venerdì 30 gennaio 2015

Kobanê. La notte delle mongolfiere

Kobanê. La notte delle mongolfiere

L’assedio è finito. Gli uomini neri dell’Isis se ne vanno umiliati. Camminano in fila indiana con l’incedere di un esercito in rotta. I Turchi ne coprono la ritirata. Le giovani kurde si abbracciano, sorridono, salgono la collina di terra con bandiere verdi, le braccia levate al cielo. Pare quasi che solo guardando da lassù, i fossati e i ripari dove per 134 giorni hanno messo in gioco la vita e perfino qualcosa di più, possano credere che sia tutto vero. Che il 26 gennaio del 2015 sia il giorno in cui hanno scritto la storia di un paese che non esiste e di una città che insegna a restituire un senso all’idea di libertà. Malgrado le apparenze, l’ipocrisia, il cinico calcolo geopolitico, in un certo senso Kobanê non è mai stata sola. Perché le donne, gli uomini, i vecchi e i bambini che lì hanno saputo morire e resistere difendevano la dimensione umana tra le macerie di una città che per più di quattro mesi è stata forse il principale teatro della guerra mondiale tra la vita e la morte. Ha vinto, per ora, la voglia di vivere. Hanno vinto le mongolfiere, quelle che fanno volare la speranza come racconta il nostro reportage. Non durerà a lungo ma stanotte è tempo solo di far festa, anche per chi non c’è più
Marouan al presidio di Mesher
di Eliana Caramelli
Il primo impatto con il sud est della Turchia è sul volo per Gaziantep (Antep) da Istanbul Sahbila Gokcen, l’aereoporto dedicato alla figlia adottiva del fondatore della “patria turca”, Mustafa Kemal Atatürk (1923-1938), che guidò l’aviazione turca nei bombardamenti per sedare la rivolta delle tribù kurde di Dersim ad est della Turchia. Le donne, quasi tutte con il chador in testa, si siedono nelle prime file, rigorosamente separate dagli uomini. L`apartheid di genere fa sempre un certo effetto.
A Gaziantep ci accoglie una fitta nebbia, che non accenna a placarsi e ci abbandona solo molte ore dopo il nostro arrivo a Persis (Suruc in turco). Città al confine con la Siria di 56.000 abitanti, accoglie oggi circa 133.000* rifugiati provenienti da Kobanê, da cui dista pochissimi km. Rifugiati, non profughi. Sono scappati dall’offensiva dell’ISIS e ogni giorno attendono le notizie del contrattacco delle forze kurde. Ogni metro della città riconquistato dai loro amici, dalle loro figlie, dai loro compagni e compagne di lotta, accorcia la prospettiva della permanenza nelle tende fredde e umide dei campi allestiti alle porte della città. Li intravediamo già all’ingresso della città con il bus: file e file di piccole tende grigie, una addossata all’altra. Panni stesi al pallido sole, dopo la pioggia della notte, che ha reso le strade come scivolosi nastri di fanghiglia.
E’ qui, distribuiti in cinque campi nel centro e nella periferia di Persis (un sesto in costruzione), che hanno trovato alloggio 52700 persone distribuite in circa 1200 tende*.
Ma la solidarietà tra la popolazione locale, a maggioranza kurda, è scattata subito dopo i primi giorni dell’emergenza, lo scorso agosto, quando le persone, dopo avere dormito per strada o all’interno di capannoni abbandonati, hanno trovato alloggio presso le famiglie della stessa Persis o nei vicini villaggi di confine, come Mesher, a circa 6 km di distanza, che sarà la nostra base di appoggio.
Il Centro Culturale Amara
Prima di dirigerci al villaggio, facciamo tappa al Kultural Merzeki Amara (Centro Culturale Amara), seguendo le orme degli attivisti e attiviste che da tutta Italia, dalle prime settimane di ottobre, hanno visitato e documentato la situazione del conflitto in questa parte di Kurdistan. Il Centro è il punto di coordinamento di tutte le attività a sostegno dei rifugiati svolte dalle associazioni e dai partiti kurdi della Turchia in collaborazione con la Municipalità di Persis. Al piano terra la grande sala dove ci si incontra, si può mangiare un pasto caldo con zuppa di legumi e riso, bere del té, collegarsi a internet. Al piano superiore, il centro media e il magazzino, dove ragazzi e ragazze catalogano e sistemano incessantemente le varie medicine (e non solo) portate con gli aiuti internazionali. Anche noi consegniamo uno zaino pieno di farmaci raccolto a Roma e un contributo economico raccolto tra i Cobas e altre realtà italiane. Tutto rigorosamente registrato. Il Centro pian piano si riempie, tante persone da vari paesi venuti qui a dare una mano. Le presentazioni riempiono le due ore passate lì.
E’ qui che incontriamo A., 18 anni e un sorriso luminoso, che, grazie ai contatti della rete Italia-Kurdistan e Uiki onlus, ci stava aspettando. Con il suo buffo inglese sarà la nostra guida, interprete, amico per tutta la settimana.
Mesher. I fuochi

Mesher e gli altri villaggi di confine
A Mesher, dentro la tenda ben riscaldata del presidio permanente alle porte del villaggio, ci accoglie M., vecchio militante del PKK della zona del Monte Nemrut, per 10 anni ha conosciuto la galera, oggi responsabile dei rapporti con gli stranieri del Gruppo di crisi per Kobanê. Ci racconta che si è appena celebrato anche qui, come in tanti territori curdi, il Robosky day, anniversario della strage di Robosky al Nord della Turchia, avvenuto il 28 dicembre 2011 quando l’aviazione turca uccise 34 persone civili in un villaggio accusato di ospitare guerriglieri del PKK. La discussione parte da banali presentazioni, ma la netta impressione è che voglia capire esattamente chi siamo e cosa siamo venuti a fare. Poi arrivano i racconti di quando Ocalan si rifugiò a Roma e il ruolo di D’Alema. Ma soprattutto ci chiede cosa pensa il popolo italiano di quanto sta avvenendo in queste zone e come ne parlano i giornalisti. Domanda questa ricorrente in molti altri incontri.
Lui e molti altri sono accorsi per dare sostegno ai rifugiati, per far passare gli aiuti materiali verso la Siria, evacuare i feriti e per controllare i confini attraverso squadre di vigilanza segnalando le complicità dell’esercito soprattutto in prossimità delle zone sotto controllo dell’ISIS con il quale mantiene relazioni molto cordiali. I volontari e soprattutto le tante famiglie di Kobane che si sono insediate qui (circa 45 famiglie su 35 residenti in precedenza), hanno per forza di cose cambiato la normale vita del villaggio, in meglio stando ai racconti. Si è infatti introdotto un modo di vita più collettivo, dalla condivisione della cucina ai lavori per organizzare i servizi e il mantenimento delle strade, che si sta cominciando a “pavimentare” a suon di carriole di asfalto e colpi di badile. I rifiuti vengono raccolti da automezzi messi a disposizione dalla Municipalità di Diyarbakir, e condotti da volontari, che tutti i giorni fanno la spola con le locali discariche. Tutti i villaggi hanno anche un servizio di sicurezza che ne controlla l’ingresso e il territorio circostante.
La piccola moschea è il luogo di preghiera, di ritrovo, di accoglienza degli ospiti e dei ragazzi più giovani provenienti da Kobanê. Il tè bollente sempre a disposizione. Dietro la scuola, turca, da cui sono esclusi di fatto i bimbi curdi. E semplici case di paglia e fango solo in parte sostituite da più moderni fabbricati di cemento,. Attorno campi.
Poi la grande “piazza”, una spianata di terra proprio di fronte a Kobanê, i cui palazzi si vedono bene sullo sfondo nelle giornate terse. E’ qui che attorno ai fuochi accesi, punti di riferimento e socialità, ogni sera le persone si radunano, chiamano a Kobanê i loro parenti o i loro combattenti, cantano, mandano piccoli video, li incitano e li salutano. E si tengono aggiornati l’un l’altro sulla situazione militare, notizie raccontate da dentro, attraverso le telefonate ai propri cari. La tecnologia aiuta il filo di solidarietà e le relazioni tra rifugiati e combattenti. E’ da qui che le persone volgono i loro sguardi oltre le colline controllate dall’esercito turco proprio di fronte al villaggio. Fumano e guardano cercando oltre la nebbia le immagini della città dalla quale arrivano incessanti gli echi delle esplosioni. Ed è qui che ogni mattina si svolge il “rito” della linea: decine di persone, abitanti e volontari, rivolte verso i confini che vorrebbero vedere distrutti, manifestano, cantando e gridando slogan di sostegno alla lotta curda e delle sue forze combattenti, YPG (miste) e YPJ (femminili).
Mis Ainter La linea

I combattenti e le combattenti kurde
La stessa scena la vediamo al vicino villaggio di Mis Aynter. Al termine ci accolgono calorosamente, invitandoci a raccontare la nostra storia davanti ad un tè bollente. Ci chiedono subito cosa pensiamo di ISIS e YPG/YPJ. Ci ricordano le complicità del governo turco. “Non abbiamo bisogno dei governi, i governi dovrebbero rispondere ai bisogni delle persone, invece l’ISIS vuole imporre le sue regole”, ci dice una giovane donna. “Le YPG sono nate per difendere il popolo kurdo non per invadere altri popoli” e ci raccontano stralci di nefandezze occorse a Sengal (distretto dell’Iraq). Ci fanno visitare una costruzione centenaria, simile ad un nostro trullo, che ospita una specie di “memoriale” dedicato interamente a Arin Mirxan (uccisa a Parigi insieme ad altre due attiviste nel 2013) e ai caduti di Kobanê. Un lungo elenco di nomi e di foto, tra cui quello della compagna Kader, uccisa, unica in un gruppo di 19 persone, al confine con la Siria, dopo aver annunciato pubblicamente che si sarebbe arruolata nelle YPJ. Scorriamo le foto, tanti giovani..
Ci raccontano che una notte una donna-kamikaze di Isis si è fatta esplodere vicino postazioni Ypg facendo circa 8 vittime. Le perdite ISIS sono state molto più alte a seguito degli attacchi kurdi, 34 morti e 43 prigionieri. Poi purtroppo ancora vittime, circa 7 combattenti di Ypg che ha subito anche diversi prigionieri. E così, ogni giorno, il bollettino di guerra. Anche noi ci imbattiamo nel rientro da Kobanê della salma di un militante di un partito marxista leninista turco, combattente dal 6 settembre scorso, caduto il 30 dicembre.
Li vediamo i palazzi distrutti di Kobane, dalla collina. La sentiamo vicina, giorno e notte, da Mesher, negli spari e nel fragore delle bombe. Rumori di distruzione e morte che avvengono a pochissimi km da qui, è agghiacciante. Eppure per queste persone è ormai la normalità, anche se le conseguenze della guerra sulle persone sono imprevedibili e alcune organizzazioni di volontari stanno infatti facendo un gran lavoro di elaborazione soprattutto con i bambini.
I bambini di Kobanê
E’ proprio dal frutto del lavoro di alcuni giovani insegnanti, tutti volontari, che è stata inaugurata al Centro culturale Amara la piccola mostra “I colori dei bambini di Kobanê”, con i disegni fatti dai bambini che vivono oggi nei campi dei rifugiati. A loro è stato chiesto di disegnare cosa pensassero della loro città. Le scene, vissute o forse solo ascoltate, sono terribili, se non fosse per la semplicità dei tratti e dei colori. Carri armati, bombe che esplodono, persone decapitate, spari, morti, feriti….ma anche Kobanê, disegnata come un matrimonio festoso, un paese colorato pieno di alberi e fiori, una manciata di terra a forma di cuore tenuta sul palmo delle mani. Uno degli insegnanti si racconta: insegnante della scuola primaria, imprigionato per due anni dal regime di Assad, vive ora a Persis, ma aspetta il momento per tornare a casa il prima possibile. Per ricominciare. Tornare a casa prima possibile, anzi “quando?” è la domanda incessante che gli rivolgono anche i bambini dei campi.
Molti disegni dei bambini sono terribili ma c’è anche chi immagina un paese colorato pieno di alberi e fiori

La vita e gestione dei campi, la raccolta e distribuzione degli aiuti
Sono i bambini e le bambine di Kobanê l’immagine che più colpisce entrando nei campi dei rifugiati a Persis. Hanno gli occhi vispi di chi sta vivendo un’avventura in mezzo a decine di altri coetanei, senza regole. Entriamo e subito ti prendono per mano per farsi condurre dalla novità con due piedi e una macchina fotografica al collo. Nei campi sono circa 5300*.
Ci ritroviamo nel Campo “Kobanê” in uno dei pochi momenti di concitazione della giornata, l’arrivo del furgoncino che distribuisce le razioni di cibo. Decine di ragazzini e di donne si affollano, in una fila ordinata, con piatti e pentole. Le razioni sono distribuite di tanto in tanto da un’associazione turca, ma normalmente il cibo viene preparato a Persis e distribuito dai curdi, con il sostegno della Municipalità locale.
I bambini all’inaugurazione di una mostra
Partecipiamo anche noi a un’intera giornata di lavoro al magazzino Avesta, un grande capannone vuoto, un tempo supermercato. Oggi è uno dei centri di stoccaggio e smistamento delle razioni destinate ai rifugiati.
 Qui ogni giorno decine di ragazzi giovani (o bambini) sono sempre in movimento, ci si ferma solo per pranzo e merenda, si termina con l’arrivo del buio. Fanno quasi a gara per impacchettare, imbustare, caricare, scaricare i generi di prima necessità. Un abbinamento che vede farina e zucchero; uova; grandi sacchi con fagioli, lenticchie, riso, burghul, 5 kg di pasta; il sapone per lavare i panni è nel sacco assieme agli assorbenti da donna, già si capisce a chi è destinato.
Le razioni sono bene calcolate e tutto viene meticolosamente annotato. Anche i furgoni che vengono a caricare. Ogni campo, ogni villaggio e ogni quartiere della città che ospita i profughi ha almeno due responsabili per la logistica e la distribuzione degli aiuti. Ognuno di loro, sempre in contatto con il Centro Amara – che registra ogni nuovo arrivo – sa esattamente quante persone vivono nell’area di loro competenza e quali sono i bisogni effettivi. C’è organizzazione, dietro tutto questo, ma non verticistica, anche nei campi si applica il modello di autogestione iniziato a costruire in Rojava prima della guerra. Ognuno dà il suo contributo.
Nei campi pochi punti di acqua dove riempire bottiglie e boccioni, alcuni magazzini, una tenda che funziona da scuola due ore al giorno, con tre livelli di classi, e da centro culturale per alcune animazioni teatrali e panni stesi ovunque: la ricerca della pulizia sembra una delle principali attività della giornata in mezzo a questa poltiglia marrone, anche se il clima umido e piovoso di questi giorni rende impossibile fare asciugare qualsiasi cosa. Una donna ci guarda sconsolata, sa bene che la piccola barriera di sassi costruita all’ingresso della tenda potrà tenere fuori per poco la fanghiglia che ricopre tutto il campo e tutta la cittadina in modo quasi uniforme. E’ R., un’insegnante scappata da Kobanê circa 2 mesi fa, la sua casa distrutta, l’auto bruciata, la scuola dove lavorava come insegnante di arabo per i ragazzini delle medie non esiste più. Qui insegna curdo alla scuola del campo, ma non è un vero lavoro, ora non guadagna più neanche quel magro stipendio che le permetteva di vivere. Così, non sposata, con due bambini non suoi in affidamento, che vorrebbe fare studiare, sta pensando di andare in Norvegia o in Germania, lì, le hanno detto, per i rifugiati ci sono delle possibilità di inserimento. Ma neanche lei, come molti qui, ha un passaporto né un documento di identità, clandestina in casa propria. Dopo il caffè aromatizzato “alla maniera di Aleppo” e molte sigarette, ci fa vedere nel suo pc portatile e il suo profilo facebook, da cui traspare una vitalità non sopita. Il fango per fortuna non affoga l’indole femminile e la volontà di ricominciare.

Stesse scene al campo “Kader Ortakaya”, 4000 persone circa di cui circa 400 bambini*. Li incontriamo al nostro arrivo nel campetto di basket vicino a seguire le peripezie di un collettivo di acrobati e ci travolgono con un corteo improvvisato dietro una tromba e un tamburo.
Nel campo, le cui condizioni sono piuttosto difficili, è appena arrivata la corrente elettrica dopo mesi di freddo e di buio. Oggi è anche il giorno della presenza settimanale della equipe medica nei campi, che conferma le precarie condizioni di salute generale e le patologie persistenti, legate soprattutto alla scarsa igiene. I campi, del resto, sono autogestiti dalla comunità kurda, con il solo aiuto di volontari e il supporto della Municipalità di Suruc, dove, con il 58 per cento e da 17 anni, governa il BDP.
Sia il Responsabile del BDP locale (che incontriamo brevemente, prima che corra al funerale di uno dei combattenti caduto a Kobanê il giorno prima) che la stessa Sindaca di Suruc, ci confermano l’estrema necessità di aiuti, di tutti i tipi. Lei è Zuhal Ekmes, una ragazza giovane che, come in tutte le Municipalità curde, condivide la carica di sindaco con un pari collega maschio. Il suo ufficio è un concitato via vai di persone. Si lavora sempre sull’emergenza continua e ci confessa che è arrivata a fumare 3 pacchetti di sigarette al giorno dall’arrivo dei primi profughi. I fondi inviati dall’ONU sono stati dati dal governo turco ad Afad, un’organizzazione governativa che si occupa di 2 piccoli campi fuori città, simili a campi di prigionia dove nessuno vuole andare, mentre niente è arrivato per la municipalità. “Non vogliamo l’elemosina, non vogliamo che in Italia si pensi che siamo dei poveri – ci dice – combattiamo l’ISIS non solo per il popolo kurdo ma per difendere tutto il mondo dal fondamentalismo dell’ISIS. Con lo scoppio della primavera araba in tutti i Paesi si è tornati a regimi autoritari. In Rojava no, lì è in vigore la democrazia per la quale stiamo lottando”. Forse è proprio questo che fa paura alla comunità internazionale.
Ritratto di un uomo anziano
Il modello del Confederalismo democratico
Ed è con A. una delle Responsabili per la sicurezza e la logistica dell’area di Persis, che riusciamo a parlare del modello del Confederalismo Democratico che si sta applicando nei cantoni della Rojava, in Siria. Un modello che prevede una partecipazione reale non solo dei partiti, ma anche delle associazioni civili e singoli cittadini indipendenti, a partire dalla costituzione del parlamento cantonale, del governo, con la rotazione delle cariche, l’applicazione del principio di sussidiarietà, la parità di genere.
In Rojava si sta sperimentando una forma di uguaglianza tra i generi che – dice – non è molto diffusa neanche nei paesi occidentali. Tutti i ruoli sono infatti condivisi al 50 per cento tra uomini e donne, in campo politico, culturale, educativo e militare. Se – continua - le donne governassero davvero il mondo non ci sarebbero più guerre“. Fatto sta che in Rojava sono tra le prime file dei combattenti, con le forze dell’YPJ. “E’ in particolare con il lavoro svolto in campo militare che hanno saputo conquistarsi la fiducia degli uomini e la loro progressiva accettazione. Questo processo, iniziato ormai 20 anni fa all’interno del PKK, è ormai dilagato in Rojava e inarrestabile, perché nella pratica dell’uguaglianza e della libertà in ogni settore, le donne hanno dimostrato in modo inconfutabile le loro capacità”. Rimane sfumato, tuttavia, se una reale parità avvenga davvero anche nella vita di ogni giorno. Quello che vediamo qui è in realtà il ripetersi di ruoli standardizzati. Del resto, si sa, i cambiamenti culturali hanno tempi e processi molto più lunghi e profondi di quelli politici.
Poi prosegue, senza che noi le chiediamo niente : “Quella che stiamo combattendo è anche una guerra per la democrazia e una guerra culturale. E’ per questo che le donne in tale processo di liberazione giocano un ruolo fondamentale. E faccio un appello a tutte le donne del mondo”.
Molto sarebbe ancora da capire.
Anche per quanto riguarda la questione ecologica richiamata dalla Carta della Rojava sembra rimanere su linee di principio che riguardano, come ci dice, non tanto l’ambiente ma un più generico “modo di vita naturale, in armonia gli uni con gli altri, alla pari, in libertà e senza sottomessi o schiavi”.
Percepiamo dalle sue parole la forza di questo processo. Ci dice, con lo stesso sorriso con cui ci ha accolto, che vuole tornare il prima possibile a Kobanê, perché lì ha molti nemici da affrontare e da combattere apertamente ogni giorno, non solo sul fronte militare, ma soprattutto politico e culturale. E’ la forza di un grande sogno.
Non è la sola. Ogni giorno sono infatti almeno due le famiglie che fanno ritorno tra le macerie della città.

Il rientro
Ma qualcuno non ci spera più. A., il nostro amico e interprete, scappato da Aleppo 4 anni prima con la famiglia a soli 14 anni, poi rifugiati a Kobanê e infine qui a Persis. Non vuole sentire parlare turco. Adora la musica e canticchia Shakira, ma il suo stereo è rimasto nella casa di Aleppo. Vuole studiare medicina, imparare l’italiano. Scappare in Germania. Qui non è vita. Ciò che ha visto, le morti in diretta, la distruzione, è troppo difficile da raccontare. Ha voglia di divertirsi, come ogni ragazzo di 18 anni, ma si guarda intorno, lui è tra i più fortunati, in fondo, e con la sorella S. fanno quello che possono come volontari del centro Amara. Suo padre, insegnante di inglese, uno sguardo che trapela un grande senso di responsabilità, ha aperto qui un negozio, per tirare a campare. Ci saluta con una grande stretta di mano: “Grazie, è questa l’umanità che vogliamo, non quella di chi vuole la guerra senza fine”.
Partiamo. Negli occhi le immagini di mille volti incontrati in questi giorni, sorrisi, strette di mano. E il cielo buio di Kobanê costellato da decine di mongolfiere colorate nella notte di Capodanno lanciate dai villaggi turchi lungo il confine cui rispondono i combattenti e le combattenti della città: razzi di segnalazione rossi, in cielo, ad illuminare la speranza.
** dati municipalità di Suruc dicembre 2014

martedì 27 gennaio 2015

Le due memorie

Gli israeliani rifiutano di convivere con la memoria palestinese, rifiutano di riconoscerla, nonostante uno degli slogan nazionali ebraici sia “non dimenticheremo”.
(Mahmud Darwish, Birwa(Alta Galilea 1942, Houston 2008)

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venerdì 23 gennaio 2015

Dante Alighieri e Mahmud Darwish

Ho finito di leggere (attentamente) "Una trilogia palestinese" di Mahmud Darwish (Feltrinelli, Milano, 2014); sto mettendo insieme appunti e riflessioni di cui voglio dare un anticipo a chi ha l'avventura di capitare da queste parti. Il primo pezzo è una scelta di brani, il secondo lo chiamo il fattore DD, Dante Darwish.
Pubblico il primo e rimando il secondo al prossimo post.
Le pagine indicate sono quelle del libro.



Mahmud Darwish
 Una trilogia palestinese

vorrei un funerale con mazzi di rose rosse e gialle vorrei che a celebrare fosse qualcuno di poche parole con la voce un po' roca, qualcuno che sappia simulare sufficiente tristezza e che alterni la sua orazione alla registrazione della mia voce; vorrei un funerale tranquillo semplice e partecipato.  Pag.159


1 - DIARIO DI ORDINARIA TRISTEZZA         p.19

Pag.7             Quando, nel 1973, dà alle stampe diario di ordinaria tristezza, Darwin  ha  trent’anni , ha pubblicato cinque raccolte di poesie e, al termine di un biennio scivolato via tra gli studi all’Università di Mosca e un lungo soggiorno al Cairo, ha preso casa a Beirut. Prima aveva sempre vissuto in Palestina. In Palestina era nato, in Palestina aveva trascorso infanzia e adolescenza, in Palestina aveva studiato, era diventato  un giovane uomo  e aveva dato forma alla sua coscienza politica. Prima profugo, poi presente-assente e arabo di Israele senza cittadinanza, più volte incarcerato  più volte condannato agli arresti domiciliari nella sua casa di Haifa, aveva patito nella sua carne la condizione vissuta della sua gente: l’esilio, l’esilio in patria, la sete di libertà, le miserie del vivere quotidiano, l’atroce dolore della disfatta del giugno 1967.  

Pag, 8            Con diario di ordinaria tristezza   chiude quella che i critici chiamano la fase rivoluzionaria patriottica del suo percorso poetico, una fase che si era inaugurata nel 1964 con la sua poesia forse più famosa:
carta  d’identità :
scrivi sono arabo
defraudato delle vigne dei miei avi 
E della terra che coltivavo
Insieme ai miei figli         
A noi e a tutti i nostri posteri
Non hai lasciato
Che queste pietre.
Più tardi nel 1987 quando pubblica memoria per l’oblio Darwish ha lasciato Beirut e dopo una breve sosta prima a Tunisi poi al Cairo vive a Parigi.



L’altro,  il nemico, lo straniero
Il rapporto di M. D. con l’altro il nemico lo straniero è parte importante dell’analisi dell’opera di M. D.
p.13    L’altro, per D. non è solo Rita. L’altro sono tutte le persone, illustri e sconosciute, che pervicacemente allinea una accanto all’altra nel secondo e terzo capitolo di diario di ordinaria tristezza in cui la denuncia dell’ideologia sionista e le distorsioni del pensiero politico sono supportate da una profonda conoscenza della società e della psiche israeliane.

p. 54 - il senso di colpa
Nella letteratura ebraica moderna si trovano vari esempi di trasfigurazione del senso di colpa. Tuttavia è un sentimento che emerge dalla fiducia in se stessi, una sorta di confessione del più forte, fuori dai denti, in cui forza e vittoria si mescolano a un velo di cipria liberalista e umanista, ma solo molto più tardi e a strage avvenuta. E a ogni modo non sta a significare né pentimento nel rammarico. Somiglia molto di più ai monologhi interiori dell’assassino, a omicidio commesso. Come, per esempio, l’intellettuale americano che descrive la tragedia dei pellerossa simpatizzando con i vinti.
v. Ioshua, Di fronte ai boschi, Torino 1999      p.52-54

Cosa significa la parola patria:
55
La carta geografica non ha la risposta perché somiglia molto più a un disegno astratto. La tomba di tuo nonno non è una risposta, perché un boschetto può farla scomparire. Non hanno occupato soltanto la terra e il lavoro, ma anche la tua psiche, il tuo carattere e quello che ti lega alla patria tanto da farti sorgere domande sul significato di patria.
Ti hanno strappato la terra da sotto i piedi, così l’hai nascosta sotto la pelle. Ti hanno torturato, ma hai confessato un amore ancora più folle per quel che ha causato la tua tortura.
Sotto lo stridio delle catene, l’alienazione che ti viene da ogni singolo giorno, si trasforma in una tregua con il vento. In prigione ti abbraccia la libertà, in prigione ti riempi anche di patria. La lotta è la risposta. Se combatti appartieni a qualcosa. La pace è lotta. Tra valigia e memoria non c’è altra soluzione che la lotta. Diritto, libertà, appartenenza, merito si dichiarano soltanto con la lotta.


Palestina ( vedi pagine 39-57).
42 - molto presto la parola Palestina è diventata proibita. Se tu ammetti di essere venuto dal Libano sei considerato un infiltrato clandestino: non ottieni più la carta d’identità. A cinque minuti di distanza da questo paese passa la strada che da Acri porta a  Safed. Per te non è una strada, ma un confine che divide la terra del tuo esilio e del tuo rifugio dalla tua patria. A sud della strada c’è la terra di tuo padre e di tuo nonno oggi coltivata da immigrati ebrei yemeniti. Nel momento in cui sono arrivati lì definendo il loro destino e quello dei loro figli, in quello stesso momento hanno definito anche il tuo destino. Nel momento in cui loro sono diventati cittadini tu sei diventato profugo.
44       Un soldato israeliano, un poeta, mi ha raccontato che soltanto un giorno in vita sua si era sentito straniero in Palestina, quando era entrato in un paese arabo in Cisgiordania dopo la guerra del 1967. Era in uniforme e per strada aveva visto una bambina che lo guardava in modo da fargli tremare la terra sotto i piedi. Da quegli occhi, da quello sguardo inspiegabile si era reso conto che lui era un occupante.
…Scontro tra due memorie

p.117-120     Silenzio per Gaza
Si è legata l’esplosivo alla vita e si è fatta esplodere. Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.
È il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e verso il suo sangue.
Gaza non è un fine oratore, non a gola. È la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme.
Per questo, il nemico lo odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue.
Per questo gli amici suoi cari la mano con un pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza e Barbara lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici.
Gaza non è la città più bella.
Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe. Le sue arance non sono dei migliori del bacino del Mediterraneo.
Gaza non è la città più ricca.
(Pesce, arance, sabbia, tende abbandonate dal vento, merce di contrabbando, braccia noleggio.)
Non è la città più raffinata, nella più grande, ma equivale alla storia di una nazione. Perché agli occhi dei nemici è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di tutti noi. Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed il suo incubo. Perché arance esplosive, bambini senza infanzia, vecchi senza vecchiaia, donne senza desideri. Proprio perché, nella più bella, la più pura, la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi.
            Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito, perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente di più di una piccola e povera città che resiste. Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo. Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla.
Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere.
In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori.
Gaza ha circostanze particolari e tradizioni rivoluzionarie particolari.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in una istituzione.
Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno.
La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche.
Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori.
Per questo  sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi.
La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie. Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo di spartire le poltrone nel congresso nazionale, né la forma di governo palestinese che fonderemo nella parte est della luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato. Niente la distoglie. È dedita al dissenso: fame e dissenso, site e dissenso, diaspora e dissenso, tortura e dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso.
I nemici possono avere la meglio sul Gaza.
Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.
Possono tagliarle tutti gli alberi.
Possono spezzarle le ossa.
Possono piantare i carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.
Ma lei:
non ripeterà le bugie.
Non dirà sì agli invasori.
Continuerà a farsi esplodere.
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio. Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
(Mahmud Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli ed., 2014, p.117-120)
Scritto nel 1973!


p. 46   L’olocausto e sua utilizzazione a fini politici

Non dimenticare le stragi naziste è un dovere di tutti, non soltanto degli ebrei. Qualsiasi livello di antagonismo arabo-israeliano si sia raggiunto, nessun arabo ha il diritto di simpatizzare con il nemico del proprio nemico, perché il nazismo è nemico di tutti i popoli. E questa è una cosa.
Però Israele sfoga i suoi rancori su un altro popolo chiedendo ai palestinesi e a qualsiasi altro arabo di pagare il prezzo di crimini che non hanno commesso. E questa è un’altra cosa.
Gli israeliani si vantano di fronte al mondo di essere i primi profughi ed esiliati nella storia dell’umanità, fino al punto di trasformare questo attributo in un segno distintivo. Però sono completamente incapaci di comprendere che anche altri possono possedere lo stesso senso.
Non è crudele affermare che il comportamento dei sionisti contro il popolo palestinese è paragonabile alle pratiche naziste applicate contro gli stessi ebrei.
 Non è crudele affermare che il comportamento israeliano e quello del movimento sionista nei rapporti internazionali strappano proprio di bocca il commento: commerciano con il sangue delle vittime ebree. Con i soldi e l’equipaggiamento ricevuti in risarcimento delle vittime del nazismo uccidono un altro popolo.
Dunque non è crudele nemmeno affermare che il modo in cui Israele commemora le vittime del nazismo è caratterizzato dal ricatto emotivo; in quanto saturare gli israeliani tramite il senso dell’olocausto spinto all’eccesso e contemporaneamente tramite il bisogno di vendicarsi non del proprio carnefice ma di un’altra vittima, ossia il popolo palestinese, è un obiettivo politico.
il sionista arrogante non si vergogna di vantare che la perdita di 6 milioni di ebrei, o giù di lì,  gli è valsa una patria.
(Mahmud Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli ed., 2014, p.46-47)

p.121 a tarda notte il mondo va a dormire.
Uccidiamo la memoria
Così il mondo va a dormire e mi dimentica.
Non svegliare la vittima, potrebbe gridare.
Chi l’ha svegliata? Chi è stato?
Un vento che soffia all’improvviso, rianima i morti.
Da dove soffia?
Da ogni direzione, dalla patria.
Chi ha insegnato loro questo termine desueto?
Poeti che cantano al suono del rababà.
Uccideteli.
Li abbiamo uccisi, ma hanno inventato un altro termine: libertà.
Chi ha insegnato loro questo termine sedizioso?
Ferventi rivoluzionari.
Uccideteli.
Ne abbiamo uccisi, ma hanno imparato un’altra parola: giustizia.
Chi ha insegnato loro questo termine?
L’oppressione.
Possiamo uccidere l’oppressione?
Se annientate l’oppressione, annientate voi stessi.
Che facciamo?
Uccidiamo la memoria.


Pag. 139                                         
2 - MEMORIA PER L'OBLIO

Pag. 9                       Memoria per l’oblio è un testo polifonico che accosta discorsi diretti e indiretti, monologhi interiori, narrative contrapposte, sogni, descrizioni, poesie e articoli di giornale, citazioni delle sacre scritture, esegesi mussulmana, storiografia araba e non araba, lessicografia e letteratura europea.


Il caffè. 154
Ecco, sto tornando al mondo. Nelle vene mi scorre una stimolante droga, un fiume di vita nata dal matrimonio tra caffeina e nicotina, una cerimonia officiata dalla mia mano.
Conosco il mio caffè, il caffè di mia madre, il caffè dei miei amici. Non esistono due caffè che si somiglino e il mio panegirico del caffè è come un'apologia della diversità.
L'odore del caffè è un ritorno, un rientro nell'elemento primigenio, perché rimanda l'essenza del luogo d'origine; è un viaggio iniziato migliaia d'anni fa ed eternamente ripetuto. Il caffè è un luogo. Il caffè è una porosità da cui l'interno traspira all'esterno, è un'interruzione che unisce quel che solo l'odore di caffè può unire. Il caffè l'antitesi dello svezzamento, è una mammella che nutre da lontano, un mattino che nasce da un sapore amaro, è l'arte della virilità.  Il caffè è geografia.

L'acqua
165
mi importa poco di quel che succede al di là del vetro. Bombe. Missili. Sirene. Aerei. Corazzate. Mi soffiano contro come soffia il vento. Piovono come pioggia che cade. Sussultano come farebbe un terremoto. La volontà umana non può far nulla per fermarli, pare sia un destino ineluttabile. Sui nostri corpi, oggi, si sta testando ogni nefandezza che l'ingegno umano ha potuto partorire e, in aggiunta, tutto un bagaglio di innovazione tecnologica. Sarà il giorno più lungo della storia? Nessuno lava i morti, siano quindi i morti a lavarsi da sé. Col sangue, intendo, visto che l'acqua è introvabile. Faccio sempre tesoro, io, delle mie preziose riserve idriche, utilizzo ogni goccia con estrema parsimonia. Ogni goccia ha il suo ruolo. Le conto, quasi. 500 per lavarmi i capelli. Duemila per il corpo. 100 per la bocca. 100 per farmi la barba. 20 per ogni orecchio. 50 per ogni ascella via di seguito. Ogni goccia ha il suo pezzetto di corpo.
166
L'acqua è aria in gocce, palpabile, tangibile, pegno di luce. È per questo che i profeti hanno voluto che i loro popoli la amassero: dall'acqua abbiamo fatto germinare ogni cosa vivente(Corano, 21º, 30).
A Tell al-Za’tar  i cecchini aspettavano le donne palestinesi vicino all'acqua, vicino alle condutture bucate, esattamente come fanno i cacciatori quando braccano le gazzelle assetate. Acqua assassina. Acqua che diluisce il sangue di gente disidratata, disposta a rischiare la vita pur di inumidirsi le labbra. Acqua che ha mosso i re degli arabi e li ha costretti loro malgrado a telefonare al presidente americano per proporre uno scambio vantaggioso: sangue in cambio dell'acqua. Petrolio in cambio dell'acqua. Noi stessi in cambio dell'acqua.
Il rumore dell'acqua è come uno schiamazzo di nozze, più forte, molto più forte di qualsiasi aereo. Il rumore dell'acqua fa da specchio alle vene della terra che vive, il rumore dell'acqua è libertà. Il rumore dell'acqua è umanità.

179
Nell’area invasa, sul mare invaso, sulla montagna invasa e sulle sue distese di pini continuano a piovere bombe, bombe di paure primordiali; la cacciata di Adamo dal paradiso terrestre si inserisce nella moltitudine di storie che raccontano un esodo. Non ho patria, non ha più corpo. Continuano a piovere bombe sui cantici di gloria, sul conversare di morte che scorre nel sangue come luce che infiamma domande gelide. I missili mi penetrano in ogni poro della pelle e ne escono indenni. Non sento l’inferno che l’area diffonde, perché lo respiro, lo sudo in ogni goccia di sudore.

179     Voglio cantare
sì, esatto, voglio cantare questo giorno bruciato. Voglio cantare. Trovare le parole che muteranno la lingua in acciaio dell’anima, una lingua che sappia battere questi aerei, questi insetti d’argento scintillante. Voglio cantare.  Inventare una lingua che mi sostenga e che sosterrò, la lingua che mi dia prova e a cui darò prova della forza che ci abita, una forza capace di trionfare sulla solitudine universale. Voglio cantare e poi andar via.

197
quante incongruenze tra noi palestinesi.
Ci sono interi uffici con tanto di aria condizionata e saloni di rappresentanza che servono solo a diffondere calunnie maldicenze. Qualche gruppuscolo si è specializzato nel commercio di martiri: ce ne servirebbero altri 20 per portarci al livello.
E così si è combattuto per accaparrarsi un martire di cui non si conosceva l’affiliazione. Si è messo a morte un combattente perché ha rifiutato di sparare a un amico che militava in un’altra organizzazione. Si è buttato il suo cadavere in un pozzo abbandonato e lì è rimasto finché un una veggente non l’ha ritrovato.

p.200 Begin come Giosuè (VI,16-26)
v. testo…

223     Paolo Rossi
Anche noi amiamo il calcio. Anche noi abbiamo il diritto di amare il calcio. E abbiamo il diritto di assistere alla partita. Perché no? Perché non sfuggire un po’ alla routine della morte? In un rifugio, siamo riusciti a procurarci l’energia elettrica usando alla batteria di un’automobile. In un battibaleno Paolo Rossi ci ha trasmesso la gioia che ci mancava. È un uomo che, in campo, si vede solo dove conviene che lo si veda. Un diavolo smilzo che noti solo dopo che ha segnato la rete, esattamente come un aereo da bombardamento si vede solo dopo che i bersagli sono esplosi. Dove c’è Paolo Rossi c’è un gol, c’è un’ovazione. Poi lui scompare, oppure si nasconde per aprire nell’aria un varco per quei suoi piedi pronti a cercare le buone occasioni, a portarle a maturazione, a raggiungerle in un picco di voluttà. Non è mai chiaro se sta giocando a calcio oppure facendo l’amore con la rete, una rete ritrosa che lui, sul torrido campo spagnolo, tenta e seduce con una raffinata galanteria italiana. Che lusinga come farebbe un gatto in calore. E poi, infine, ecco che Paolo Rossi, sotto gli occhi dei guardiani della virtù, un imene di 10 uomini posto a protezione della verginità della rete, ecco che Paolo Rossi avanza, avanza in un impeto di lussuria, avanza, muscolo d’aria, e sfonda. Ed ecco che la rete, incapace di resistergli, si rilassa e si arrende al suo ineffabile stupro.

225-229        in quell’anno i franchi conquistarono Gerusalemme
 Ibn Kathir (1301-1373) l’inizio e la fine.

229     presso i franchi non c’è ombra di senso dell’onore e di gelosia.
Usama ibn Munqidh (1095-1188), Il libro dell’ammaestramento con gli esempi.
238     i tacchi alti e l’amore in tempo di guerra
sbatti i tuoi tacchi alti sulla pietra delle scale e maciulla le pareti del mio cuore facendone pastura per i cani randagi. Ah, quanto mi piacciono i tacchi alti che fanno stendere le gambe in un assoluto di femminilità pronta a esplodere, che rimpiccioliscono il ventre, lo fanno arcuare quando è raggrinzito per la sete, che arrotondano i seni e li fanno passare alti e superbi sopra le teste dei passanti al cui desiderio si negano. I tacchi alti fanno sì che il collo si tenda come quello di un cavallo quando sta per precipitare in un baratro, fanno sì che la lancia si rizzi su un pulpito d’aria solidificata. Sbatti contro il selciato con ombrosità di una gazzella che né braccia né parole possono afferrare. Mostrati pian piano da dietro la porta chiusa. Dall’altro lato c’è una poltroncina in pelle. Ci potrà reggere, è abbastanza larga per noi due. Ma non toglierti i vestiti perché la morte non ci veda nudi. C’è tempo solo per un amore frettoloso, per un sobbalzo di eternità temporanea.
…Non c’è tempo per l’amore in una guerra a cui dobbiamo solo sorsi di vita.
 È insito nella guerra generare lussuria? È insito nella paura di morire, generare tensione? Amo questo amore senza chiacchiere, senza belle parole, senza orpelli inutili. Senza tempo per i rituali che rendono magico separarsi e sciogliersi lentamente dall’abbraccio, come quando ci si rifugia in una sigaretta fingendo di contemplare gli anelli di fumo azzurrognolo che disegna. Come quando si guarda l’orologio non tanto per vedere l’ora, ma per sapere se è tempo che uno dei due furtivamente si sfili. Amo questo amore che non lascia dolore nei ricordi né cicatrici in petto. Un amore come un volo di farfalla sulla rosa dell’anima. Un capriccio che porta il poeta a confondere la donna con il canto.

246 … Facciamo attenzione alle armi letterarie capaci di nascondere il loro tradimento e la loro pretesa di santità, capaci di infrangere i nostri sogni fingendo disgusto per la politica - detto in altri termini: disgusto per la lotta. Un uso corretto della lingua è diventato sinonimo di arretratezza, la precisione della metrica regresso. La chiarezza è diventata una vergogna, la parola e l’effetto della parola sul pubblico  inciviltà. Per dirla in breve: siamo in piena reazione. Lo spirito reazionario, spacciandosi per sinistrorso, si è fatta avanti con tutto l’armamentario tipico della modernità, stracolmo però di tutte le teorie sul ritorno al passato.
…E intanto il figliol prodigo faceva ritorno alla sua comunità confessionale, al suo ascetismo o al suo esoterismo e dichiarava a gran voce che era pentito di essersi rovinato la vita partecipando a quei movimenti di liberazione che avevano prodotto solo difficoltà impreviste e a quella rivoluzione che ha dimostrato di avere costi troppo elevati.

260… Il cambiamento degli arabi.
Io non credo, né voglio credere, che la storia del medio oriente continuerà meccanicamente a ripetere se stessa, né che lo farà per guizzi creativi. Per quanto gli slogan della moderna politica siano ormai lontani anni luce dai principi che li hanno generati, per quanto i discorsi siano vuoti di contenuto, io, comunque, non mi convincerò che il cambiamento degli arabi, che il progresso degli arabi, verrà dall’esterno, da qualcosa che non sia arabo. Secondo me, un modello che si prefigge di sedurre con la fede quanti non hanno fiducia nel presente non può che riportarci a un conflitto che affonda in questioni non più nostre. E io cosa ho a che spartire con gli errori del terzo successore del profeta, il califfo Uthman ibn ‘Affan? Ho altre storie, io, questa non è l’unica che mi riguarda.


3 – IN PRESENZA D’ASSENZA p.283

Nel 2006, quando pubblica in presenza d’assenza, Darwish vive tra Ramallah, in Palestina, e Amman in Giordania. Nell’ultimo decennio si è quasi totalmente liberato della pressione politica che gli pesava addosso in quanto “poeta nazionale”. Ha potuto e voluto essere in prima istanza semplicemente un poeta. I critici chiamano questa fase “lirico-epica” e “dei temi indipendenti”.
Mentre si interroga sul posto che la Palestina occupa nel mondo, il lirismo intimista e il lirismo epico si riconciliano nell’immagine del palestinese non più eroe e vittima, ma come essere umano che anela a una vita banale, semplice, ordinaria.  p.10

p.11    A un certo punto la sua traiettoria poetica si spinge verso l’alto alla ricerca di un punto di equilibrio in cui prosa e poesia si avvicinino l’una all’altra, tanto da arrivare a confondersi.
In presenza di assenza il poeta si sforza di elevare al suo massimo potenziale la prosa in arabo. Ed è una sorta di addio a se stesso quando si dice:
Allora riposa in pace, se possibile
Riposa in pace nelle tue parole.

la crisalide e la farfalla

p. 287                 secondo le tue volontà, eccomi qui, in piedi, a ringraziare a nome tuo chi è venuto a darti l’estremo saluto per quest’ultimo viaggio. L’invito a non dilungarsi troppo nel congedo per passare un banchetto più  consono a ricordarti.
Lascia che ti guardi, ora che ti sei staccato da me, indenne come pura prosa su di una pietra che si tinge di verde o di giallo in tua assenza, lascia che ti guardi, ora che mi sono staccato da te. Lascia che raccolga te il tuo nome come fanno i passanti con le olive dimenticate, nascoste tra i sassolini. Andiamocene insieme, tu e io, in due direzioni diverse: tu, verso una seconda vita, promessa dalla lingua, in un lettore che forse sopravviverà all’impatto della cometa con la terra; io, verso l’appuntamento più volte posticipato con la morte a cui, in una poesia, ho promesso un calice di vino rosso.
289… Mentre ci separiamo presso questo limbo dalla vita alla morte, lasciami, dunque, rescindere il contratto stipulato tra me e te, tra un’assurdità e l’altra. Non sappiamo chi di noi ha vinto e chi ha perso, se io, tu o la morte.
Tu, mio opposto, sei sempre alla spasmodica ricerca di un’assurdità necessaria ad allenare lo spirito alla tolleranza e a esercitare il privilegio di contemplare acqua che ride nelle fossette, o vola di farfalla in farfalla e crea poesia da ogni viva forza. Perché la leggerezza, come la rugiada, vince il metallo, lei vergine del tempo, lei che insegna alle bestie a suonare il flauto.
… Ti hanno buttato fuori dal campo. La tua ombra, però, non si ha seguito né tradito, si è pietrificata inchiodata laggiù, poi si è trasformata in una pianta di sesamo: verde di giorno, blu di notte. È cresciuta fino a diventare alta come un salice, verde di giorno, blu di notte.
Nonostante tu sia lontano sarai vicino
nonostante  ti abbiano ammazzato vivrai
non credere di essere morto laggiù
sei vivo qui.
Solo la metafora comprovarlo
 la metafora che ha insegnato il gioco delle parole alle creature
La metafora che adesso l’ombra geografia
La metafora che raccoglierà te il tuo nome.
Scrivi tu stesso la storia del tuo cuore
da quando Adamo si è innamorato
fino a quando il tuo popolo è risorto.
… Alzati affinché ti porti
avvicinati affinché ti riconosca
allontanati affinché ti riconosca.


L’esilio
334      l’esilio non è un viaggio, un andare e tornare, né un soggiornare nella nostalgia. Forse è visita, attesa degli effetti del tempo, uscita da se stessi incontro agli altri per fare conoscenza e stare in armonia o per tornare nella propria conchiglia.
…In esilio ti scegli uno spazio per domare l’abitudine, uno spazio personale per il tuo diario e scrivi: il luogo non è trappola possiamo dire:
qui abbiamo una strada laterale
un fornaio
una lavanderia
una tabaccheria
un angolino
un odore che ricorda…

L’esilio è un ponte tra le immagini per attraversare la fragilità, è il narciso sottoposto al test della superbia e della modestia al contempo, è la disputa dei diversi, è l’accordo dei simili. Non tutto ciò che somiglia al laggiù, qui chi accoglie. Non tutto ciò che qui che rifiuta, laggiù ti accoglie.


p. 335                                                          
Le città sono odori:
San Giovanni d’Acri e l’odore di iodio e spezie,
Haifa, l’odore di pini e lenzuola sgualcite.
Mosca, l’odore di vodka con ghiaccio.
Il Cairo, l’odore di mango e zenzero.
Beirut, l’odore di sole, mare, fumo e limone.
 Parigi, l’odore di pane fresco, formaggi prodotti di seduzione.
Damasco, l’odore di gelsomino e frutta secca.
 Tunisi, l’odore di muschio notturno e sale.
Rabat, l’odore d’hennè, incenso e miele..
Gli esili hanno un odore condiviso: odore di nostalgia per qualcos’altro, odore che ne rievoca un altro. L’odore del luogo d’origine. L’odore è memoria e tramonto.

Le parole
Le parole sono le materie prime per costruire una casa. Le parole sono una patria. (336)

La nostalgia
p.355
La nostalgia è l’ospite della sera che arriva quando cerchi le tue tracce in quel che ti circonda e non le trovi, quando un passerotto si posa sul balcone e ti sembra un messaggio inviato da un paese che, quando si abitavi, non amavi come la mia adesso che è dentro di te. Prima era aria, terra e acqua, ora è poesia. La nostalgia è il lamento del diritto incapace di dimostrare la forza del diritto davanti al diritto della forza.
356…La nostalgia è il dolore che non ha nostalgia del dolore. E’ il dolore provocato dall’aria pura che viene dall’alto di un monte lontano, il dolore della ricerca di una gioia passata.
Però è un dolore di quelli sani, perché ci ricorda che siamo malati di speranza e inguaribilmente sentimentali.

L’amore
357
l’amore è un cammino battuto come il significato, ma impervio come la poesia. Richiede talento, tenacia e foggia valente perché ha molti gradi. Non basta amare, quella è una delle magie della natura simile al cadere della pioggia all’abbaglio del lampo. L’amore che porta su un’altra orbita e poi te la deve sbrigare da solo. Non basta amare, devi sapere come amare. Hai imparato come?
…360
Tu sei quello che conosce l’amore solo quando ama e non si chiede cos’è né lo cerca. Una volta una donna ti ha chiesto se amavi l’amore in sé e per sé, hai glissato e te la sei cavata rispondendo: amo te. Non ami l’amore?- Ha insistito. E tu:-ti amo per quello che sei-. Ti ha lasciato, non eri affidabile quando lei non c’era. L’amore non è un’idea. È un sentimento che riscalda e raffredda, che viene e va. Un sentimento che prende forma e corpo, che ha cinque sensi e più sensi. Talvolta ci appare in forma d’Angelo, dalle ali lievi, capace di sollevarsi in aria. Talvolta ci travolge in forma di toro: ci scaraventa a terra se ne va. Alcune volte si abbatte in forma di tempesta che riconosciamo soltanto poi, dagli effetti devastanti che si lascia alle spalle. Altre volte ancora scende su di noi in forma di rugiada notturna, quando una mano magica punge una nuvola vagabonda.

La frutta come un’allegoria cerebrale
p.364   
La mela è forma da mordere, senza la punizione della conoscenza.
La pena è un seno di perfetta proporzione, né più né meno di un palmo di mano.
L’uva è il richiamo dello zucchero: spremermi in bocca o nei tini.
L’albicocca il ritorno della nostalgia la sua pallida origine.
La lancia l’idea che illumina, nella notte, e può essere mangiata sempre.
Il fico è un paio di labbra che si schiudono con due dita per ricevere erotico significato in un colpo solo.
Il fico d’India della vergine che difende il suo tesoro.
La ciliegia e accorciare la distanza tra il desiderio degli occhi la fregola delle labbra.
La mela cotogna alla femmina che litiga per il maschio, lasciando al deluso groppo in gola.
Il mango alla bava che cola per visibile piacere.
La fragola è un insieme di acidi di colore, né rossi né altro, che rinvia lo scandalo della similitudine.
Il gelso, con lo zucchero nero, e ricordo del primo bacio.
Il melograno è rubino celato nell’allusione.

In viaggio da Ramallah a Gerico.
Il papavero e l’erba.
p.371      La vita è arrivata qui in fuga dal Mar Morto? Eppure, dalla desolazione del luogo, ecco spuntare papaveri, ecco le loro piccole corolle affacciarsi dalle rocce grigie e nere. Bastano un po’ di pioggerellina di luce, a che la vita prevalga sul nulla. Basta un po’ di speranza di tempo, a che tu attraversi le diramazioni del mito risparmiato dai destini dei tuoi avi. Prende in prestito alla saggezza dai papaveri e di: non ha niente a che fare con il nulla, sebbene sia circondato dalla morte.
E se ti chiedono della forza della poesia rispondi:
-l’erba non è così fragile come pensiamo. Da quando ha nascosto la sua ombra modesta nel segreto della terra, non si spezza più. Nell’erba spuntata dalla roccia c’è il prodigio della parola rivelata dal mistero divino, senza clamore né squilli di trombe. L’erba è profezia spontanea, senza altro profeta del proprio colore opposto a quello della terra arida. L’erba è la salvezza del viaggiatore scampato alla cultura del paesaggio e a un esercito che preclude la strada possibile. L’erba all’avvicinarsi della lingua significato e il connubio del significato con l’ospitalità della speranza-.
E se ti chiedono della lotta tra poesia e morte, guarda l’erba e di quello che rasenta la verità:-nessuna poesia sconfigge la morte nell’ora dell’incontro, però può posticipare una per il tempo necessario a saggiare l’utilità del canto fino alla fine di un lungo concerto, dopodiché il cantante cade nelle mani del suo cacciatore ritto dietro la porta. Forse nessuno si accorgerebbe della morte del cantante, se la canzone diventasse collettiva e i compagni di veglia continuassero il canto. È in quel posticipo, immaginando che la morte se si è addormentata, i nuovi cantanti si sveglieranno senza badarle affacciandosi su papaveri che danno loro il benvenuto, come dice picca nei lasciati incompiuti da pastori di gazzelle, occupati a dare la caccia ai lupi e sciacalli-.
… All’improvviso, una pioggia leggera bagna la tua anima, bagna le farfalle. Luce, pioggerella, farfalle che svolazzano radenti alla litoranea. Le farfalle, pensieri sparsi, sensazioni che volano nell’aria.