lunedì 22 aprile 2013

Continuano a fischiarmi le orecchie


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Nel 1969 la ripresa della conflittualità operaia
era un fenomeno che non riguardava solo
l’Italia, era comune a Francia, Germania
Occidentale e Gran Bretagna, tant’è vero che
l’allora direttore de La Stampa, Alberto
Ronchey, in un editoriale pubblicato il 14
settembre 1969, pochi giorni dopo l’apertura
del rinnovo del contratto dei metalmeccanici,
scriveva: “la lotta degli operai Fiat ci ha
messo sotto gli occhi forme e contenuti della
lotta di classe in Europa: gli scioperi
selvaggi”.
Le richieste apparivano più omogenee di
quelle di precedenti rinnovi contrattuali e si
riassumevano nello slogan più salario, meno
orario e nelle rivendicazioni egualitarie
tendenti a una riduzione delle differenziazioni
esistenti nella classe operaia e tra operai e
impiegati; quindi riduzione dell’orario di
lavoro, richiesta di più giorni di ferie,
contestazione dell’organizzazione del lavoro,
lotta contro l’aumento generale dei prezzi.
Gli scioperi e le lotte mobilitavano la classe
dei salariati nella loro stragrande
maggioranza, unendo insieme gli operai delle
fabbriche più moderne e quelli delle fabbriche
più arretrate, i lavoratori delle regioni
economicamente e politicamente più
dinamiche e quelli delle regioni in ritardo; le
lotte avevano la tendenza a prolungarsi e ad
ampliarsi senza una rigida connessione con le
vicende congiunturali dell’economia dei
singoli paesi.
Nel 2009, quaranta anni dopo la situazione
non è allegra e in Europa si ricorre al
sequestro di dirigenti per sbloccare le
trattative. In Italia si sale sui tetti…
Cosa sta succedendo agli operai in
Italia, perché le risposte agli effetti della
crisi sono così lente, di basso impatto,
quando ci sono, altrimenti c’è solo
sottomissione, acquiescenza. Nessun serio
segno di rivolta, poche o nulle le reazioni.
Eppure la crisi nei primi mesi del
2009 ha colpito con metodo.
Parliamoci chiaro, fra operai. Gli
effetti della crisi si sono abbattuti su centinaia
di migliaia di operai, nei primi sei
mesi di questo anno non si contano più i
ricorsi alla cassa integrazione, i licenziamenti
attraverso la mobilità, le fabbriche
che sono state chiuse. Per chi è rimasto a
lavorare i salari sono scesi e le condizioni
di lavoro sono peggiorate. Le morti sul
lavoro sono un indice chiaro della nostra
condizione sotto il comando dei padroni,
la corsa al profitto schiaccia letteralmente
gli operai esponendoli a rischi di ogni
genere e tipo. C’è ne abbastanza per una
rivolta, o almeno per una serie di scioperi
seri, per manifestazioni oltre le solite
processioni. Invece niente, se abbiamo
l’onestà intellettuale di non nasconderci
la realtà, dobbiamo riconoscere che
siamo di fronte ad una relativa passività
degli operai, ad una silenziosa discesa
verso il basso accettata come una sorte
del destino.
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