“Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria” dirà vent’anni più tardi. E' questo è il tempo felice, quando la vita è eterna, tutta proiettata verso un futuro roseo e senza fine. Con le prime emozioni segrete, i primi inconfessati amori. Già perché Dantino è precoce, in tutto. E passionale. Ma se ci pensiamo, siamo stati tutti precoci e passionali. Solo che il superio imposto dalle consuetudini ci impone di negare…e poi ci fa dimenticare. Lì accanto, di fronte alla grande torre della castagna, c’è la casa di un signore ricco buono e affabile, il sig.Folco Portinari, ghibellino doc, antica nobiltà.Con una fantesca di gran cuore e di grande avvenire (vedi nota sotto), con una bambina splendida, Beatrice, abbreviata in Bice, come tutti i nomi sono abbreviati. Dante la vede tutti i giorni,  nel Corso, accanto alla bottega che oggi vende i bomboloni caldi... e non ci fa caso più di tanto. Ma quella volta la notò come fosse la prima. Uno stupore dell’anima mai prima sentito, un turbamento del corpo mai prima provato.  I più grandi ridono, mamma Lapa intuisce, babbo Alighiero non s’accorge di nulla – in cuor suo sta pensando ai Donati, guelfi come lui, più alla portata.. Rimozione dell'episodio.  Gli amici, gli studi, le prime gratificazioni (Ma quanto sei bravo. Farai strada. Parole del maestro più maestro di tutta Firenze, nome Brunetto cognome Latini). A 12 anni Dante sa già chi è la donna che sposerà: Gemma, di Manetto Donati, quel distinto capo proprietario di botteghe e campi che abita lì di fronte. (La lapide a ricordo accanto alla casa-museo di Dante da poco inaugurata, qui a Firenze).  Ha pensato a tutto babbo Alighiero, forse presago della prossima fine (morirà tre anni più tardi): Gemmina sposa al suo primogenito con una dote pattuita di 900 fiorini piccoli, garantirà discendenza e sicurezza economica.  Dante è il primo dei fratelli e sorelle, il sostegno e l'orgoglio di mamma Lapa.
Ma ecco, a 18 anni il secondo fulmine. Bice, 17 anni, uno splendore, crea un corto circuito nel groviglio dei sentimenti del giovane Alighieri. Quegli occhi che si incrociano con i suoi, quel portamento... vere incessu patuit dea: una cosa divina, venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Dante stravede: le vie son lastricate di cristallo, l'Arno è un balsamo fino, tutto il mondo ai piedi di Firenze. Trasumanar significar per verba non si potria.  Devastante, ubriacante, assordante.  Qualcuno tra gli amici e familiari incomincia a intuire, ammicca…Sussurra Bice. Ma se lo sa Gemma? Come ci rimane. Il babbo non c’è più. Mamma Lapa ha dato tutta se stessa per i quattro figli, senza distinguere tra naturali e no. E poi è molto attaccata a questo primogenito, ormai capofamiglia, grande intelligenza e grande cuore, anche se impulsivo. Francesco non è mai stato geloso di lui. E Tana, la sorellina, lo vede come un padre. E allora: sì, è vero sono un po’ innamorato, ma non è una cosa seria, no, non è Bice, è …e finge di star dietro ad un'altra meno appariscente, magari più bruttina, una che faccia da schermo, donna certo gentile anche lei…
Mi accorgo di star calpestando con scarponi chiodati le delicate aiuole della “Vita Nova”.  Qui ci vorrebbe la penna di Paola, vero, Ornella? Proviamo a convincerla. Nell'attesa mi fermo qui. Ma su Dante ritornerò, approfittando del fatto che il giorno della sua nascita è stabilito dagli esperti, come detto sopra, tra la fine di maggio e i primi dieci giorni di Giugno.


Monna Tessa

I Portinari sono fieri ghibellini. Folco si fa convincere dalla sua fantesca Tessa a fondare un ospedale ancora oggi attivo e ben noto in Firenze, quello di S.Maria Nuova, in via S.Egidio, pieno centro. E Tessa, da serva diventerà signora, Monna (madonna). Dà ancora oggi il nome a una famosa clinica di Careggi.
Leggi qui la storia 

Gemma Donati
Dante si sposa con lei a vent'anni e con questo matrimonio si ricostituisce il casato. Gemma gli porta in dote i 900 fiorini a suo tempo concordati tra Alighiero e Manetto. Avrà modo di metterli ben presto a frutto per i 4 figli avuti in pochi anni: Iacopo, Pietro, Giovanni, Beatrice. Mentre Dante, il padre, è tutto preso tra studi, poesia e politica. Ancora vent’anni dopo la morte del marito, seppellito a Ravenna, troviamo Gemma affannata da un ufficio ad un altro, per riscuotere dal Comune l’usofrutto dei beni a suo tempo confiscati al marito ribelle. Iacopo e Pietro faranno onorata carriera, di Giovanni si perdono le tracce, Beatrice, questo lo sapete tutti, sarà suora a Ravenna e  sarà vicina al padre Dante ormai famoso ( Vi ricordate la figlia suora di Galileo durante il suo domicilio coatto in Firenze? Mi sembra l'avesse chiamata proprio Beatrice).
Nota turistica
Quando vieni a Firenze vai a trovare Dante e dai un’occhiata alla chiesa di Beatrice.
Ti faccio da guida. Apri qui.
Se vuoi vedermi ancora alle prese con Dante apri qui e scegli qualche post.

E l'ospedale costruito dal padre di Beatrice e direto da Monna Tessa è ancora qui, in piena efficienza:
Domani Santa Maria Nuova ospita il convegno “La pelle come teatro della mente” che scandaglia le malattie cutanee conseguenza di psicosomatizzazione (Repubblica,26 maggio 2006, in cronaca di Firenze).

martedì 23 maggio 2006

Patti civili di solidarietà




Questi PACS non s'han da fare 

puoi premere sulle immagini


Aggiornamento del 25 maggio 2006
 Roma, 24 mag. - (Apcom) 
Sí alle coppie di fatto, sí all'insegnamento aconfessionale della religione a scuola, aperture all'eutanasia e inclinazione a pregare regolarmente: un sondaggio presentato oggi dall'istituto di ricerca Eurisko fotografa cosí l'Italia odierna.
Secondo il sondaggio "italiani tra religiosità e scelte etiche" - commissionato dalla Chiesa valdese (protestanti) e presentato oggi a Roma - il 65% degli italiani è favorevole al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, percentuale che scende al 53 per i cattolici praticanti.
Sette italiani su dieci è "molto o abbastanza" favorevole all'attivazione dell'insegnamento, a scuola, di 'storia delle religioni' in chiavi laica e aconfessionale, che andrebbe a sostituire l'insegnamento della confessione cattolica in vigore attualmente (ma solo il 46% si dice d'accordo con
l'insegnamento - confessionale - di un'altra religione).
Sempre sulle religioni non cattoliche, il 59% gradirebbe piú spazio per loro sui media.
Il 67% del campione intervistato è poi favorevole a qualche forma di eutanasia (il 45% solo su espressa indicazione del paziente, il 24%, accertata l'impossibilità di decidere ed esprimersi del paziente anche su indicazione dei parenti), ma solo il 53% dei cattolici sostiene la stessa posizione.
Sempre sui temi della laicità, Eurisko rileva che sei italiani su dieci (anche cattolici) pensano che "è giusto che la Chiesa cattolica esprima le proprie opinioni, ma poi i legislatori devono decidere in
piena autonomia".
Il 67% (il 66% tra i cattolici praticanti) afferma di "cercare di capire le indicazioni della Chiesa cattolica" su materie di ordine sociale e politico ma alla fine "agisce secondo la propria coscienza".
Quanto alla religiosità degli italiani, il sondaggio conferma un paese sensibile alla religione ma non in linea con l'ortoprassi cattolica.
Il 78% degli intervistati possiede una Bibbia ma solo il 6% la legge almeno una volta alla settimana. Solo il 27% della popolazione va regolarmente in una chiesa cattolica.
All'83% degli italiani, infine, "capita di pregare"; di questi, il 34% prega piú volte al giorno o quasi ogni giorno della settimana.
Il sondaggio è stato realizzato su un campione di mille persone scelte, spiega Eurisko, su base rappresentativa.

Rinascita come Rinascimento



Son d'accordo




Anche su questo

lunedì 22 maggio 2006


                Per altre foto con Mariella premi sulla foto



 La morte nelle case di riposo.


 (la prefazione e l'ultimo capitolo del bel libro di Mariella)



Questo libro racconta la storia di alcune donne che viveva­no, alla fine degli anni ottanta, in una casa di riposo anche se il termine potrebbe qui far discutere di un piccolo paese della Toscana. Un’istituzione pubblica il cui fine dichiarato era l’ac­coglienza e la cura degli anziani soli, indigenti, malati, dove i li­velli delle prestazioni e dei servizi erano da ritenersi vista an­che la situazione più generale sicuramente soddisfacenti dato che vi si praticavano quelle che oggi verrebbero definite buone prassi di assistenza.


Dentro quell’istituzione io ci lavoravo come infermiera, un lavoro che avevo scelto non solo perché mi consentiva di essere economicamente indipendente, ma perché mi piaceva.


Lavoravo al piano degli anziani non autosufficienti con man­sioni di assistenza diretta. Significa che, oltre a somministrare i farmaci, controllare le diete, misurare le temperature, medicare le ferite, entrando in contatto diretto con loro, li vestivo e li spogliavo, li lavavo, li imboccavo se non erano in grado di man­giare da soli, li mettevo a letto, li portavo in bagno e li accompa­gnavo, quando il tempo lo permetteva, a prendere una boccata d’aria.


Un lavoro facile solo in apparenza, che richiedeva compe­tenze infermieristiche specifiche, ma anche abilità sociali ed energie psichiche e che, una volta intrapreso, ridimensionava i primi entusiasmi collocando ognuno al suo posto e dando subi­to una chiara idea di quella realtà.


Non era un caso che molti di noi, dopo un po’ di tempo che lavoravano lì, chiedessero di essere trasferiti. La presenza quo­tidiana dentro quell’istituzione    al di là delle buone intenzioni,


 


La morte presente


 


Le case di riposo son sempre l’ultima spiaggia. Tu sai che quel giorno che ti succede a te, tu sei vicino alla morte. (Ada A.)


 


Sono molto cambiata, non mi riconosco più. Sono diventata tesa, più nervosa di prima. Non so... O è la vita stessa che vedi qua dentro che ti fa cambiare. Tutta questa gente lasciata qui, abbandonata qui. (Bianca B.)


 


Sento che è il cuore che non va più. Non posso più fare niente che mi viene un affanno! E poi son vecchia, son vecchia. Mi è rimasto po­co da vivere. Non è vero che mi è rimasto poco? (Ada A.)


 


Mi sento giorno per giorno indebolire la testa, gli occhi, non ho più voglia di far niente. L’anno scorso feci un paio di scarpine di lana ma quest’anno ho sbagliato tutto perché mi ci addormento. Non farei altro che dormire. Mi vedo che sto precipitando giorno per giorno. (Rosa R.)


 


Non si sa che dire, che fare, così malati. E come di aspettare la morte. (Tina T.)


 


Di com’è questo posto a me non me ne importa niente. Come è, è. Tanto sono qui che aspetto la morte. (Nota N.)


 


Tempo fa quando è morta I., era lì, così, nel letto... se ne stava là


ferma e l’infermiera diceva: “Meno male che non sente”. Ma lo diceva


lei che I. non sentiva. Non può reagire, ma sente, ascolta, capisce. E


atroce questo, non ti sembra? (Bianca B.)


 


Io dico che ci siamo oggi e non ci siamo domani. Bisogna pensare alla morte e non alla vita. Bisogna pensare alla morte. Sono vecchia, sono vecchia! (Zelinda Z.)


 


161


 


La nuova ospite era una signora mingherlina. Era vedova, senza fi­gli. Era di fuori con la testa per questo l’avevano messa qui al primo pia­no. Era gentile con tutti, si prendeva cura di tutti. L’unico suo difetto era che di notte, verso le tre o le quattro, si vestiva in silenzio e a noi che la bloccavamo nel corridoio diceva che doveva andare a casa. Aveva si­stemato nell’armadio le sue scarpine da notte, lo scialle di lana, le ma­glie. Ho tra le mani la sua roba, che i parenti hanno lasciato per gli altri. Lei, la nuova ospite, è morta dopo soltanto un mese che era qui.  Ha smesso di mangiare, non c’era verso di farle andare giù niente. La morte te la trovi davanti anche cosi in un posto rimasto vuoto che presto sarà di un altro. I miei colleghi dicono che poi si fa l’abitudine a veder morire la gente. (Diario 7 marzo)


 


La morte in casa di riposo non è un evento eccezionale. È così frequente e così vicina che non si può non accorgersi della sua presenza: si è costretti a pensarci, quando accanto al pro­prio letto, a due passi di distanza qualcuno sta morendo.


“Vedono di continuo morire persone intorno a loro”. Qual­siasi tentativo di nasconderla è inutile quando la morte avviene, come gli altri fatti della propria vita, sotto gli occhi di tutti.


Nessuno può avere un posto suo, una stanza dove stare da solo, vivere, morire e sottrarsi al doloroso, invadente spettacolo della morte degli altri.


Se si dorme proprio in quella camera, di giorno ci si può al­lontanare; di notte se il sonno non viene si sta a guardare il pa­ravento verde dietro cui succede qualcosa di strano. Gli infer­mieri entrano ed escono, accendono la luce, parlano tra loro; a volte passa il medico, parla con i parenti, se ci sono. Impossibi­le dormire.


 


Quando uno muore noi si avvisa il becchino. Lui viene e li veste. Poi si avvisa i parenti. I parenti vengono e pigliano quello che c’è di buono da pigliare e il resto lo lasciano qui. Riportano via il morto. E basta. Gli altri anziani ci patiscono perché magari si conoscevano e poi, stando tutti insieme così, finisce che uno muore insieme agli altri. Non è che sia tanto bello (Ausiliaria).


 


Quando si arriva al momento decisivo, in modo improvviso o previsto, non sempre si sa bene quello che fare, per un senso di confusione e sgomento che la morte, di ogni persona e in ogni circostanza, porta con sé:


 


 


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I primi tempi perdevo la testa. Pensavo che si dovesse fare qual­cosa, ma non sapevo cosa. Ho visto molta gente morire. Si guarda il respiro che si fa sempre più lento, si cambia, gli si danno le medicine e poi si aspetta. Quando siamo all’ultimo si aspetta e basta (Ausiliario).


 


La rassegnazione è un atteggiamento generalmente diffuso nell’istituzione: è presente negli operatori riguardo alla situa­zione che li riguarda, ma anche alla malattia e alla morte degli anziani e negli anziani riguardo alla loro nuova “non vita” e alla morte.


 


Sono cambiata, sì, sia nel fisico che nel morale. Molto sono cam­biata. Ero più aperta, più espansiva quando ero fuori. Avevo le ami­che e qui non ne ho, capisci? Qui mi è come passata la voglia di cer­carli gli amici... mi è passata la voglia anche di vivere. (Ada A.)


 


Sono triste. A volte sono molto triste. Allora dico: “Basta, basta, via la tristezza, dì un rosario che ti passerà”. Prima non ero stata mai così, ma da quando son qui tutti i diavoli mi son venuti addosso. (Umberta U.)


 


Non parlo con nessuno delle mie cose. Lei non ci crederà, ero un carattere allegro! Tenevo banco, conversazione. Ora son diventata musona. Mi chiudo in camera. Sto lì le ore... (Vera V.)


 


La decisione a cui molti si sono dovuti sottomettere li porta ad un atteggiamento di rinuncia nei confronti della vita. Fini­scono le aspettative, i motivi, e la vita somiglia ogni giorno di più alla morte:


 


Smettono di camminare, di parlare, si adagiano, addirittura non si lavano più il viso. Se non le lavi te certe persone non si laverebbero mai, non perché non ce la fanno ma perché si lasciano andare, non vo­gliono più fare niente per se stessi. Stanno zitti, si vede che sono ama­reggiati, che hanno qualcosa dentro (Ausiliaria).


 


Chi è costretto a venire per forza dice: ‘Ho da aspettare solo la morte’, perché non hanno scopo di niente nella vita. Cambiano... che non gli interessa più niente di loro stesse (Infermiera).


 


Questo senso di rassegnazione che coglie un po’ tutti ri­guardo al destino riservato agli anziani, è spesso sintomo di in­differenza e disimpegno oltre che di incapacità ad individuare soluzioni efficaci. Con l’affidamento all’istituzione si credono risolti per loro tutti i problemi, mentre ciò non rappresenta che un abbandono, un dimenticarli. Anche se si pensa che in fondo meglio di così non si poteva fare.


L’atteggiamento di rinuncia rispetto alla vita, che il senso di inutilità e la solitudine producono negli anziani, si accompa­gnano sempre all’amarezza nel constatare il generale disinteres­se per la loro condizione:


 


Mi vedevo messa da parte, forse perché le capisco troppo in là le cose. Insomma, sono tutte uguali, quando vedono queste teste bian­che, che gliene frega? Tanto, morire oggi, morire domani... Se si muo­re, al governo non gli pare il vero, per via delle pensioni che non ce le dà più, noi si finisce di patire, perché io piango tutti i giorni, perché non lo sopporto questo menefreghismo. (Vera V)


 


“Ma perché non le dà tutti i sedativi che vuole”, mi diceva la figlia di una donna ricoverata in casa di riposo mentre le spie­gavo che non tutti i problemi potevano essere risolti con i far­maci, “tanto son vecchi!” Il prendere “sotto gamba” la malattia degli anziani è un atteggiamento abbastanza comune a tutti.


Gli operatori, che vivono a contatto diretto con loro, reagi­scono spesso con una certa energia a questo stato di cose, per­ché sono dispiaciuti di vederli soffrire senza poter far niente per aiutarli e anche perché avvertono l’ingiustizia di dover subi­re da soli nel loro lavoro i disagi procurati dalla malattia.


 


E. era pieno di piaghe da decubito, è stato a letto più di un mese prima di morire. Quando si andava a girarlo, a cambiario o a medicar­lo, io mi mettevo la mascherina, perché dal puzzo non ci si stava. Guarda, in quei momenti non ne puoi proprio più. E speri solo che si spicci a morire perché per te diventa una tortura, mica un lavoro (In­fermiera).


 


Secondo alcuni operatori, gli anziani non sono tutelati a sufficienza per quanto riguarda la salute: non si fa per loro quanto e come si sarebbe fatto per “uno normale che sta male”.


 


I vecchi all’ospedale non li vogliono perché sono inquilini scomodi. Richiedono più assistenza e il personale spesso non ha né voglia né tempo per dargliela. L’anziano va aiutato a vestirsi lavarsi mangiare, camminare, dorme poco di notte, è noioso e fa tutto a letto. Così anche chi avrebbe bisogno di cure particolari, accertamenti, all’ospedale non ci va. Rimane qui, “tanto ‘ Se poi il ricovero viene deciso, può capitare di vederlo tornare, dimesso dopo due giorni, perché “non collabora”. 


Dia­rio 20 ottobre)


 


Ma i più rassegnati sono senza dubbio gli anziani stessi, perché la consapevolezza della propria condizione, del proprio stato e della mancanza di alternative non possono produrre che rassegnazione.


E perché la morte li riguarda da vicino:


 


 


A. al primo piano, sta morendo. Un paravento la divide dal resto della camera, come si usa in questi momenti. La porta è aperta sul corridoio. Sono 1e dieci di mattina, noi facciamo il nostro lavoro di routine:


gli infermieri rifanno i letti, gli ausiliari puliscono i bagni. A. è sola nella sua camera. Da diversi giorni ormai non si alimentava più, cosi si e indebolita molto e nel giro di poche ore si è andata aggravando. A turno andiamo a vederla aspettando che muoia. La terapia è sospesa, non serve più. Ossigeno non ne occorre. Inutile rilevare le frequenza del polso, il respiro, bisogna solo aspettare. Nel corridoio gli anziani siedono, in silenzio. Guardano la porta diA., qualcuno domanda di lei, ma sanno gia che non c’è niente da fare. I più comunque non sanno, non capiscono. Telefoniamo ai parenti per avvisarli, in caso volessero vederla un’ultima volta. Sono al lavoro, ci dicono di telefonare più tardi. Iniziamo a preparare tutto, per sistemare meglio possibile. Gli abiti già pronti da tempo vengono tirati fuori dall’armadio. Si prepara la barella che servirà a trasportare il corpo di A. nella piccola stanza mortuaria. Cerchiamo di tranquillizzare gli altri, di parlare sottovoce, di essere un po’ più gentili del solito, ma è proprio questo che genera allarmismo. Cerchiamo di tenere fuori dalla camera le compagne di A., costrette a subire tutta la vicenda. Sarebbe stato peggio se succedeva di notte, non si sarebbero potute allontanare. Poi una collega mi chiama. Ci siamo. Entro in fretta e la guardo. Non respira più, il suo torace non si solleva, i suoi occhi sono semichiusi, il suo volto ha il colore della cera. Mi avvicino. Le mani sono calde, ma il suo cuore è fermo. Decidiamo, come di prassi, di attendere a spostarla. Intanto per telefono avvisiamo il medico e una persona addetta alla vestizione delle salme. Più tardi mettiamo A sulla barella, la copriamo con un lenzuolo e una coperta e la portiamo via. La mia collega ed io, imbarazzate, spingiamo la barella per tutto il corridoio. Impossibile fare percorsi alternativi. Ai lati del corridoio gli anziani, seduti, guardano il nostro passaggio. Io guardo per terra. Prendiamo l’ascensore e usciamo sul piazzale esterno. Altri anziani ci guardano. Qualcuno si fa il segno della croce, qualcuno si asciuga gli occhi. Il tragitto è breve, in pochi minuti sistemiamo il corpo di A sul tavolo rigido della piccola stanza, senza arredi, vuota, con le pareti bianche. Lasciamo là i suoi vestiti e l’occorrente per sistemarla. Il nostro compito è finito. Usciamo chiudendo a chiave la porta. A. rimane là, con la sua camicia da notte rosa, il suo corpo esile.


 


 (Diario 18 aprile)


 


Un giorno di gennaio è morta M.E Il ricordo di lei è rima­sto in me più forte di quello per qualsiasi altra persona che ho visto morire in casa di riposo. Forse perché, a modo suo, M. era riuscita a dare poco peso alla morte, così come aveva fatto per la sua vita:


 


Si è sempre trascurata molto, abbiamo dovuto tenerla a letto per forza gli ultimi giorni quando proprio non ce la faceva più. Ma lei voleva uscire, voleva andare fuori ad ogni costo. Ha fatto la contadina tutta la vita, era abituata a vivere all’aperto. Non ricordo di averla mai vista in camera durante il giorno. Ora è a letto. Non chiama mai, non ha mai bi­sogno di niente. La sua voce diventa sempre più debole e lei sempre me­no resistente. Abbiamo parlato insieme fino alla fine. Ho chiamato suo figlio che è arrivato subito. Mi ha chiamato da parte e mi ha chiesto di spiegargli. Gli ho detto che era rimasto poco tempo ormai. Lui ha alzato le spalle dispiaciuto, poi se n’è andato perché aveva da fare. Lei è rima­sta sola nella camera. Ogni tanto andavo a vederla. Era come in uno strano torpore. Sapevo che mi vedeva, per questo continuavo ad andare da lei anche senza fare niente. M. è sempre stata gentile con me e per di-mostrarmi il suo affetto mi stringeva in modo un po’ rude fino a lasciar­mi senza respiro. Ora mi dispiaceva che fosse così sola dentro quella stanza. Sempre più stanca, sempre più pallida. Alla fine, ha tirato fuori un filo di voce ed è riuscita a dirmi: “I vestiti non me li mandare a lavare che poi non me li ridanno... ora sto un po’ qui e mi riposo... “. (Diario 28 gennaio)


 


M.E è morta da sola, la sera di quello stesso giorno. Il mio turno era smontato alle due del pomeriggio. Quando sono tor­nata, il suo letto era vuoto e i materassi sul terrazzo a prendere aria.


 


Mariella Maglioni


Storie di troppo Donne in casa di riposo


Rubbettino ed.  30 Apr 06
Prezzo  € 10,00

venerdì 19 maggio 2006









Atto d'abiura


di
Galileo Galilei
- 1633 -






Io Galileo, figliuolo del quondam Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, costituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Eminentissimi e Reverentissimi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa.


Ma perché da questo S. Offizio, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova.


Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.


 Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Offizio imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.


Io Galileo sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.


Io, Galileo Galilei, ho abiurato come di sopra, mano propria.


 



Atto di

rimostranza


di
Fausto Bertinotti
- 2006 -




Io Fausto, figliuolo del quondam X. Bertinotti di Milano, dell’età mia d’anni 66, costituto personalmente in giudizio, e stando in piedi avanti di voi Eminentissimi e Reverentissimi vescovi CEI, in tutta la Republica Italiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti articoli della nostra Costituzione repubblicana, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto del popolo italiano crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Carta posta a fondamento della nostra pacifica convivenza.



Ma perché da questo S. Offizio, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il Parlamento sia centro dell’Ordinamento giuridico e che questo principio debba rimanere fermo e che il papa non sia centro del mondo e che  si possa contestare, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria al principio di una sana Laicità, avendo difeso in pubblico dibattito  l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il Parlamento sia centro della nostra vita associata e che il papa  non sia l’arbitro delle nostre Leggi e Istituzioni pubbliche. Pertanto volendo io inculcare nella mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel Cristiano questa veemente certezza, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta , condanno, maledico e detesto i vostri errori e eresie e generalmente ogni e qualunque altro interferenza, prevaricazione e associazione  contraria alla Costituzione Repubblicana; e giuro che per l’avvenire continuerò a dire ed asserire, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil giudizio; ma se conoscerò alcun sovversivo o che sia sospetto di sovversione costituzionale lo denonziarò a questo Parlamento, o vero al giudice competente del luogo, dove mi trovarò.


Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le responsabilità che mi sono state o mi saranno dal mio Parlamento imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ principi costituzionali e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così il popolo sovrano m’aiuti e questo testo costituzionale, che tocco con le proprie mani.

Io Fausto sodetto ho confermato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia formale rimostranza e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento di Porta a Porta di Saxa Rubra, questo dì 19 maggio 2006.
Io, Fausto Bertinotti, ho giurato come di sopra, mano propria.


 



 Nota storica
Nel 1632 pubblicò il Dialogo sopra i 2 massimi sistemi del mondo, un testo fondamentale per la scienza moderna in cui Galileo, sotto un'apparente neutralità, dava risalto all'astronomia copernicana a discapito di quella tolemaica. A causa dell'influenza di alcuni padri gesuiti, Urbano VIII ebbe allora un'involuzione e, nel 1633, Galileo venne processato a condannato al carcere a vita dal Sant'Uffizio, una pena da cui poté salvarsi solo abiurando le sue teorie. Il carcere a vita fu così commutato in isolamento, che Galileo scontò prima nel palazzo dell'Arcivescovado di Siena e poi nella sua villa di Arcetri.


Morì a Firenze l'8 gennaio 1642, circondato da pochi allievi e nella quasi totale cecità. Galileo Galilei è stato formalmente assolto dall'accusa di eresia solo nel 1992, trecentocinquanta anni dopo la sua morte.


Nota di cronaca


Il quotidiano dei vescovi «Avvenire» e l’agenzia di informazione dell’episcopato Sir bocciano Bertinotti per le sue critiche all’insegnamento del Papa sulla famiglia. Secondo Avvenire «non è un bell’inizio» quello del neopresidente della Camera Bertinotti, che martedì ha «corretto il Papa». Il quotidiano dei vescovi ribadisce che la Chiesa è «libera di insegnare, senza le bacchettate e le correzioni di linea di autorevoli ma improvvisati maestri».


Il Servizio informazione religiosa (Sir) rincara la dose: il «punto» è che «anche la sinistra più pura sacrifica la famiglia alla modernizzazione, alle ideologie radicali dei secoli scorsi, pretendendo di dare lezioni al Papa».


Continua qui.


Aggiornamento del 21 maggio


Arriva la replica del governo spagnolo al Papa, che ieri aveva chiesto all'ambasciatore iberico presso la Santa sede garanzie sull'insegnamento della religione cattolica a scuola. Il portavoce della Moncloa Fernando Moraleda ha dichiarato che il governo spagnolo "non può occuparsi più del catechismo che del programma", e che è compito dell'esecutivo governare "per l'insieme dei cittadini, per quanti professano una fede e quanti no, ed essere rispettoso della costituzione e dei suoi valori, tra i quali figura che il nostro Stato è aconfessionale".
Fonte: Corriere.it



Nota giuridica


42. Atto di Rimostranza.

Il docente, al quale, dal Dirigente Scolastico, venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, deve farne rimostranza allo stesso Dirigente, dichiarandone le ragioni. Se l’ordine è innovato per iscritto, il docente ha il dovere di darvi esecuzione. Il docente non deve comunque eseguire l’ordine quando l’atto viene vietato dalla legge penale. Così stabilisce l’art. 17 del D.P.R. 10.1.1957, n. 3 - Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato.

giovedì 18 maggio 2006

Trieste è un po' così

Credo che non si possa mai dire di avere colto in qualche modo lo spirito di una città, perché ogni volta che la si vedrà sarà collegata a un’epoca della vita e di quella prenderà il sapore. Comunque sono propensa a credere che la maturità (posso dire la terza età?) ha una maggiore possibilità di scoprire certi significati, certe storie di vissuti che ci sono maturati dentro e che poi felicemente riscopriamo nelle linee di una città.
Noi avevamo visto Trieste in un’epoca molto lontana e anche distratti da tante cose. Certo l’ansia di vivere come succede da giovani che si sovrappone alle cose stesse e quelle restano là un po’ sfocate e trascurate. Ora c’era il desiderio di rivederla, dandole più spazio. E di spazio ne prende questa città luminosa nelle grandi piazze protette, quasi vegliate, dai palazzi la cui pesantezza architettonica si alleggerisce in quella luce attraversata dal leggero vento marino.  Certo con la bora sarà tutt’altra cosa. Qua e là piccole perle disseminate dietro le grandi facciate, nei vicoli di Trieste vecchia, a cui si accede spesso attraverso “androne” (così al femminile) ombrose dai muri screpolati; la piccola chiesa romanica aperta al culto valdese sopra ciò che resta del teatro romano e più di tutte Piazza Hortis, ombreggiata da piante, silenziosa col piccolo mercato a lato e dietro il museo dedicato a Svevo e a Joyce. Questo piccolo museo ce lo siamo proprio goduto, io e l’Urbi, perché questi autori li abbiamo letti conosciuti e amati.
Di Svevo non leggo da tempo le opere, ma, come non ho amato particolarmente i primi romanzi, così ho invece serbato un ricordo riconoscente alle opere mature: la Coscienza di Zeno e Storia del buon vecchio e della bella fanciulla. Che peccato quella sua morte accidentata e prematura e qui non penso certo solo allo scrittore, ma all’uomo che sapeva intrecciare riflessione profonda a ironia e cordialità di modi. I suoi furono davvero pensieri trasgressivi e nuovi nella cultura vacua e parolaia del dannunzianesimo e in parte anche del futurismo. E anche, anzi soprattutto, guerrafondaia. Quanto lontano il mondo di Svevo, proiettato nella ricerca della complessità e contraddittorietà interiore dell’uomo e consapevole del pericolo che incombeva su quell’umanità stravolta appena uscita da una guerra e in procinto di sprofondare in un’altra di dimensioni ancora più tragiche.
Diverse sono le motivazioni che mi hanno fatto rivedere con piacere i documenti relativi alla vita di Joyce, questo ragazzo scanzonato e ribelle che lasciò l’odiosamata Irlanda per diventare in Europa, ma prima di tutto a Trieste, uno scrittore di livello internazionale. Delle sue opere però conosce bene solo i Doubliners di cui il bel racconto finale, Dead, è testimone efficace, nell’indimenticabile descrizione del pranzo di Natale, delle ristrettezze economiche dell’irrequieta famiglia Joyce. E, in effetti, un pranzo così descritto, se è vero che scaturisce dalla nostalgia del ricordo, è certamente anche reso più vivido da un’abitudine ai magri desinari protratta nel tempo.
Come quasi sempre nei casi di scrittori famosi, nella documentazione non c’è quasi niente su Nora Barnacle, la moglie di James. Di lei so molte cose (Una buona biografia è quella di Brenda MaddoxNora”, Mondatori 1989) quante bastano per capire come non fu facile per lei vivere accanto a quell’uomo intelligente ed egocentrico, brillante e faticoso. Nora era comunque una donna forte, una compagna di livello per una vita piena di gratificazioni, ma anche di pesanti vicende familiari.
Mi accorgo che mi son lasciata prendere la mano, ma bisogna dire ancora qualcosa di Trieste, per esempio la gastronomia, che è sempre una spia interessante delle civiltà. Così, accanto al bollito misto di Bepi Sciavo, condito con i crauti e la senape e al Presniz, dolce farcito di noci, pinoli ecc., cibi non solo da paese freddo, ma proprio di sapore austroungarico, si trova la Putiza, una torta di sapore simile, ma più regionale, più italiana. Non è bella la mescolanza dei gusti, delle abitudini, delle culture? Ecco, Trieste è un po’ così.
(Paola Galli)