lunedì 19 maggio 2008

Ivi è Romena - Dante in Casentino.

Presentazione del libro “Ivi è Romena”


 sabato 14 giugno 2008, ore 21

 Questa è la bozza della sceneggiatura che sto preparando per la serata della presentazione che sarà nel cortile interno del castello, che è molto molto suggestivo. Accompagnamento d'arpa, due voci impostate per Dante. Il resto penso si possa fare "a mano" alternandoci nella lettura i presenti in platea. Sicuramente bisognerà sfoltire, perché prima ci saranno le presentazioni della Comunità Montana, con l'illustrazione del programma estivo, poi la relazione "accademica" del prof. Giovanni Cherubini".  I tempi di attenzione vanno, mi dicono, poco oltre i 60 minuti. Ma io, come Narciso, mi sono affezionato a questa specie di autoritratto libresco. Per cui intanto me lo pubblico, a futura memoria.

Io penso di dar la voce al  Narratore.


una donna nelle vesti di Ella Noyes: 

Quando si guarda al Casentino, laggiù in basso, la Valle Chiusa stessa diviene pensiero, memoria. Il passato emerge più vivido del presente ed il corso stesso del fiume diviene il simbolo, l'immagine delle possenti correnti di vita e di passione che un giorno fluirono attraverso la Valle. In giorni di un remoto passato il piccolo spazio circoscritto dai verdi colli, ora così pieno di pace, rinserrò in sé alcune delle più strenue forze della storia d'Italia. La catena di alture irte di castelli, lungo il corso del fiume e le torri di pietra che scrutano dalle balze ogni valle laterale sottostante, rammentano il sistema feudale che in passato dominò l'Italia quando, nel diluvio generale, in cui rimasero sommerse legge ed ordine, dopo la caduta dell'Impero e le successive invasioni del paese, il potere si ritirò sulla cima dei monti e fu impersonato dal braccio armato del barone indipendente.

Il Casentino, tenuto da grandi Conti Palatini, i Guidi che, colla forza delle armi avevano esteso il loro dominio su tutte le vallate più alte dell'Appennino in entrambi i versanti e fino al cuore della Romagna, fu nell'Undicesimo e Dodicesimo secolo la sede di un potere al quale gli ancora deboli e insignificanti comuni confinanti prestavano omaggio ed obbedienza.

Fu questo il periodo in cui la Vallata fu più strettamente collegata con il mondo esterno. Mercanti e viaggiatori frequentavano le montagne e i villaggi, oggi piccoli e modesti, quasi inaccessibili sulle cime pietrose, che erano allora importanti luoghi di passaggio e sui monti si ergevano numerose e grandi abbazie, ridotte oggi a mucchi di rovine perse nella foresta, sui più alti pendii visitati oggi solo da cacciatori, abbazie che furono un tempo centri di rapporti umani e di attività politiche. La Vallata era probabilmente più popolata allora di oggi: dove il principe aveva la sua sede gli uomini si sentivano sicuri e si riunivano.

 

1 quadro    libro p-43

 

 Il bando e la condanna

 

Narratore - Nei primi giorni dell’ottobre 1301 Dante è a Roma, in ambasceria presso Bonifacio VIII. La resa dei conti tra la parte Bianca e la parte Nera è imminente. Dante, eletto priore il 13 giugno 1300, si è fortemente esposto, e in senso segnatamente antipapale: nella seduta del 19 giugno è l’unico a pronunciarsi a favore del ritiro delle truppe (cento cavalieri dislocati in Maremma) prestate in precedenza a Bonifacio, e che il Papa chiede di trattenere: “Dante espresse il parere che riguardo al servizio da rendere al papa non se ne facesse nulla”.

 Dante è con tutta probabilità ancora a Roma quando il primo novembre Carlo di Valois, il falso ‘paciaro’ nominato dal Papa, entra in Firenze, e con lui rientrano, illegalmente, i capi dei Neri precedentemente banditi. Cominciano le rappresaglie: le case dei Bianchi, comprese quelle degli Alighieri, vengono messe a sacco; comincia il regolamento dei conti contro gli esponenti del partito avverso. Sulla via del ritorno da Roma, giunto nei pressi di Siena, Dante viene raggiunto dal bando col quale una Firenze ingrata dà il benservito al suo ambasciatore a Roma.

 

Araldo p.45 del libro

Condanna all’esilio

27 gennaio 1302

In nome di Dio, amen.

Io Messer Cante dei Gabrielli da Gubbio, onorevole Potestà della Città di Firenze …

nell’anno del Signore 1302, al tempo del Santissimo Padre Papa Bonifazio VIII…

OMISSIS

Essendomi venuto alle orecchie sulla base di pubbliche dicerie che Dante Alighieri, durante il tempo del suo Priorato o dopo,

1 -aveva commesso per sé o per altri Baratterie, illeciti lucri, inique estorsioni in denaro o altre cose

2 – che lui o chi per lui aveva ricevuto denaro o altra utilità per far eleggere Priori o Gonfalonieri,

ufficiali di distretto, per stanziamenti a favore di rettori e ufficiali del comune di Firenze;

3 – che aveva fatto spendere denari contro il Sommo Pontefice e per impedire la venuta di re

Carlo D’Angiò;

4 – che aveva commesso o fatto commettere frode, falsità, dolo, malizia, baratteria e grave estorsione e aveva operato per dividere la città di Pistoia causando l’espulsione da detta città dei Neri fedeli alla Chiesa Romana, staccandola dall’alleanza con Firenze, dalla soggezione alla Chiesa romana e a re Carlo, paciaro in Toscana;

 

ordino che detto messer Dante, insieme a Palmerio, Orlanduccio e Lippo,…

venga multato di 5.000 fiorini piccoli, che restituisca quello che ha illegittimamente estorto. Se non obbedisca alla condanna entro il terzo giorno da oggi che tutti i suoi beni siano confiscati, devastati e distrutti; e devastati e distrutti restino di proprietà comunale; che, anche se pagante, resti fuori della provincia di Toscana a confino per due anni; che sia escluso per sempre dai pubblici uffici come falsario e barattiere, che paghi la condanna o no.

Tale è la nostra sentenza.

 

 

Condanna a morte                 p.47 del libro

10 marzo 1302

In nome di Dio, amen.

noi Cante, predetto Podestà, diamo e proferiamo la sotto indicata Condanna:

Messer Andrea de Gherardini

Messer Lapo Saltarelli


Dante Allighieri

… contro i quali si è proceduto a seguito della inquisizione del nostro ufficio e della nostra Curia per il fatto pervenuto alle orecchie nostre e della stessa nostra Corte sulla base delle pubbliche dicerie …che se qualcuno dei predetti in qualsiasi tempo cadrà in potere del detto comune, sia bruciato col fuoco finché muoia.

 

Così Dante esprimerà il suo stato d’animo:

 

Dante (indicato dai tre asterischi)

*** Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi di tanti in modo molto diverso da come forse per alcuna fama m’aveano imaginato: nel conspetto de’ quali posso aver perduto stima e considerazione come persona, in modo che ne potrebbe risentire il giudizio anche riguardo ad ogni mia opera, sì già fatta come quella che fosse a fare.

(Convivio I - 3° cap.)

 

Lettera ai duchi di Romena 1304     p.67 del libro

 

***Questa lettera è stata scritta da Dante Alighieri a Oberto e Guido conti di Romena dopo la morte del loro zio conte Alessandro, per esprimere le sue condoglianze. Il vostro zio Alessandro era il mio signore e tale rimarrà nella mia memoria finché vivrò, perché mi avevano reso suddito la sua magnificenza e la sua bontà durante lunghi anni di tormentate vicissitudini.


Io poi, oltre a tutto questo, mi scuso, come vostro suddito, di fronte alla vostra discrezione, della mia assenza alle dolorose esequie; perché sono stato impedito non da negligenza né ingratitudine, ma dalla improvvisa povertà che l’esilio mi ha procurato. Questa povertà infatti, davvero crudele persecutrice, dopo avermi privato di armi e di cavalli, mi ha ormai cacciato nell’antro della sua prigionia dove, impietosa com’è, fa di tutto per tenermi imprigionato.

 

Voce fuori campo

Tu proverai sì come sa di sale

Lo pane altrui; e come è duro calle

Lo scendere e salir per l’altrui scale.

(Par. XVII, 58-60)

Seconda voce fuori campo

…"Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

Ma s'a conoscer la prima radice

del nostro amor tu hai cotanto affetto,

dirò come colui che piange e dice.

(Inf. V, parole di Francesca da Rimini)

 

 

2 quadro

 

Padre della lingua italiana

Narratore

Il “De vulgari eloquentia” (1303-1305) è un trattato in latino sull’uso del volgare come lingua letteraria ed è rivolto al popolo delle arti che dal 1282 ha sostituito nel governo di Firenze i magnati della grande proprietà terriera. Dante dichiara che la lingua volgare è quella lingua che il bambino impara dalla balia, quindi una lingua naturale, a differenza della lingua latina che è lingua perfetta ma artificiale. Dante non perde l’occasione neppure per esprimere il suo giudizio negativo sul modo di parlare dei casentinesi:

 

La parlata dei casentinesi

Secondo lettore, Dante

In tanta dissonanza che tutte queste varietà producono nel volgare italiano, mettiamoci sulle tracce della lingua più decorosa d'Italia, la lingua illustre; e per aprire alla nostra caccia una strada transitabile, in primo luogo buttiamo fuori dalla selva cespugli aggrovigliati e rovi.

E diciamo pure che quello dei Romani - che non è neanche una lingua ma piuttosto uno squallido gergo - è il più brutto di tutti i volgari italiani.

Dopo costoro strappiamo via gli abitanti della Marca Anconitana, che dicono Chignamente state siate: (possiate mantenervi come state ndr) e assieme a loro via anche gli Spoletini.

Dopo di questi estirpiamo Milanesi e Bergamaschi.

E dopo ancora, setacciamo via Aquileiesi e Istriani, che con quel loro accento ferino pronunciano: Ces fas-tu? E assieme a questi buttiamo via tutte le parlate montanare e campagnole, come quelle dei Casentinesi e degli abitanti di Fratta, che, col loro accento aberrante da tutte le regole, suonano in modo da far a pugni col linguaggio di chi abita nel centro delle città. (v. De Vulg. Eloq. I, 11)

 

La parlata dei toscani

 

Ma poiché i Toscani sopra gli altri folleggiano in cosiffatta ebbrezza, mi sembra utile cosa e degna sfrondare alquanto, l’uno appresso dell’altro, ciascun volgare municipale toscano. I fiorentini dicono: Manichiamo, introcque che noi non facciamo altro(Intanto mangiamo: noi che non facciamo altro). E i Pisani: Bene andonno li fatti de Fiorensa per Pisa. I Lucchesi: Fo voto a Dio ke in grasrra eie lo comuno de Lucca (giuro su Dio che il Comune di Lucca sta nella grascia). I Senesi. Onche renegata avess’io Siena. Ch’ee chesto? Neppure avessi mai rinnegato Siena. Che è questo? Onche = numquam)E gli Aretini: Vo’ tu venire ovelle? (vuoi tu venire dove che sia?)

Se adunque prendiamo a studiare le loquele di Toscana non resterà dubbio che il vulgare che noi andiam cercando sia bene altro da quello elle genti toscane. (De vulgari eloquentia, I, 13)

 

 

3 quadro L’amore tempestoso

 

lettera al marchese Moroello Malaspina

 

Narratore Nell’Epistola IV, scritta ai primi del 1307, Dante, di ritorno da una importante ambasceria in Lunigiana, scrive al conte Moroello Malaspina e racconta che, appena giunto sulle rive dell’Arno, gli era apparsa davanti agli occhi una donna e che, malgrado ogni suo sforzo, Amore gli aveva cacciato dalla mente ogni proposito di tenersi lontano dalle donne e dalla poesia amorosa e lo aveva completamente sottomesso alla propria signoria.

p.74

Dante

***Ero appena uscito dalla corte dove mi era stato possibile vivere in piena libertà, ed avevo posto sicuro ed incauto i piedi presso la corrente del Sarno, quando, ahimè, all’improvviso, non so come, mi apparve una donna, come folgore dall’alto, in tutto per costumi e bellezza conforme alle mie aspettative.O quanto fu il mio stupore a quella apparizione! Ma lo stupore cessò per il terrore del fragore che seguì. Poiché come ai diurni baleni succedono i tuoni, così alla vista della fiamma di questa bellezza, Amore tremendo ed imperioso mi ebbe suo, e feroce come un signore che rientri nelle sue terre dopo un lungo esilio, uccise o sbandì o imprigionò qualsiasi cosa fosse stata a lui contraria dentro di me. Soffocò dunque quel proposito lodevole per cui mi tenevo lontano dalle donne e dai loro canti, e cacciò empiamente come sospette le assidue meditazioni con le quali andavo considerando le cose del cielo e della terra. Infine, perché l’anima mia non potesse più ribellarsi contro di lui, mise in catene il mio libero arbitrio, sicché bisogna ch’io mi volga dove vuole lui e non io.

 

p.75

***Amor, da che convien pur ch’io mi doglia

Perché la gente m’oda,

E mostri me d’ogni vertute spento,

Dammi savere a pianger come voglia,

Sì che ‘l duol che si snoda

Portin le mie parole com’io ‘l sento.

Io non posso fuggir ch’ella non vegna

Ne l’immagine mia,

se non come il pensier che la vi mena.

L’anima folle che al suo mal s’ingegna,

com’ella è bella e ria,

così dipinge e forma la sua pena.

Così m’hai concio, Amore, in mezzo l’Alpi,

Ne la valle del fiume

Lungo il qual sempre sopra me se’ forte:


O montanina mia canzon, tu vai:

Forse vedrai Fiorenza, la mia terra,

Che fuor di sé mi serra,

Vota d’amore e nuda di pietade;

va’ dicendo: “Omai

Non vi può far lo mio fattor più guerra:

Là ond’io vegno una catena il serra

Tal che, se piega vostra crudeltate,

Non ha di ritornar qui libertate”

 

  

4 quadro  

 La grande speranza: Enrico imperatore    p.113

 

Narratore il 27 novembre i sette principi elettori di Germania, radunatisi in un convento di Francoforte, s'accordano finalmente per metter fine al periodo di sede vacante dell'Impero, dopo l'uccisione di Alberto I, e designano alla corona imperiale Enrico do Lussemburgo, di trentaquattro anni

 

 

Ma com'era l'Italia nel 1310?          P.115 del libro

Il papato aveva avuto un periodo non breve di sede vacante. Poi con Celestino V era fallito l’esperimento spirituale, con Bonifacio VIII fallisce l’esperimento temporale, con Clemente V il pontefice è ormai vassallo del re di Francia, in Avignone.

 

L’Impero ormai da molti anni non è più punto di riferimento nelle mille contese tra feudatari e mercanti, tra città e campagna; l’Italia è una nave senza nocchiero in gran tempesta. La Sicilia si libera dai francesi con i vespri siciliani per far posto agli Aragonesi: Federico II ne fa campo di battaglia prima col fratello Giacomo poi con Carlo II d’Angiò. Genova ha sconfitto Pisa alla Meloria e poi Venezia a Curzola. Marco Polo, reduce dalle glorie del Catai, trova il tempo per dettare le sue memorie nelle prigioni genovesi, mentre Giotto ha da poco finito di dipingere la cappella degli Scrovegni a Padova.

l’industria tessile costituisce l’asse portante dello sviluppo economico; la lana proviene dalla Castiglia e dall’Inghilterra: Firenze, Lucca, Milano, Como, Bergamo, Brescia sono centri di produzione che   eguagliano quelli delle Fiandre e della Francia del Nord. L’artigiano ha bisogno del mercante che procuri la materia prima e fornisca il denaro per il primo acquisto. Il mercante ha bisogno di vie di comunicazione sicure e libere da balzelli. Firenze chiede il passo alle città confinanti; se Arezzo, Siena, Pisa e Lucca si mettono sulla sua strada è guerra.

 

Dentro la città il mercante-artigiano guelfo chiede il passo al magnate ghibellino; il partito guelfo, una volta vincitore, si divide al suo interno. Bianco contro nero, popolo minuto contro popolo grasso, salariato contro proprietario...

 Il momento è drammatico, altamente drammatico. Tutti gli antichi fuorusciti fiorentini, Ghibellini e Bianchi, sono intenti a seguire le mosse dell’alto Arrigo, e impazienti vorrebbero che egli non ponesse ulteriori indugi, e subito puntasse al cuore della Toscana. Con la speranza prende corpo in Dante una diversa o comunque più precisa convinzione politica. Dante, qui dal Casentino, scrive tre lunghe infuocate lettere ai Signori d’Italia, agli scelleratissimi fiorentini, al divo Enrico. Ancora fresca d’inchiostro la stesura del 6° canto del Purgatorio che di queste lettere costituisce la parafrasi. E che parafrasi.

 

Dante

  

Epistola V (settembre-ottobre 1310)

Alle sorgenti dell’Arno.

*** Tutti e ai singoli Re d’Italia e ai Senatori della santa città, nonché ai Duchi, Marchesi, Conti e ai Popoli, l’umile italiano Dante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa invoca pace. “Ecco ora il tempo accettevole”, nel quale sorgono i segni della consolazione e della pace. Un giorno nuovo infatti comincia a splendere mostrando dal suo nascere l’aurora che già riduce le tenebre della lunga calamità; e già le brezze orientali si fanno più frequenti; rosseggia il cielo ai confini dell’orizzonte e conforta di dolce serenità le speranze delle genti. O Italia, ora degna di pietà perfino per i saraceni, …asciuga le lacrime e cancella i segni dell’afflizione, o bellissima, è vicino colui che ti libererà dal carcere degli empi, che percuotendo a fil di spada i malvagi li disperderà e affiderà la sua vigna ad altri agricoltori che al tempo del raccolto diano in cambio il frutto di giustizia.

 

E voi che piangete oppressi “sollevate l’animo, ché vicina è la vostra salvezza”. Prendete il sarchio della buona umiltà e, spezzate le zolle della riarsa animosità, spianate il campicello della vostra mente affinché la pioggia celeste, venendo per caso prima che sia gettata la vostra semente, non cada a vuoto dall’alto. Non si ritragga da voi la grazia divina come la rugiada quotidiana dal sasso, ma come una valle feconda concepite e germinate il verde; il verde, dico, fruttifero di vera pace; e sulla vostra terra ritornata verdeggiante il nuovo agricoltore dei Romani aggiogherà con maggior rispetto e con maggiore fiducia i buoi della sua saggezza. Perdonate, perdonate già da ora, voi che con me avete sofferto ingiustizia, perché Colui dal quale come da un punto si biforca la potestà di Pietro e di Cesare, volentieri punisce la sua famiglia ma più volentieri ne ha pietà.

 

 

Agli scelleratissimi fiorentini

Epistola VI

Alle sorgenti dell’Arno 1311.

 

*** Dante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa agli scelleratissimi Fiorentini che vivono tra le mura di Firenze.

La pia provvidenza dell’eterno Re che mentre perpetua nella sua bontà le cose del cielo, non abbandona disprezzandole le nostre cose di quaggiù, ha disposto che le cose umane debbano essere governate dal sacrosanto Impero dei Romani affinché nella serenità di tanto presidio il genere mortale abbia pace e civilmente possa vivere. O cinti da un ridicolo riparo confidate in qualche ifesa? O malvagiamente concordi! O acciecati da una incredibile passione! A che gioverà aver cinto di steccato la città, a che averla armata di ripari e di merli, quando sopravverrà l’aquila in campo d’oro terribile, che trasvolò superba un tempo i vasti mari?

Vedrete i vostri edifici... precipitare sotto i colpi dell’ariete, e, tristi, esser inceneriti dal fuoco. Vedrete la plebe d’ogni intorno infuriante ora divisa a favore o contro, poi unita contro di voi gridare terribile perchè non sa essere affamata e timorosa insieme.

 

E non vi accorgete, poiché siete ciechi, che è la cupidigia che vi domina, che vi blandisce con velenosi sussurri, che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle santissime leggi che sono fatte a immagine della giustizia naturale; l’osservanza delle quali, se lieta, se libera, non solo è dimostrato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia, appare chiaro che è la stessa suprema libertà. Se non volete dissimulare, riconoscete dunque che è giunto il tempo di pentirvi amarissimamente delle temerarie presunzioni.E un tardivo pentimento d’ora in poi non porterà il perdono, ma coinciderà con l’inizio di un tempestivo castigo. Scritto il 31 marzo 1311 in Toscana, alle sorgenti dell’Arno, nel primo anno della faustissima venuta di Enrico Cesare in Italia.

 

E subito dopo, il 17 Aprile, al Divo Enrico, quasi con frenesia:

 

*** Leva dunque gli indugi. Restando a Milano passandovi dopo l’inverno la primavera, credi di uccidere l’idra pestifera con l’amputarle le teste? Per estirpare alberi non vale il taglio dei rami; anzi crescono più numerosi e vigorosi fin quando rimangono le radici da cui prendono nutrimento. Che cosa credi di aver compiuto, o unico Signore del mondo, quando avrai piegato il collo di Cremona ribelle? Forse che allora non si gonfierà inaspettata la rabbia o di Brescia o di Pavia? Anzi, quando questa rabbia anche flagellata sarà abbattuta, subito l’altra di Vercelli o di Bergamo o altrove scoppierà di nuovo, finché non si elimini alla radice la causa di questo tumore purolento e, strappata la radice di così grave errore, i rami pungenti insieme col tronco inaridiscano.

 

O forse ignori e non scorgi dalla specola della somma altezza dove si rintani la piccola volpe di tanto fetore, noncurante dei cacciatori? scellerata non si abbevera alle acque precipiti del Po, né al tuo Tevere, ma le sue fauci infettano ancora la corrente dell’Arno impetuoso, e si chiama Firenze, forse non sai?, questo crudele flagello. Questa è la vipera avventatasi contro le viscere della madre; questa è la pecora malata che infetta col suo contagio il gregge del suo pastore.

Scritto in Toscana alla sorgente dell’Arno, il 17 aprile [1311], l’anno primo della faustissima venuta

in Italia del divo Enrico.

 

*** Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di province, ma bordello!


Cerca, misera, intorno da le prode

le tue marine, e poi ti guarda in seno,

s’alcuna parte in te di pace gode.


Ché le città d’Italia tutte piene

son di tiranni, e un Marcel diventa

ogne villan che parteggiando viene.

 

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta

di questa digression che non ti tocca,

mercè del popol tuo che si argomenta.


Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:

tu ricca, tu con pace, e tu con senno!

S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.

Atene e Lacedemona, che fenno

l’antiche leggi e furon sì civili,

fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili

provedimenti, ch’a mezzo novembre

non giugne quel che tu d’ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,

legge, moneta, officio e costume

hai tu mutato e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume,

vedrai te somigliante a quella inferma

che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.

 

 

 

 

5 quadro                     p.133 del libro

 

Dal castello di Poppi 1311

La duchessa Gherardesca scrive all’Imperatrice Margherita

 

Epistole IX, X, XI

 

Narratore Nella concitazione del momento, Dante, ospite del Conte Guido Novello in Poppi, si fa segretario di fiducia, diligente scrivano e amanuense della Contessa Gherardesca, moglie di Guido e figlia del Conte Ugolino. Con quale insistenza l’avrà incoraggiata a intraprendere un rapporto epistolare con l’Imperatrice Margherita di Brabante!

 

 

 

Gherardesca di Battifolle

Alla gloriosissima e clementissima signora Margherita per divina provvidenza regina dei Romani e sempre Augusta, Gherardesca di Battifolle per largita grazia di Dio e dell’Impero contessa palatina in Toscana, piegate umilmente le ginocchia, presenta la dovuta riverenza. La graditissima lettera della regale Benignità con gioia fu vista dai miei occhi e dalle mani fu presa con reverenza, come si convenne. Sappia, dacché lo chiede, la pia e serena Maestà dei Romani che al momento dell'invio di questa lettera il diletto consorte ed io, per dono del Signore, eravamo in buona salute, contenti di quella dei figli, tanto noi più lieti del solito, quanto i segni del risorgente Impero promettevano ormai tempi migliori. Così dunque esultando nel presente e nel futuro, ricorro senza alcuna esitazione alla clemenza

dell’Augusta e supplichevolmente rivolgo rispettose preghiere affinché vi degnate pormi sotto l’ombra sicurissima della vostra Altezza, e io sia sempre protetta, e appaia esser tale, dal violento assalto di ogni avversità.

NarratoreInviata dal castello di Poppi, il 18 maggio (1311), nel primo anno della faustissima venuta in Italia di Enrico Cesare.

 

 

 

 

6 quadro                     p.139 del libro

 

Addio al Casentino

 

Narratore

 Il brusco mutamento di fronte di Guido da Battifolle, il quale ad un certo momento abbandonerà la parte imperiale e verrà addirittura nominato vicario di Re Roberto d'Angiò per la Toscana, ci spiega da un lato l'abbandono, da parte di Dante, di queste terre, per riprendere le sue peregrinazioni all'ombra del "sacrosanto segno", e dall'altro il progressivo drastico indurirsi e inasprirsi del giudicare dantesco su uomini e cose casentinesi, quale è poeticamente documentato nella Commedia, in particolare nel canto XIV del Purgatorio. Non vi è infatti giudice meno benevolo di un innamorato respinto e tradito. Dante si allontana così dal Casentino.

Prima Voce

Tra brutti porci, più degni di galle

che d’altro cibo fatto in uman uso,

dirizza prima il suo povero calle.

Botoli trova poi, venendo giuso,

ringhiosi più che non chiede lor possa,

e da lor disdegnosa torce il muso.

Seconda voce

“O voi che sanz’alcuna pena siete,

e non so io perché, nel mondo gramo”,

diss’elli a noi, “guardate e attendete

a la miseria del maestro Adamo;

io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,

e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.

Li ruscelletti che de’ verdi colli

del Casentin discendon giuso in Arno,

facendo i lor canali freddi e molli,

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,

ché l’imagine lor vie più m’asciuga

che ‘l male ond’io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga

tragge cagion del loco ov’io peccai

a metter più li miei sospiri in fuga.

Ivi è Romena, là dov’io falsai

la lega suggellata del Batista;

per ch’io il corpo sù arso lasciai.

 

Terza voce

E io a lui: “Qual forza o qual ventura

ti travïò sì fuor di Campaldino,

che non si seppe mai tua sepultura?”.

“Oh!”, rispuos’elli, “a piè del Casentino

traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,

che sovra l’Ermo nasce in Apennino.

Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,

arriva’ io forato ne la gola,

fuggendo a piede e sanguinando il piano.

Quivi perdei la vista e la parola;

nel nome di Maria fini’, e quivi caddi,

e rimase la mia carne sola.

 

Ben sai come ne l’aere si raccoglie

quell’umido vapor che in acqua riede,

tosto che sale dove ‘l freddo il coglie.

Giunse quel mal voler che pur mal chiede

con lo ‘ntelletto, e mosse il fummo e ‘l vento

per la virtù che sua natura diede.

Indi la valle, come ‘l dì fu spento,

da Pratomagno al gran giogo coperse

di nebbia; e ‘l ciel di sopra fece intento,

sì che ‘l pregno aere in acqua si converse;

la pioggia cadde, e a’ fossati venne

di lei ciò che la terra non sofferse;

e come ai rivi grandi si convenne,

ver’ lo fiume real tanto veloce

si ruinò, che nulla la ritenne.

Lo corpo mio gelato in su la foce

trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse

ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce

ch’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse;

voltòmmi per le ripe e per lo fondo,

poi di sua preda mi coperse e cinse”.

(Purg. V, 88-129)

 

 

 

7 quadro

p.147 del libro

 il grande rifiuto 1315

 

Narratore Guido da Battifolle, diventato Podestà della Città del fiore, promulgherà un’Ordinanza che pare fatta per lui: siamo nel maggio del 1315, mancano poche settimane al 24 giugno, festa di S. Giovanni Battista.

Dante riceve sollecitazioni ripetute e insistenti da parenti e conoscenti. Ha davanti tante lettere e messaggi di amici, di nipoti, di persone buone e influenti.

 

All’amico fiorentino (maggio 1315)

Dante

*** Dalla vostra lettera ricevuta con l’affettuoso rispetto dovuto ho appreso con mente grata e attenta considerazione quanto il mio ritorno in patria vi sia a cura e a cuore; e perciò tanto più strettamente mi avete obbligato quanto più di rado capita che gli esuli trovino amici.


Ecco dunque ciò che dalle lettere vostre e di mio nipote nonché di parecchi altri amici mi è stato comunicato, per l’ordinamento testé fatto a Firenze sull’assoluzione degli sbanditi, che se volessi pagare una certa quantità di denaro e volessi sopportare la vergogna dell’offerta, potrei essere assolto e ritornare subito.


E’ questa la grazia del richiamo con cui Dante Alighieri è richiamato in patria dopo aver patito quasi per tre lustri l’esilio? Questo ha meritato una innocenza evidente a chiunque? Questo i sudori e le fatiche continuate nello studio? Lungi da un uomo familiare della filosofia una bassezza d’animo a tal punto fuor di ragione da accettare egli, quasi in ceppi, di essere offerto, a guisa di un Ciolo e di altri disgraziati. Lungi da un uomo che predica la giustizia il pagare, dopo aver patito  ingiustizie, il suo denaro ai persecutori come a benefattori. Non è questa la via del ritorno in patria, o padre mio; ma se una via diversa da voi prima o in seguito da altri si troverà che non deroghi alla fama e all’onore di Dante, quella non a lenti passi accetterò; che se non si entra a Firenze per una qualche siffatta via, a Firenze non entrerò mai. E che? Forse che non vedrò dovunque la luce del sole e degli astri? Forse che non potrò meditare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo, se prima non mi riconsegni alla città, senza gloria e anzi ignominioso per il popolo fiorentino? Né certo il pane mancherà.

 

8 quadro

 

 Firenze spietata 1315           p.151 del libro

 

(dalla sentenza di Bando Maggiore del 6 novembre 1315)

Araldo

In nome di Dio, amen.

Questi sono i bandi e gli sbandimenti profferti e pronunciati dal nobile cavaliere Rayneri di Zaccaria di Orvieto, Vicario del re Roberto d’Angiò, nella città di Firenze e nel distretto, contro i sottoscritti ghibellini e ribelli: per il Sesto di Porta San Piero nella città di Firenze, tutti di casa Portinari e tutti di casa Giochi, eccetto Lamberto Lapi e Filippo Ghepardi; Dante Alighieri e figli, contro tutti e ciascuno dei quali sopra nominati, dai settanta anni in giù e dai quindici anni in su.

…essendo stati legalmente condannati per la contumacia di loro, se in qualsiasi tempo verranno in potere nostro e del Comune di Firenze, siano condotti sul luogo di giustizia e quivi sia loro tagliata la testa dalle spalle, così che muoiano.  

Narratore A distanza di 3 settimane, il 6 Novembre 1315, Rayneri di Zaccaria di Orvieto, ggiunge:




... “a Dante e figli ripetiamo la condanna e confermiamo il bando da Firenze e territori connessi; e perché non si facciano gloria della loro contumacia, aggiungiamo che chiunque può recar loro offesa negli averi e nella persona, liberamente e impunemente, secondo quanto prevedono gli statuti di Firenze.


Voce fuori campo

Che se’l conte Ugolino aveva voce

D’aver tradita te delle castella

Non dovei tu i figliol porre a tal croce.

 Innocenti facea l'età novella,

novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata

e li altri due che 'l canto suso appella

 

9 quadro - Ascesa al cielo                p.153 del libro

 

Sulla cima del Purgatorio ha bevuto alla sorgente dell’oblio:

 

*** La bella donna ne le braccia aprissi;

abbracciommi la testa e mi sommerse

ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.

Indi mi tolse, e bagnato m’offerse

dentro a la danza de le quattro belle;

e ciascuna del braccio mi coperse.

(Purg. XXXI, 100-105)

 

e subito dopo a quella della buona memoria:

***   S’io avessi, lettor, più lungo spazio

da scrivere, i’ pur cantere’ in parte

lo dolce ber che mai non m’avria sazio;

ma perché piene son tutte le carte

ordite a questa cantica seconda,

non mi lascia più ir lo fren de l’arte.

Io ritornai da la santissima onda

rifatto sì come piante novelle

rinovellate di novella fronda,

puro e disposto a salire alle stelle.

(Purg. XXXIII, 136-144)

 

Narratore Da lassù, dal cielo stellato, mille volte contemplato nelle notti casentinesi splendide e insonni, ora finalmente raggiunto con l’aiuto delle dolcissime verità disvelate via via alla sua mente ormai libera da crucci e risentimenti, le cose assumono le debite proporzioni. Tra i sette pianeti ecco la terra:

*** Col  viso ritornai per tutte quante

Le sette spere, e vidi questo globo

Tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;


E tutti e sette mi si dimostraro

Quanto son grandi e quanto son veloci

E come sono in distante riparo.

L’aiuola che ci fa tanto feroci,

volgendom’io con li eterni Gemelli,

tutta m’apparve da’ colli alle foci;

poscia rivolsi gli occhi a li occhi belli.

(Par. XXII, 133 sgg)

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