lunedì 29 agosto 2011

1311-2011 Lettere dal Casentino di Dante Alighieri








Lettere dal Casentino







sabato 3 settembre alle ore 21.30







Castello di Poppi: 1311 - 2011 Manifestazione su Dante Alighieri in ricordo dei 700 anni delle lettere scritte dal Castello di Poppi















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Scheda storica





























La grande speranza: Enrico imperatore    














 il 27 novembre 21308 i sette principi elettori di Germania, radunatisi in un convento di Francoforte, s'accordano finalmente per metter fine al periodo di sede vacante dell'Impero, dopo l'uccisione di Alberto I, e designano alla corona imperiale Enrico do Lussemburgo, di trentaquattro anni














Ma com'era l'Italia nel 1311?














Il papato aveva avuto un periodo non breve di sede vacante. Poi con Celestino V era fallito l’esperimento spirituale, con Bonifacio VIII fallisce l’esperimento temporale, con Clemente V il pontefice è ormai vassallo del re di Francia, in Avignone.














L’Impero ormai da molti anni non è più punto di riferimento nelle mille contese tra feudatari e mercanti, tra città e campagna; l’Italia è una nave senza nocchiero in gran tempesta. La Sicilia si libera dai francesi con i vespri siciliani per far posto agli Aragonesi: Federico II ne fa campo di battaglia prima col fratello Giacomo poi con Carlo II d’Angiò. Genova ha sconfitto Pisa alla Meloria e poi Venezia a Curzola. Marco Polo, reduce dalle glorie del Catai, trova il tempo per dettare le sue memorie nelle prigioni genovesi, mentre Giotto ha da poco finito di dipingere la cappella degli Scrovegni a Padova.














l’industria tessile costituisce l’asse portante dello sviluppo economico; la lana proviene dalla Castiglia e dall’Inghilterra: Firenze, Lucca, Milano, Como, Bergamo, Brescia sono centri di produzione che   eguagliano quelli delle Fiandre e della Francia del Nord. L’artigiano ha bisogno del mercante che procuri la materia prima e fornisca il denaro per il primo acquisto. Il mercante ha bisogno di vie di comunicazione sicure e libere da balzelli. Firenze chiede il passo alle città confinanti; se Arezzo, Siena, Pisa e Lucca si mettono sulla sua strada è guerra.






















Dentro la città il mercante-artigiano guelfo chiede il passo al magnate ghibellino; il partito guelfo, una volta vincitore, si divide al suo interno. Bianco contro nero, popolo minuto contro popolo grasso, salariato contro proprietario...














 














Il momento è drammatico, altamente drammatico. Tutti gli antichi fuorusciti fiorentini, Ghibellini e Bianchi, sono intenti a seguire le mosse dell’alto Arrigo, e impazienti vorrebbero che egli non ponesse ulteriori indugi, e subito puntasse al cuore della Toscana. Con la speranza prende corpo in Dante una diversa o comunque più precisa convinzione politica. Dante, qui dal Casentino, scrive tre lunghe infuocate lettere ai Signori d’Italia, agli scelleratissimi fiorentini, al divo Enrico. Ancora fresca d’inchiostro la stesura del 6° canto del  Purgatorio che di queste lettere costituisce la parafrasi. 















 Ecco un estratto delle lettere:






















Epistola V (settembre-ottobre 1310)







Alle sorgenti dell’Arno.







A tutti e ai singoli Re d’Italia e ai Senatori della santa città, nonché ai Duchi, Marchesi, Conti e ai Popoli, l’umile italiano Dante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa invoca pace. “Ecco ora il tempo accettevole”, nel quale sorgono i segni della consolazione e della pace. Un giorno nuovo infatti comincia a splendere mostrando dal suo nascere l’aurora che già riduce le tenebre della lunga calamità; e già le brezze orientali si fanno più frequenti; rosseggia il cielo ai confini dell’orizzonte e conforta di dolce serenità le speranze delle genti. O Italia, ora degna di pietà perfino per i  araceni, …asciuga le lacrime e cancella i segni dell’afflizione, o bellissima, è vicino colui che ti libererà dal carcere degli empi, che percuotendo a fil di spada i malvagi li disperderà e affiderà la sua vigna ad altri agricoltori che al tempo del raccolto diano in cambio il frutto di giustizia. 















E voi che piangete oppressi “sollevate l’animo, ché vicina è la vostra salvezza”. Prendete il sarchio della buona umiltà e, spezzate le zolle della riarsa animosità, spianate il campicello della vostra mente affinché la pioggia celeste, venendo per caso prima che sia gettata la vostra semente, non cada a vuoto dall’alto. Non si ritragga da voi la grazia divina come la rugiada quotidiana dal sasso, ma come una valle feconda concepite e germinate il verde; il verde, dico, fruttifero di vera pace; e sulla vostra terra ritornata verdeggiante il nuovo agricoltore dei Romani aggiogherà con maggior rispetto e con maggiore fiducia i buoi della sua saggezza. Perdonate, perdonate già da ora, voi che con me avete sofferto ingiustizia, perché Colui dal quale come da un punto si biforca la potestà di Pietro e di Cesare, volentieri punisce la sua famiglia ma più  volentieri ne ha pietà.














 














Agli scelleratissimi fiorentini






















Epistola VI







Alle sorgenti dell’Arno 31 marzo 1311. 







 Dante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa agli scelleratissimi Fiorentini che vivono tra le mura di Firenze.







La pia provvidenza dell’eterno Re che mentre perpetua nella sua bontà le cose del cielo, non abbandona disprezzandole le nostre cose di quaggiù, ha disposto che le cose umane debbano essere governate dal sacrosanto Impero dei Romani affinché nella serenità di tanto presidio il genere mortale abbia pace e civilmente possa vivere. O cinti da un ridicolo riparo confidate in qualche 







difesa? O malvagiamente concordi! O acciecati da una incredibile passione! A che gioverà aver cinto di steccato la città, a che averla armata di ripari e di merli, quando sopravverrà l’aquila in campo d’oro terribile, che trasvolò superba un tempo i vasti mari? Vedrete i vostri edifici... precipitare sotto i colpi dell’ariete, e, tristi, esser inceneriti dal fuoco. Vedrete la plebe d’ogni intorno infuriante ora divisa a favore o contro, poi unita contro di voi gridare terribile perchè non sa essere affamata e timorosa insieme. E non vi accorgete, poiché siete ciechi, che è la cupidigia che vi domina, che vi blandisce con velenosi sussurri, che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle santissime leggi che sono fatte a immagine della giustizia naturale; l’osservanza delle quali, se lieta, se libera, non solo è dimostrato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia, appare chiaro che è la stessa suprema libertà. Se non volete dissimulare, riconoscete dunque che è giunto il tempo di pentirvi amarissimamente delle temerarie presunzioni.E un tardivo pentimento d’ora in poi non porterà il perdono, ma coinciderà con l’inizio di un tempestivo castigo. Scritto il 31 marzo 1311 in Toscana, alle sorgenti dell’Arno, nel primo anno della faustissima venuta di Enrico Cesare in Italia















Epistola VI  17 Aprile 1311















al Divo Enrico














 Leva dunque gli indugi. Restando a Milano passandovi dopo l’inverno la primavera, credi di uccidere l’idra pestifera con l’amputarle le teste? Per estirpare alberi non vale il taglio dei rami; anzi crescono più numerosi e vigorosi fin quando rimangono le radici da cui prendono nutrimento.














Che cosa credi di aver compiuto, o unico Signore del mondo, quando avrai piegato il collo di Cremona ribelle? Forse che allora non si gonfierà inaspettata la rabbia o di Brescia o di Pavia? Anzi, quando questa rabbia anche flagellata sarà abbattuta, subito l’altra di Vercelli o di Bergamo o altrove scoppierà di nuovo, finché non si elimini alla radice la causa di questo tumore purolento e, strappata la radice di così grave errore, i rami pungenti insieme col tronco inaridiscano. O forse ignori e non scorgi dalla specola della somma altezza dove si rintani la piccola volpe di tanto fetore, noncurante dei cacciatori? scellerata non si abbevera alle acque precipiti del Po, né al tuo Tevere, ma le sue fauci infettano ancora la corrente dell’Arno impetuoso, e si chiama Firenze, forse non sai?, questo crudele flagello. Questa è la vipera avventatasi contro le viscere della madre; questa è la pecora malata che infetta col suo contagio il gregge del suo pastore. 














Scritto in Toscana alla sorgente dell’Arno, il 17 aprile [1311], l’anno primo della faustissima venuta in Italia del divo Enrico.





























Epistole IX, X, XI  primavera 1311







  Dal castello di Poppi  















La duchessa Gherardesca scrive all’Imperatrice Margherita di Brabante














Gherardesca di Battifolle 














Alla gloriosissima e clementissima signora Margherita per divina provvidenza regina dei Romani e sempre Augusta, Gherardesca di Battifolle per largita grazia di Dio e dell’Impero contessa palatina in Toscana, piegate umilmente le ginocchia, presenta la dovuta riverenza. La graditissima lettera della regale Benignità con gioia fu vista dai miei occhi e dalle mani fu presa con reverenza, come si convenne. Sappia, dacché lo chiede, la pia e serena Maestà dei Romani che al momento dell'invio di questa lettera il diletto consorte ed io, per dono del Signore, eravamo in buona salute, contenti di quella dei figli, tanto noi più lieti del solito, quanto i segni del risorgente Impero promettevano ormai tempi migliori. Così dunque esultando nel presente e nel futuro, ricorro senza alcuna esitazione alla clemenza dell’Augusta e supplichevolmente rivolgo rispettose preghiere affinché vi degnate pormi sotto l’ombra sicurissima della vostra Altezza, e io sia sempre protetta, e appaia esser tale, dal violento assalto di ogni avversità.



Inviata dal castello di Poppi, il 18 maggio (1311), nel primo anno della faustissima venuta in Italia di Enrico Cesare.



XIV postuma - Lettera di Dante ai presenti nel castello di Poppi il 3 settembre 2011


Sette secoli fa sono stato costì in Casentino: una prima volta, ancora molto giovane, avevo rischiato la pelle in battaglia, una seconda volta vi ho trovato rifugio e asilo politico in un momento tra i più neri della mia vita. Ho girato in lungo e in largo i vostri posti, ho avuto la possibilità di far fronte alle necessità della vita, grazie all'ospitalità dei Conti Guidi e alla vostra generosità e laboriosità; non solo, qui ho avuto l'opportunità di frequentare le biblioteche dei vallombrosani della Badia di Poppi, dei Romualdiani di Camaldoli e dei Francescani della Verna, qui ho scritto il Convivio, il De Vulgari Eloquentia e, soprattutto, qui, a contatto con luoghi per me memorabili, ho sentito forte in cuore l'impulso a raccontare la mia storia in versi , che mi hanno reso famoso a tutt'oggi, come avevo preveduto. Mi venne naturale, nella situazione in cui ero stato cacciato  cominciare con le parole che tutti voi conoscete: 


nel mezzo del cammin di nostra vita


mi ritrovai in una selva oscura...


Ma vi fu un momento, costì in Casentino, in cui il mio cuore si riaprì alla speranza; davvero sembrava che l'Italia sarebbe tornata ad essere il giardino dell'Impero con la venuta dell'Imperatore Arrigo e con un papa che sembrava riconoscerne l'autorità. In quei giorni scrivevo: Ecco ora il tempo accettevole, nel quale sorgono i segni della consolazione e della pace. Un giorno nuovo infatti comincia a splendere mostrando dal suo nascere l'aurora che già riduce le tenebre della lunga calamità; e già le brezze orientali si fanno più frequenti; rosseggia il cielo ai confini dell'orizzonte e conforta le speranze delle genti di dolce serenità. O Italia, ora degna di pietà perfino per i Saraceni, rallegrati ormai, che presto sembrerai degna di invidia dovunque, poiché il tuo sposo, conforto del mondo e gloria del tuo popolo, il clementissimo Enrico, divo e Augusto e Cesare s'affretta alle nozze.   Asciuga le lacrime e cancella i segni dell'afflizione, o bellissima, è vicino colui che ti libererà dal carcere degli empi, che percuotendo a fil di spada i malvagi li disperderà e affiderà la sua vigna ad altri agricoltori che al tempo del raccolto diano in cambio il frutto di giustizia.  E voi che piangete oppressi "sollevate l'animo ché vicina è la vostra salvezza". Prendete il sarchio della buona umiltà e, spezzate le zolle della riarsa animosità, spianate il campicello della vostra mente affinché la pioggia celeste, per caso venendo prima che sia gettata la vostra semente, non cada a vuoto dall'alto.  Non si ritragga da voi la grazia divina come la rugiada quotidiana dal sasso, ma come una valle feconda concepite e germinate il verde; il verde, dico, fruttifero di vera pace; e di questa verdezza rinascendo la vostra terra, il nuovo agricoltore dei Romani aggiogherà con maggior rispetto e con maggiore fiducia i buoi della sua saggezza. Perdonate, perdonate già da ora, o carissimi, voi che con me avete sofferto ingiustizia perché l'ettoreo pastore vi conosca come pecore del suo ovile; sebbene gli sia stato concesso da Dio l'esercizio della punizione temporale, tuttavia, per risentire egli della bontà di Colui dal quale come da un punto si biforca la potestà di Pietro e di Cesare, volentieri punisce la sua famiglia ma più volentieri ne ha pietà. "Non dunque camminate come anche i Gentili camminarono nella vanità del senso", oscurati dalle tenebre, ma aprite gli occhi della vostra mente e riconoscete che il Signore del cielo e della terra ha stabilito per noi un re.  


Voi sapete che me ne andai dal Casentino con la morte nel cuore e la delusione più totale; ma questo non mi impedisce di riconoscere che ho un debito di riconoscenza per questa valle aspra e forte come la selva selvaggia dell'inizio della mia Commedia. Quassù dal cielo di Giove rivedo con piacere il Castello di Poppi ancora così ben conservato, Porciano con la sua torre rimasta e ben restaurata, Romena ancora là visibile, sempre suggestiva..Pratovecchio mi risveglia ricordi indelebili. Quello però che più mi ha colpito sono i sentieri nei boschi sotto il Falterona: avessimo noi sbanditi avuto le indicazioni che segnalano tutti i sentieri e i tempi di percorrenza; per me era un'avventura ogni volta che dovevo spostarmi da Porciano a S.Godenzo, da Bagno a Dovadola, da Calboli a Forlì.  Se vi aiuta ad attirare turisti, mettete pure una bella segnaletica storica ben disegnata e con materiali adatti e confacenti in tutto l'alto Casentino, dal Pratomagno al Gran Giogo, dalle sorgenti dell'Arno fino alla foce dell'Archiano. Se poi volete utilizzare, insieme al vostro bel castello, il torrione di Porciano o la corte di Romena, non frequentata come allora, ma sempre molto molto suggestiva, per rievocazioni sceniche ispirate alle mie vicende storico-biografiche, perché no? Esistono oggi i Comuni (anche troppi), la Comunità Montana, il Parco delle Foreste Casentinesi (ben tenute e più agibili che ai tempi miei, per certi aspetti); coinvolgeteli. Quassù? C'è stato un grande sconvolgimento. La candida rosa, i nove cieli, il cristallino, l'Empireo sono stati sommersi dall'arrivo delle galassie, dei buchi neri, della materia interstellare, della materia invisibile, dell'antimateria... A me non è dispiaciuto affatto. Ero stanco di star così fermo. Voi che seguite il viaggio da me intrapreso con i versi della Commedia, lo dovete continuare insieme a me e alla compagnia con la quale mi son messo:  Ulisse, Leonardo, Copernico, Keplero, Newton, Cartesio, Spinoza, Laplace, Lagrange, Max Planck, Einstein, Hubble, Thycho Brahe o Galileo che mi fa compagnia in questo momento...sempre dietro alle stelle, per l'eternità. Un vero spasso per tutti noi nati a seguir virtute e canoscenza. Non v'accorgete che noi siam vermi nati a formar l'angelica farfalla che vola alla giustizia sanza schermi? E niente paura. A ciascuno di voi rivolgo le parole che disse a me Virgilio sulla cima del Purgatorio: 


Non aspettar mio dir più né mio cenno;


libero, dritto e sano è tuo arbitrio


e fallo fora non fare a suo senno


perch'io te sovra te corono e mitrio.


Le potete leggere anche nella parafrasi aggiornata che ne ha fatto, poi, Pico della Mirandola: «Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare affinché avessi e possedessi come desideri e come senti la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto. Agli altri esseri una natura definita, è contenuta entro le leggi da noi dettate. Tu, non costretto da alcuna limitazione, forgerai la tua natura secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente guardare attorno tutto ciò che vi è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che preferirai. Potrai degenerare nei esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini»


Dante di Alighiero dal cielo di Giove con i suoi 17 sattelliti, on i saluti di Galileo che ha recuperato la vista e ha smesso di recitare l’abiura vi saluta – con l’abbraccio appassionato di Sordello a Virgilio, Dante di Alighiero, fiorentino ed eterno errabondo per libera scelta. Data il 3 settembre 2011 per mano dell’anonimo archivista di Casentino. (Post trasmesso on air dall'anonimo scrivano casentinese che custodì e salvò le lettere di Messer Dante scritte durante la sua permanenza in Casentino).


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