Marguerite Yourcenar, pseudonimo di Marguerite Cleenewerck de Crayencour (Bruxelles, 8 giugno 1903 – Mount Desert, 17 dicembre 1987), è stata una scrittrice francese. È stata la prima donna eletta alla Académie française. Nei suoi libri sono frequenti i temi esistenzialistici e in particolare quello della morte.
Nacque da una famiglia franco-belga di antica nobiltà. Il padre, Michel Cleenewerck de Crayencour, era un ricco proprietario terriero che rappresentava la parte francese della famiglia; la madre, Ferdinande de Cartier de Marchienne, belga, anche lei di stirpe nobile, morì dieci giorni dopo la nascita di Marguerite, a causa di setticemia e peritonite insorte in seguito al parto. La Yourcenar fu educata privatamente solo dal padre in una villa a Mont Noir nel comune di Saint-Jans-Cappel, nel nord della Francia. La bambina si dimostrò subito una lettrice precoce, interessandosi a soli 8 anni alle opere di Jean Racine e Aristofane; imparò a dieci il latino e a dodici il greco. All'età di diciassette anni, da poco trasferitasi a Nizza, Marguerite de Crayencour pubblica sotto lo pseudonimo di "Marg Yourcenar" la prima opera in versi: Le jardin des chimères (Il giardino delle chimere); scelse questo pseudonimo con l'aiuto del padre, anagrammando il suo cognome (Crayencour, appunto). Nel 1924, in occasione di uno dei tanti viaggi in Italia, visita per la prima volta Villa Adriana e inizia la stesura dei primi Carnets de notes de Mémoires d'Hadrien (Taccuini di note di Memorie di Adriano).
Successivamente dà alle stampe La denier du rêve (La moneta del sogno), un romanzo ambientato nell'Italia dell'epoca. Nel 1937 Marguerite fa un incontro fondamentale per la sua carriera e per la sua vita in generale con Grace Frick, intellettuale americana, che divenne la sua compagna per il resto della sua vita. Nel 1939, allo scoppio della Seconda guerra mondiale si trasferì negli Stati Uniti d'America e ne prese la cittadinanza nel 1947, pur continuando sempre a scrivere in francese. Negli Stati Uniti insegnò letteratura francese e storia dell'arte dal 1942 al 1950 e dal 1952 al 1953.
Iniziò così un decennio di privazioni, che ella stessa definirà più tardi come il più brutto della sua vita. Questo periodo della sua vita si conclude con la pubblicazione delle Mémoires d'Hadrien (Memorie di Adriano), sicuramente il suo libro di maggior successo. A partire da questo momento la Yourcenar comincia una serie di viaggi in giro per il mondo, che conosceranno una pausa solo per l'aggravarsi delle condizioni di salute della sua compagna che la porteranno alla morte. Dopo la morte di Grace Frick la scrittrice conosce Jerry Wilson, che diventerà presto una delle sue più intense passioni. Ma neanche lui le sopravvive. Marguerite Yourcenar muore presso l'ospedale Bar Harbor di Mount Desert nel 1987.
Immagina di fare scrivere ad Adriano una lunga lettera nella quale parla della sua vita di imperatore all'amico Marco Aurelio, che poi diventerà suo nipote adottivo.
Base della ricerca, come sempre Wikipedia la grande:
http://it.wikipedia.org/wiki/Memorie_di_Adriano
http://it.wikipedia.org/wiki/Marguerite_Yourcenar
Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti...
Fonte
Animula vagula, blandula,
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos...
P. Aelius, Hadrianus, Imp.
Mio caro Marco,
Sono andato stamattina dal mio medico,
Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia.
Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d'accordo per incontrarci di
primo mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti
risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo
sono per me, e la descrizione del corpo d'un uomo che s'inoltra negli anni ed è
vicino a morire di un'idropisia del cuore. Diciamo solo che ho tossito,
respirato, trattenuto il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato
suo malgrado per la rapidità dei progressi del male, pronto ad attribuire la
colpa al giovane Giolla, che m'ha curato in sua assenza. È difficile rimanere
imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria
essenza umana: l'occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori,
povero amalgama di linfa e di sangue. E per la prima volta, stamane, m'è venuto
in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più
dell'anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone.
Basta... Il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene, e in tutti i modi, e non
starò a lesinargli le cure necessarie. Ma, ormai, non conto più, come sostiene
ancora Ermogene, sulle virtù prodigiose delle piante, sulla dosatura precisa di
quei sali minerali che s'è recato a procurarsi in oriente. È un uomo fine;
eppure, m'ha propinato formule vaghe di conforto, troppo ovvie per poterci
credere; sa bene quanto detesto questo genere d'imposture, ma non si esercita
impunemente più di trent'anni la medicina. Perdono a questo mio fedele il suo
tentativo di nascondermi la morte. Ermogene è dotto; è persino saggio; la sua
probità è di gran lunga superiore a quella d'un qualunque medico di corte. Avrò
in sorte d'essere il più curato dei malati. Ma nessuno può oltrepassare i
limiti prescritti dalla natura; le gambe gonfie non mi sostengono più nelle
lunghe cerimonie di Roma; mi sento soffocare; e ho sessant'anni.
Non mi fraintendere: non sono ancora così
a mal partito da cedere alle immaginazioni della paura, assurde quasi quanto
quelle della speranza, e certamente assai più penose. Se occorresse ingannarmi,
preferirei che lo si facesse ispirandomi fiducia; non ci rimetterei più che
tanto, e ne soffrirei meno. Non è detto che quel termine così vicino debba
essere imminente; vado ancora a letto, ogni sera, con la speranza di rivedere
il mattino. Nell'ambito di quei limiti invalicabili di cui t'ho fatto cenno
poc'anzi, posso difendere la mia posizione palmo a palmo, e persino
riconquistare qualche pollice di terreno perduto. Ciò nonpertanto, sono giunto
a quell'età in cui la vita è, per ogni uomo, una sconfitta accettata. Dire che
ho i giorni contati non significa nulla; è stato sempre così; è così per noi
tutti. Ma l'incertezza del luogo, del tempo, e del modo, che ci impedisce di
distinguere chiaramente quel fine verso il quale procediamo senza tregua,
diminuisce per me col progredire della mia malattia mortale. Chiunque può
morire da un momento all'altro, ma chi è malato sa che tra dieci anni non ci sarà
più. Il mio margine d'incertezza non si estende più su anni, ma su mesi. Le
probabilità che io finisca per una pugnalata al cuore o per una caduta da
cavallo diventano quanto mai remote; la peste pare improbabile; la lebbra e il
cancro sembrano definitivamente da escludere. Non corro più il rischio di
cadere ai confini, colpito da un'ascia caledonia o trafitto da una freccia
partica; le tempeste non hanno saputo profittare delle occasioni loro offerte,
e sembra avesse ragione quel mago a predirmi che non sarei annegato. Morirò a
Tivoli, o a Roma, tutt'al più a Napoli, e una crisi di asfissia sbrigherà la
bisogna. Sarà la decima crisi a portarmi via, o la centesima? Il problema è
tutto qui. Come il viaggiatore che naviga tra le isole dell'Arcipelago vede levarsi
a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io
comincio a scorgere il profilo della mia morte.
Vi sono già zone della mia vita simili
alle sale spoglie d'un palazzo troppo vasto, che un proprietario immiserito
rinuncia ad occupare per intero. Se non ci fosse altri che io a disturbarli,
mentre ruminano e giocano, i caprioli sui monti d'Etruria potrebbero vivere
tranquilli. Con la Diana delle foreste, ho avuto sempre i rapporti mutevoli e
appassionati d'un uomo con l'oggetto amato: adolescente, la caccia al cinghiale
m'ha offerto le prime occasioni di conoscere l'autorità e il pericolo; mi ci
dedicavo con passione; i miei eccessi in questo esercizio mi attirarono le
rampogne di Traiano. La spartizione della preda in una radura della Spagna è
stata la mia prima esperienza della morte, del coraggio, della pietà per le
creature, e del piacere tragico di vederle soffrire. Da uomo fatto la caccia mi
rilassava da tante lotte segrete contro avversari di volta in volta troppo sottili
ottusi, troppo deboli o troppo forti per me; è una lotta pari tra
l'intelligenza umana e l'astuzia delle fiere e sembrava stranamente pulita in
paragone con gli agguati degli uomini. Imperatore, le cacce in Etruria mi sono
servite per giudicare il coraggio o le capacità dei miei alti funzionari: ivi
ho scartato o prescelto più d'un uomo di Stato. Più tardi, in Bitinia, in
Cappadocia, le grandi battute di caccia mi fornirono un pretesto di feste, di
trionfi autunnali nei boschi dell'Asia. Ma il compagno delle mie ultime cacce è
morto giovane, e il desiderio di questi piaceri violenti è molto scemato in me
dopo la sua dipartita. Pure, persino qui a Tivoli, basta l'improvviso sbuffare
d'un cervo sotto le fronde perché trasalisca in me un istinto più antico di
tutti gli altri, grazie al quale mi sento gattopardo quanto imperatore. Chissà,
forse sono stato così parco di sangue umano perché ho versato quello delle
fiere: benché talvolta, segretamente, le preferissi agli uomini. La loro
immagine, comunque, mi torna alla memoria più spesso, e m'è difficile non
abbandonarmi ogni sera a interminabili racconti di caccia che mettono a dura
prova la pazienza dei miei convitati. Certo, il ricordo del giorno della mia
adozione mi è dolce, ma quello dei leoni uccisi in Mauretania lo vale.
Rinunciare al cavallo è un sacrificio
ancora più penoso per me: una belva non è che un avversario, ma il cavallo era
un amico. Se mi fosse lasciata la scelta della mia condizione, avrei optato per
quella di Centauro. Tra Boristene e me i rapporti erano d'una precisione
matematica: obbediva a me come al suo cervello, non come al padrone. Ho mai
ottenuto altrettanto da un uomo? Un'autorità così totale comporta, come
qualsiasi latra, il rischio d'un errore per chi la esercita, ma il piacere di
tentare l'impossibile in fatto di salti all'ostacolo era troppo grande per
rimpiangere la lussazione d'una spalla o la frattura d'una costola. Il mio
cavallo surrogava i mille concetti inerenti al titolo, alla funzione, al nome,
che complicano le amicizie umane, con la sola conoscenza del mio peso esatto. I
miei slanci erano per metà suoi; conosceva con precisione, e forse meglio di
me, il momento in cui la mia volontà divergeva dalle mie forze. Ma ora non
infliggo più al successore di Boristene il peso d'un malato dai muscoli
infiacchiti, troppo debole per issarsi in groppa da solo. In questo momento, il
mio aiutante di campo, Celere, lo sta addestrando sulla strada di Preneste;
tutte le mie esperienze di velocità mi consentono di condividere il piacere del
cavaliere e quello dell'animale, di valutare le sensazioni d'un uomo lanciato a
briglia sciolta in una giornata di sole e di vento; quando Celere balza da
cavallo, io riprendo contatto col suolo insieme a lui. Lo stesso accade col
nuoto: io vi ho rinunciato, ma partecipo ancora alla delizia del nuotatore
carezzato dall'acqua. Correre, perfino sul più breve dei percorsi, oggi mi
sarebbe impossibile quanto lo sarebbe a una statua massiccia, a un Cesare di
pietra, ma ricordo le mie corse di fanciullo sulle arse colline della Spagna,
il gioco che si fa con se stesso allorché, trafelati sino ai limiti della
resistenza, si sa che il cuore saldo, i polmoni intatti ristabiliranno
l'equilibrio; e provo, con il più oscuro tra gli atleti che si allenano alla
corsa di fondo nello stadio, un'intesa che l'intelletto da solo non saprebbe
darmi. Così, da ciascuna delle arti che praticai a suo tempo traggo una
conoscenza che mi compensa in parte dei piaceri perduti. Ho creduto, e nei miei
momenti migliori lo credo ancora, che in tal modo potrei partecipare
all'esistenza di tutti; e questa simpatia potrebb'essere uno degli aspetti meno
revocabili dell'immortalità. Ho avuto momenti in cui questa comprensione si è
sforzata di superare l'umano, si è rivolta dal nuotatore all'onda. Ma, poiché
in questo campo non c'è nulla di preciso a rendermi edotto, entro nella sfera
delle metamorfosi, delle chimere.
Mangiar troppo, è un vizio romano, ma io
sono stato sobrio con voluttà. Ermogene non ha dovuto modificar nulla del mio
regime, se non forse frenare l'impazienza che m'ha sempre fatto divorare
ovunque, a qualsiasi ora, un cibo qualsiasi, come per troncare d'un colpo le
esigenze della fame. Un uomo ricco, che non ha mai conosciuto altre privazioni
che quelle volontarie, o non ne ha sperimentate se non a titolo provvisorio,
come uno degli incidenti più o meno eccitanti della guerra e dei viaggi,
dimostrerebbe cattivo gusto se si vantasse di non satollarsi. Impinzarsi i
giorni di festa è stata sempre l'ambizione, la gioia, e l'orgoglio naturale dei
poveri. Mi piaceva l'aroma delle carni arrostite, il rumore delle marmitte
raschiate, nelle festività militari, e che i banchetti al campo (o ciò che al
campo costituiva un banchetto) fossero ciò che dovrebbero essere sempre, un
compenso rozzo e festoso alle privazioni dei giorni di lavoro; tolleravo
discretamente l'odor di fritto nelle pubbliche piazze al tempo dei Saturnali.
Ma i conviti di Roma m'ispiravano ripugnanza e tedio tanto che se alle volte -
durante un'esplorazione o una spedizione militare - ho visto la morte vicina,
per farmi coraggio mi son detto che almeno sarei liberato dei pranzi. Non mi
farai l'ingiuria di prendermi per un rinunciatario qualsiasi: un'operazione che
si verifica due o tre volte al giorno, e serve ad alimentare la vita, merita
certamente le nostre cure. Mangiare un frutto significa far entrare in noi una
cosa viva, bella, come noi nutrita e favorita dalla terra; significa consumare
un sacrificio nel quale preferiamo noi stessi alla materia inanimata. Non ho
mai affondato i denti nella pagnotta delle caserme senza meravigliarmi che
quella miscela rozza e pesante sapesse mutarsi in sangue, in calore, fors'anche
in coraggio. Ah, perché il mio spirito, nei suoi giorni migliori, non possiede
che una parte dei poteri d'assimilazione di un corpo?
A Roma, durante i lunghi pranzi ufficiali,
mi è accaduto di pensare alle origini relativamente recenti del nostro lusso; a
questo popolo di coloni parsimoniosi e di soldati frugali, satolli d'aglio e di
orzo, improvvisamente immersi dalla conquista nelle delizie della cucina
asiatica che ingozza manicaretti con la voracità rustica dei contadini. I
nostri Romani si rimpinzano di cacciagione, s'inondano di salse, e
s'intossicano di spezie. Un apicio va fiero della successione di portate, di
quella serie di vivande piccanti o dolci, grevi o delicate, che compongono
l'armonica disposizione dei suoi banchetti; e passi ancora se ciascuno di tali
cibi fosse servito separatamente, assimilato a digiuno, sapientemente
assaporato da un buongustaio dalle papille intatte. Ma serviti così,
giornalmente, alla rinfusa, in mezzo a una profusione banale, essi formano nel
palato e nello stomaco di chi mangia una confusione detestabile, nella quale
odori, sapori, sostanze perdono il loro rispettivo valore, la loro squisita
identità. Un tempo quel povero Lucio si dilettava a prepararmi qualche piatto
raro; i suoi pasticci di fagiano, dove prosciutto e spezie vanno sapientemente
dosati, erano il risultato di un'arte, esattamente come quella del musico o del
pittore; eppure, rimpiangevo la carne pura e semplice del bel volatile.
In Grecia se ne intendono di più: quel
vino che sa di resina, quel pane al sesamo, quei pesci girati sulla griglia in
riva al mare, anneriti irregolarmente dal fuoco, insaporiti qua e là da un
granello di sabbia che scricchiola sotto i denti si limitavano a placare
l'appetito, senza sovraccaricare di complicazioni il più elementare dei
piaceri. Ho assaporato, in qualche bettola di Egina o al Falero, cibi così
freschi che restavano divinamente puliti a onta delle mani sudice dello
sguattero che mi serviva; così sobri ma al tempo stesso così sostanziosi che
pareva contenessero, nella forma più condensata possibile, un'essenza di
immortalità. Anche la carne, arrostita la sera dopo la caccia, conteneva questa
qualità direi quasi di sacramento, ci riportava indietro, alle origini selvagge
delle razze; così il vino ci inizia ai misteri vulcanici del suolo, ai suoi
misteriosi tesori: bere una coppa di vino di Samo, a mezzogiorno, col sole alto,
o piuttosto sorseggiarlo una sera d'inverno, quando si è in quello stato di
fatica che consente di sentirlo immediatamente colare caldo nella cavità del
diaframma, e diffondersi nelle vene ardente e sicuro, sono sensazioni quasi
sacre, persino troppo violente, per la mente umana. Non le ritrovo altrettanto
genuine quando esco dalle cantine numerate di Roma, e mi spazientisce la
pedanteria dei conoscitori di vigneti. Così, con un gesto ancor più devoto,
bere l'acqua nel cavo delle mani o direttamente alla sorgente, fa sì che
penetri in noi il sale più segreto della terra, e la pioggia del cielo. Ma,
oggi, anche l'acqua è una voluttà che un malato come me deve concedersi con
misura. Non importa: anche nell'agonia, mescolata all'amaro delle ultime
pozioni, mi sforzerò di sentire sulle labbra la freschezza insapore.
Nelle scuole di filosofia, dove è di
prammatica provare una volta per tutte ogni regola di condotta, ho sperimentato
per breve tempo il regime vegetariano e, più tardi, in Asia, ho visto i
ginnosofisti indiani, volgere il capo alla vista degli agnelli fumanti e dei
quarti di gazzella serviti sotto la tenda di Osroe. Ma quest'astinenza, nella
quale si compiace la tua austerità giovanile, esige attenzioni complicate, più
della golosità: trattandosi di una funzione che si svolge quasi sempre in
pubblico, il più delle volte sotto il segno della pompa o dell'amicizia,
finirebbe per distinguerci troppo dagli altri. Preferisco nutrirmi tutta la
vita di oche ingrassate e di galline faraone anziché farmi accusare dai
commensali, a ogni pasto, di un'ostentazione di ascetismo. Già mi è stato
tutt'altro che facile, con l'aiuto di poche frutta secche, o di una coppa
sorseggiata lentamente, nascondere agli invitati che i manicaretti creati dai
miei cuochi erano destinati a essi più che a me, e che la mia curiosità per
quelle vivande cessava assai prima della loro. Un principe, in questo campo,
non ha la libertà di un filosofo, non può concedersi troppe singolarità tutte
insieme, e gli dèi sanno se quelle per le quali mi distinguevo non erano già
troppo numerose, a onta della mia illusione che molte di esse passassero
inosservate. Quanto agli scrupoli religiosi dei ginnosofisti e la ripugnanza
che provano alla vista della carne sanguinolenta, mi colpirebbero di più se non
venisse fatto di chiedere a me stesso in che cosa la sofferenza dell'erba
falciata differisca essenzialmente da quella di un montone sgozzato, e se
l'orrore che proviamo nel vedere trucidare un animale non dipenda soprattutto
dal fatto che la nostra sensibilità appartiene al medesimo regno. Pure, in
certi momenti della vita, a esempio nei periodi di digiuno rituale, o durante
le iniziazioni religiose, ho apprezzato i vantaggi, nonché i pericoli, per lo
spirito, delle diverse forme d'astinenza, persino dell'inedita volontaria, di
quegli stati prossimi alla vertigine, durante i quali il corpo, in parte libero
dal suo peso, entra in un mondo che non è fatto per lui, che gli offre in
anticipo un'immagine della gelida levità della morte. In altri momenti, queste
esperienze mi hanno consentito di bloccarmi con l'idea del suicidio
progressivo, la morte per inedita, che fu quella di qualche filosofo; una
specie di orgia alla rovescia, nella quale si perviene grado a grado
all'esaurimento della sostanza vitale. Ma aderire totalmente a un sistema non
mi sarebbe piaciuto mai, né avrei mai voluto che uno scrupolo mi privasse del
diritto di saziarmi di carne d'ogni specie, se per caso ne avessi avuto voglia,
o se quel nutrimento fosse stato il solo a mia disposizione.
I cinici e i moralisti si trovano
d'accordo nel collocare le voluttà dell'amore tra i piaceri cosiddetti volgari,
tra quello del mangiare e quello del bere, pur dichiarandole meno
indispensabili, poiché, ci assicurano, se ne può fare a meno. Dal moralista mi
aspetto di tutto: ma mi stupisce che s'inganni il cinico. Ammettiamo che gli
uni come gli altri abbiano paura dei loro demoni - sia che resistano sia che
cedano a essi - e che cerchino con ogni mezzo di avvilire il piacere per cercar
di sottrargli la potenza quasi terribile alla quale soccombono, il mistero dal
quale si sentono travolti. Accetterò di assimilare l'amore alle gioie puramente
fisiche (ammettendo che ve ne siano) quando avrò visto un ghiottone anelare di
piacere innanzi alla sua pietanza favorita come un innamorato sulla spalla
dell'essere amato. Di tutti i nostri giochi, questo è il solo che rischi di
sconvolgere l'anima, il solo altresì nel quale ci si deve abbandonare al
delirio dei sensi. Non è necessario per un beone abdicare all'uso della
ragione, ma l'innamorato che conservi la sua non obbedisce fino in fondo al suo
demone. In qualsiasi altro caso, l'astinenza o la sregolatezza non impegnano
che l'individuo; salvo il caso dio Diogene, le cui privazioni, il cui lucido
pessimismo si definiscono da sé, ogni atto sensuale ci pone in presenza
dell'Altro, ci coinvolge nelle esigenze e nelle servitù della scelta. Non ne
conosco altre ove l'uomo sia spinto a risolversi da motivi più elementari e
ineluttabili, ove l'oggetto della scelta venga valutato con maggiore esattezza
per il peso di piaceri che offre, ove chi ama il vero abbia maggiori
possibilità di giudicare la creatura umana nella sua nudità. Stupisco nel veder
formarsi di nuovo ogni volta - nonostante un abbandono che tanto eguaglia quello
della morte, un'umiltà più assoluta di quella della sconfitta e della preghiera
- quel complesso di dinieghi, di responsabilità, di promesse: povere
confessioni, fragili menzogne, compromessi appassionati tra i nostri piaceri e
quelli dell'Altro, legami che sembra impossibile infrangere e che pure si
sciolgono così rapidamente. Questo gioco misterioso che va dall'amore di un
corpo all'amore d'un essere umano, m'è sembrato tanto bello da consacrarvi
tutta una parte della mia vita. Le parole ingannano: la parola piacere,
infatti, nasconde realtà contraddittorie, implica al tempo stesso i concetti di
calore, di dolcezza, d'intimità dei corpi, e quelli di violenza, d'agonia, di
grida. La piccola frase oscena di Poseidonio - che t'ho visto ricopiare sul tuo
quaderno di scuola con una diligenza da primo della classe - a proposito
dell'attrito di due piccole parti di carne, non definisce il fenomeno
dell'amore, così come la corda toccata dal dito non rende conto del miracolo
infinito dei suoni. Più ancora che alla voluttà, essa reca ingiuria alla carne,
a questo strumento di muscoli, di sangue, di epidermide, a questa rossa nube di
cui l'anima è la luce viva dei campi.
Confesso che la ragione si smarrisce di
fronte al prodigio dell'amore, questa strana ossessione che fa sì che questa
stessa carne, della quale ci curiamo tanto poco quando costituisce il nostro
corpo, preoccupandoci unicamente di lavarla, di nutrirla, e - fin dov'è
possibile - d'impedirle che soffra, possa ispirarci una così travolgente sete
di carezze sol perché è animata da una individualità diversa dalla nostra, e
perché è dotata più o meno di certi attributi di bellezza sui quali, del resto,
anche i giudici migliori son discorsi. Di fronte all'amore, la logica umana è
impotente, come in presenza delle rivelazioni dei Misteri: non s'è ingannata la
tradizione popolare, che ha sempre ravvisato nell'amore una forma di
iniziazione, uno dei punti ove il segreto e il sacro s'incontrarono. E per un
altro aspetto ancora, l'espressione sensuale si può paragonare ai Misteri, in
quanto il primo contatto appare al non iniziato un rito più o meno pauroso,
violentemente diverso dalle funzioni consuete del sonno, del bere e del
mangiare, oggetto di scherno, di vergogna o di terrore. L'amore, non altrimenti
della danza delle Menadi e del delirante furore dei Coribanti, ci trascina in
un universo insolito, ove in altri momenti è vietato avventurarci, e dove
cessiamo di orientarci non appena l'ardore si spegne e il piacere si placa.
Avvinto al corpo amato come un crocifisso alla sua croce, ho appreso sulla vita
segreti che ormai si dileguano nei ricordi, per opera di quella stessa legge
che impone al convalescente guarito di dimenticare le verità misteriose del suo
male; al prigioniero, una volta libero, di obliare al tortura, e la
trionfantore la gloria, quando l'ebbrezza del trionfo è svanita.
A volte, ho sognato di elaborare un
sistema di conoscenza umana basato sull'erotica: una teoria del contatto, nella
quale il mistero e la dignità altrui consisterebbero appunto nell'offrire al
nostro Io questo punto di riferimento d'un mondo diverso. In questa filosofia,
la voluttà rappresenterebbe una forma più completa, ma più caratterizzata
altresì dei contatti con l'Altro, una tecnica in più messa al servizio della
conoscenza del non Io. Anche nei rapporti più alieni dai sensi, l'emozione
sorge o si attua proprio nel contatto: la mano ripugnante di quella vecchia che
mi sottopone una supplica, la fronte madida di mio padre nei suoi ultimi
istanti, la piaga detersa di un ferito, persino i rapporti più intellettuali o
più anodini si istituiscono attraverso questo sistema di segnali del corpo: il
lampo d'intesa che illumina lo sguardo del tribuno al quale si spieghi una
manovra prima della battaglia, il saluto impersonale d'un subalterno che al
nostro passaggio s'immobilizza in un atteggiamento di obbedienza, lo sguardo
amichevole d'uno schiavo che ringrazi per avermi portato un vassoio, l'occhiata
da intenditore d'un vecchio amico davanti al dono d'un cammeo greco. Con la
maggior parte degli esseri umani, i più lievi, i più superficiali di questi
contatti bastano, o persino superano l'attesa; ma se essi si ripetono, si
moltiplicano attorno a un unico essere sino ad avvolgerlo interamente; se ogni
particella d'un corpo umano si impregna per noi di tanti significati
conturbanti quante sono le fattezze del suo volto; se un essere solo, anziché
ispirarci tutt'al più irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e
ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del
nostro universo, e infine ci diviene più indispensabile che noi stessi, ecco
verificarsi il prodigio sorprendente, nel quale ravviso ben più uno
sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di
quest'ultima.
Opinioni come queste sull'amore possono
indurre a una carriera di seduttore. Se non l'ho seguita, senza dubbio dipende
dal fatto che mi son dedicato a cose diverse, se non migliori. Una carriera del
genere, in mancanza d'estro, richiede una serie di attenzioni, persino di
stratagemmi, per i quali non mi sentivo portato. Tendere insidie sempre eguali,
percorrere la solita strada, che si limita a perpetui approcci, e alla quale la
conquista segna il traguardo, son cose che mi hanno tediato. La tecnica del vero
seduttore esige, nel passaggio da un soggetto a un altro, una disinvoltura,
un'indifferenza che io non provo e che, comunque perdevo prima di abbandonarle
intenzionalmente: non ho mai compreso come si possa essere sazio di un essere
umano. La molteplicità delle conquiste contrasta con il desiderio di esumare
esattamente le ricchezze che ogni nuovo amore ci reca, di osservarlo mentre si
trasforma; fors'anche, mentre invecchia.
Un tempo, ho creduto che un certo gusto
per la bellezza avrebbe surrogato per me la virtù, e avrebbe saputo
immunizzarmi dalle tentazioni troppo volgari. M'ingannavo. Chi ama il bello
finisce per trovarne ovunque, come un filone d'oro che scorre anche nella ganga
più ignobile, e quando ha tra le mani questi mirabili frammenti, anche se
insudiciati e imperfetti, prova il piacere raro dell'intenditore che è il solo
a collezionare ceramiche ritenute comuni. Per un uomo di gusto, poi, l'ostacolo
più grave consiste nel fatto di occupare una posizione preminente, che implica
ineluttabilmente il rischio dell'adulazione e della menzogna. Il pensiero che
in mia presenza qualcuno snaturi, sia pure di un'ombra, l'esser suo, piò
giungere a farmelo compiangere, disprezzare, odiare persino. Ho sofferto di
questi inconvenienti della mia fortuna come un povero di quelli della sua
miseria. Ancora un passo, e avrei accettato la finzione che consiste nel
pretendere di sedurre, quando si sa bene che ci si impone: ma di qui si
comincia a esser nauseati, o forse imbecilli. Si finirebbe per preferire agli
accorgimenti leggeri della seduzione le verità brutali della dissolutezza se
anche qui non regnasse la menzogna. Sono pronto ad ammettere per principio che
la prostituzione non sia che un'arte, alla stessa stregua del massaggio e della
pettinatura, ma mi riesce già difficile andare di buon grado dal barbiere o dal
massaggiatore. Non ci sono al mondo persone più volgari dei nostri complici.
L'occhiata obliqua dell'oste che mi riserva il vino migliore, e per conseguenza
ne priva qualcun altro, bastava già, nei giorni della mia giovinezza, a
ispirarmi un profondo disgusto per gli svaghi di Roma. Non mi piace che un
individuo ritenga di conoscer già il mio desiderio, prevederlo, adattarsi
meccanicamente a quella che suppone la mia scelta: l'immagine bassa e deforme di
me stesso, che mi offre in quei momenti quell'individuo, mi farebbe preferire i
tristi effetti dell'ascetismo. Se la leggenda non ha esagerato gli eccessi di
Nerone e le ricerche sapienti di Tiberio, quei voraci consumatori di piaceri
dovevano avere sensi molto inerti per andar cercando apparati così complicati,
e uno straordinario disprezzo degli uomini per tollerare che si ridesse o si
abusasse di loro fino a quel punto. E tuttavia, se ho quasi rinunciato a queste
forme troppo meccaniche del piacere, o almeno non mi sono spinto molto avanti,
lo devo più alla mia buona sorte che a una virtù che non sa resistere a nulla.
Potrei ricadervi, ora che invecchiato, come in una sregolatezza qualunque, o
nel tedio. La malattia, la morte ormai imminente, mi salveranno forse dalla
ripetizione monotona degli stessi gesti; e come il compitare stentato d'una
lezione imparata a memoria.
Di tutti i piaceri che lentamente mi
abbandonano, uno dei più preziosi, e più comuni al tempo stesso, è il sonno.
Chi dorme poco o male, sostenuto da molti guanciali, ha tutto l'agio per
meditare su questa voluttà particolare. Ammetto che il sonno perfetto è quasi
necessariamente un'appendice dell'amore: come un riposo riverberato, riflesso
in due corpi. Ma qui m'interessa quel particolare mistero del sonno, goduto per
sé stesso, quel tuffo inevitabile nel quale l'uomo, ignudo, solo, inerme,
s'avventura ogni sera in un oceano, nel quale ogni cosa muta - i colori, la
densità delle cose, persino il ritmo del respiro, un oceano nel quale ci vengono
incontro i morti. Nel sonno, una cosa ci rassicura, ed è il fatto di uscirne, e
di uscirne immutati, dato che una proibizione bizzarra c'impedisce di riportare
con noi il residuo esatto dei nostri sogni. Ci rassicura altresì il fatto che
il sonno ci guarisce dalla stanchezza; ma ce ne guarisce temporaneamente, e
mediante il procedimento più radicale riuscendo a fare che non siamo più. Qui,
come in altre cose, il piacere e l'arte consistono nell'abbandonarsi
deliberatamente a quest'incoscienza felice, nell'accettare di essere più
deboli, più pesanti, più leggeri, più vaghi dell'esser nostro. Tornerò in
seguito sulla popolazione prodigiosa dei sogni: preferisco parlare di certe
esperienze di sonno puro, di puro risveglio, che confinano con la morte e la
risurrezione. Cerco di riafferrare la sensazione precisa di certi sonni
fulminei dell'adolescenza, quando si piombava addormentati sui libri, ancora
vestiti, e dalla matematica o dal diritto si era trasportati d'un tratto entro
un sonno duro e compatto, denso di energie potenziali, tanto che vi si
assaporava, per così dire, il senso puro dell'essere attraverso le palpebre
chiuse. Evoco i sonni repentini sulla nuda terra, nella foresta, dopo
estenuanti battute di caccia: mi destava l'abbaiare dei cani, o le loro zampe
ritte sul mio petto. Era un'eclissi così totale che, ogni volta, avrei potuto
ridestarmi diverso, e mi sorprendevo - mi dolevo, a volte - della disposizione
rigorosa che mi riconduceva da così lontano nell'angusta particella di umanità
che è la mia. In che cosa consistono le caratteristiche alle quali teniamo di
più, se contano così poco per chi dorme, e se per un istante, prima di
rientrare di malavoglia nel mio guscio di Adriano, giungevo ad assaporare quasi
coscientemente quell'uomo vuoto di sé, quell'esistenza senza passato?
D'altro canto, anche la malattia e l'età
hanno i loro aspetti straordinari, e ricevono dal sonno altri favori, sotto
altre forme: circa un anno fa, dopo una giornata particolarmente estenuante, a
Roma, ho avuto uno di quei riposi in cui la spossatezza ha operato gli stessi
miracoli, o meglio, altri miracoli, che le riserve inesauste d'altri tempi.
Vado raramente in città, ormai; e, quando ci vado, cerco di sbrigare più cose
che posso. Avevo avuto una giornata sgradevole, densa: una seduta in Senato,
una in tribunale, e una discussione interminabile con uno dei questori; e
infine, una cerimonia religiosa che non fu possibile abbreviare, sotto la
pioggia. Avevo predisposto io stesso, una dopo l'altra, queste attività differenti,
per lasciare il minor tempo possibile, negli intervalli, agli importuni e agli
adulatori. Tornai a cavallo: fu una delle ultime volte. Rientrai in Villa
depresso, accasciato, infreddolito come si può esserlo solo quando il sangue
sembra fermare il suo corso, e non agisce più nelle arterie. Celere e Cabria si
prodigavano intorno a me, ma le premure possono stancare, anche se sincere. Mi
chiusi in camera, ingoiai poche cucchiaiate di brodo caldo, che preparai da me,
non per sospetto - tutt'altro - come si immagina, ma perché così mi concedo il
lusso d'esser solo. Mi misi a letto; il sonno pareva tanto lontano quanto la
salute, la giovinezza, il vigore. Mi addormentai.
La clessidra mi provò che avevo dormito
appena un'ora; un breve momento di abbandono totale, all'età mia, equivale ai
sonni che in altri tempi duravano quanto impiegano gli astri a compiere per
metà il loro percorso. Il tempo ormai si misura per me in unità molto più
brevi. Ma era bastata un'ora sola per compiere l'umile e sorprendente prodigio:
il calore del sangue mi riscaldava le mani; il cuore, i polmoni avevano ripreso
a operare, quasi di buona lena; la vita come una fonte non molto copiosa, ma
sicura. In così breve lasso di tempo, il sonno m'aveva fatto ricuperare il
dispendio dovuto all'attività, con la stessa imparzialità con la quale avrebbe
riparato gli eccessi del vizio. La divinità di questo grande donatore di
ristoro consiste nell'operare i suoi benefici su chi dorme senza tener conto
della sua persona, come l'acqua ricca di poteri terapeutici non si dà alcuna
pena di sapere chi beve alla sorgente.
Ma ci occupiamo tanto poco di un fenomeno
che assorbe almeno un terzo dell'esistenza di ognuno di noi perché è necessaria
una certa dose di modestia per apprezzarne i doni: Caio Caligola e Aristide di
giusto si equivalgono nel sonno. Io depongo i miei vani e pomposi privilegi,
non mi distinguo più dal guardiano negro che dorme di traverso davanti alla mia
porta. Che cos'è l'insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a
fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il
rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o
della saggia follia dei sonni? L'uomo che non dorme - da qualche mese a questa
parte ho fin troppe occasioni di constatarlo su me stesso - si rifiuta più o
meno consapevolmente di affidarsi all'onda delle cose. Fratello della morte...
S'ingannava, Isocrate, e la sua frase non è altro che l'iperbole d'un retore.
Comincio a conoscerla, la morte: essa cela altri segreti, ben più estranei alla
nostra attuale condizione di uomini. E tuttavia, questi misteri di assenza, di
oblio parziale sono così intricati e profondi che avvertiamo distintamente la
sorgente chiara e quella oscura confluire chissà dove. Non mi è mai piaciuto
guardare le persone che amavo mentre dormivano: si riposavano di me, lo so
bene; mi sfuggivano, anche. E non c'è uomo che non provi vergogna del proprio
viso, guasto dal sonno. Quante volte levandomi alle prime ore del mattino per
studiare o per leggere, ho riordinato con le mie mani quei guanciali
spiegazzati, quelle coperte in disordine, testimonianze quasi turpi dei nostri
incontri con il nulla, prove che ogni notte non siamo già più...
... Come ai miei tempi migliori, mi
credono dio; continuano a darmi quest'attributo nello stesso momento in cui
offrono al cielo i sacrifici affinché l'Augusta Salute si ristabilisca. T'ho
già detto per quali motivi questa credenza, così benefica, non mi appare
insensata. Una vecchia cieca è arrivata qui, a piedi dalla Pannonia; aveva
intrapreso questo viaggio immenso per chiedermi di toccare con le dita le sue
pupille spente; ha ricuperato la vista sotto le mie mani, come il suo fervore
s'aspettava in anticipo; la sua fede nell'imperatore-dio spiega questo
miracolo. Altri prodigi si son verificati; ci son malati che affermano d'avermi
visto nei loro sogni, come i pellegrini di Epidauro vedono in sogno Esculapio;
pretendono d'essersi destati guariti, o, quanto meno, sollevati. Non sorrido
del contrasto tra i miei poteri taumaturgici e il mio male; accetto con gravità
questi nuovi privilegi. Quella vecchia cieca che dal fondo d'una provincia
barbara s'incammina alla volta dell'imperatore è divenuta per me quel ch'era
stato in altri tempi lo schiavo di Tarragona: il simbolo delle popolazioni
dell'impero che ho governate e servite. La loro immensa fiducia mi compensa di
vent'anni di fatiche che in fondo non mi sono dispiaciute. Recentemente,
Flegone m'ha letto l'opera d'un ebreo d'Alessandria che mi attribuisce anche
lui poteri più che umani; ho accolto senza sarcasmi questa descrizione d'un
principe dai capelli grigi che è stato visto andare e venire su tutte le strade
della terra, scendere fra i tesori delle miniere, ridestare le forze
generatrici del suolo, stabilire prosperità e pace in ogni luogo; dell'iniziato
che ha ripristinato i luoghi santi di tutte le razze, dell'esperto d'arti
magiche, del veggente che ha collocato un fanciullo in cielo. Quell'ebreo nel
suo fervore mi avrà compreso meglio che non tanti senatori e proconsoli; questo
avversario conciliato completa Arriano; mi stupisce che, agli occhi di alcuni,
a lungo andare io sia divenuto quello che sempre ho sperato di essere, e che
questo risultato sia fatto di tanto poco. La vecchiaia, la morte imminente
ormai aggiungono la loro maestà al mio prestigio; gli uomini fanno largo
religiosamente al mio passaggio; non mi paragonano più come un tempo al Giove
calmo e radioso, bensì al Marte Gradivo, dio delle lunghe campagne militari e
della disciplina austera, al grave Numa ispirato dagli dèi; negli ultimi tempi,
questo volto pallido e disfatto, questi occhi assorti, questo gran corpo
irrigidito da uno sforzo di volontà ricorda loro Plutone, il dio delle ombre.
Solo pochi intimi, pochi amici cari e provati sfuggono al contagio terribile
del rispetto. Il giovane giurista Frontone, quel magistrato d'avvenire che sarà
senza dubbio uno dei buoni servitori del tuo regno, è venuto a discutere con me
un indirizzo da presentare al Senato: gli tremava la voce; ho letto nei suoi
occhi quella stessa reverenza mista a un sacro timore. Le gioie pacate degli
affetti umani non sono più per me: mi adorano tutti; mi venerano troppo per
volermi bene.
Mi è toccata una sorte analoga a quella di
certi giardinieri: tutto quel che ho cercato di piantare nella immaginazione
umana vi ha preso radice. Il culto di Antinoo sembrava la più folle delle mie
iniziative, lo straripare d'un dolore che non riguardava che me. Ma la nostra
epoca è avida di dèi; preferisce i più ardenti, i più tristi, quelli che mescolano
al vino della vita un miele amaro d'oltretomba. A Delfi, il giovinetto è
divenuto l'Ermes guardiano della soglia, padrone dei passaggi oscuri che
conducono alle ombre. Elusi, il luogo ove l'età e la sua qualità di straniero
gli avevano impedito un giorno d'essere iniziato al mio fianco, ne fa il Bacco
giovinetto dei Misteri, principe delle regioni confinanti tra i sensi e
l'anima. L'Arcadia ancestrale lo associa a Pan e a Diana, divinità dei boschi;
i contadini di Tivoli l'assimilano al dolce Aristeo, re delle api. In Asia, i
devoti ritrovano in lui i loro teneri dèi infranti dall'autunno o divorati
dall'estate. Al margine dei paesi barbari, il compagno delle mie cacce e dei
miei viaggi ha preso l'aspetto del cavaliere Trace, del misterioso viandante
che cavalca nelle boscaglie al chiaro di luna, e porta via le anime nelle
pieghe del suo mantello. Tutto ciò poteva ancora essere null'altro che
un'escrescenza del culto ufficiale, adulazione da parte dei popoli, servilismo
di sacerdoti avidi di sussidi. Ma la figura del giovinetto mi sfugge; essa cede
alle aspirazioni dei cuori semplici: mediante una di quelle reintegrazioni
inerenti alla natura delle cose, l'efebo malinconico e soave è divenuto, per la
pietà popolare, il sostegno dei deboli e dei miseri, il consolatore dei
fanciulli morti. Il volto inciso sulle monete di Bitinia, il profilo del
giovinetto quindicenne, dai riccioli al vento, dal sorriso ingenuo e stupefatto
che ha conservato per così poco tempo, pende a guisa d'amuleto al collo dei
neonati; in qualche cimitero di campagna, lo s'inchioda sulle piccole tombe. Un
tempo, quando pensavo alla mia fine, come un pilota, noncurante di sé, trema
però per i passeggeri e il carico della nave, mi dicevo amaramente che quel
ricordo sarebbe affondato con me; mi sembrava così che quel giovane essere
imbalsamato con tanta cura nel fondo della mia memoria dovesse perire una
seconda volta. Questo timore, pur tanto giusto, s'è in parte placato: ho
compensato come ho potuto quella morte precoce; per qualche secolo almeno
sussisterà un'immagine, un riflesso, un'eco fievole di lui. Non si può far
molto di più, in materia d'immortalità.
Ho rivisto Fido Aquila, governatore di
Antinopoli, in viaggio per la sua nuova sede di Sarmizegetusa. M'ha descritto i
riti annuali celebrati in riva al Nilo in onore del dio morto, i pellegrini
convenuti a migliaia dalle regioni del Nord e del Sud, le offerte di birra e di
grano, le preci; allo scadere di ogni triennio, ad Antinopoli si svolgono
giochi anniversari, così come ad Alessandria, a Mantinea e nella mia diletta
Atene. Tali feste triennali si rinnoveranno l'autunno prossimo, ma non conto di
durare fino a questo nono ritorno del mese di Athyr. A maggior ragione è
importante stabilire in anticipo ogni particolare di queste solennità.
L'oracolo del defunto agisce nella stanza segreta del tempio che è stato
riedificato a mia cura; giornalmente, i sacerdoti distribuiscono centinaia di
risposte già pronte alle domande poste dalla speranza o dall'angoscia umana. Mi
è stato rimproverato di averne composte più d'una anch'io. Non intendevo con
questo mancar di rispetto al mio dio, né di compassione per la moglie di quel
soldato che chiede se il marito tornerà vivo da un presidio in Palestina, o per
quell'inferno assetato di conforto, né per quel mercante le cui navi
beccheggiano sui flutti del Mar Rosso, né per quella coppia che vorrebbe un
figlio. Tutt'al più, così facendo, ho prolungato le parti del logografo, le
sciarade in versi alle quali, talvolta, giocavamo insieme. E allo stesso modo,
qualcuno s'è meravigliato che qui, alla Villa, intorno a questa cappella di
Canopo nella quale il suo culto si celebra alla maniera egiziana, io abbia
lasciato costruire i padiglioni di piacere di quel quartiere d'Alessandria che
porta questo nome, con gli svaghi e le distrazioni che offro ai miei ospiti ed
ai quali m'è accaduto di prender parte. Egli s'era avvezzato a queste cose; e
non ci si chiude per anni in un pensiero unico senza farvi rientrare, a poco a
poco, tutte le abitudini d'una esistenza.
Ho fatto tutto quello che raccomandano: ho
atteso. A volte, ho pregato. Audivi voces divinas... La sciocca Giulia Balbilla
credeva d'udire, all'alba, la voce misteriosa di Memnone: io ho ascoltato i
fruscii della notte. Ho eseguito le unzioni di miele e di olio di rose che
attirano le ombre; ho disposto la coppa di latte, la manciata di sale, la
goccia di sangue, ciò che alimentava la loro esistenza, prima. Mi sono disteso
sul pavimento di marmo del piccolo santuario; attraverso le fessure della
parete, s'insinuava il chiarore degli astri, posava qua e là scintillii
inquietanti, pallidi fuochi. Ho ricordato gli ordini sussurrati dai sacerdoti
all'orecchio del morto, l'itinerario inciso sulla tomba: <<Ed egli
riconoscerà il suo cammino... E i guardiani della soglia lo lasceranno
passare... E andrà e verrà intorno a coloro che l'amano per milioni di
giorni...>> A volte, a lunghi intervalli, ho creduto d'avvertire il lieve
tocco di qualcuno che s'avvicina, leggero come il contatto delle ciglia,
tiepido come un palmo. <<E l'ombra di Patroclo appare al fianco di
Achille...>> Non saprò mai se questo calore, se questa dolcezza emanavano
solo da l più profondo dell'essere mio, prove estreme d'un uomo in lotta contro
la solitudine e il freddo della notte. Ma la domanda, che ancora si pone in
presenza dei nostri amori viventi, oggi non m'interessa più: poco m'importa se
i fantasmi da me evocati vengano dai limbi della mia memoria o da quelli d'un
altro mondo. La mia anima, se pure ne posseggo una, è fatta della stessa sostanza
degli spettri; questo corpo dalle mani gonfie, dalle unghie livide, questa
triste carne già per metà in dissoluzione, quest'otre di mali, di ambizioni e
di sogni, non è molto più solido né più consistente d'un'ombra. Non mi
distinguo dai morti se non per la facoltà di soffocare qualche momento ancora;
in un certo senso, la loro esistenza mi sembra più certa della mia. Antinoo e
Plotina sono reali almeno quanto me.
La meditazione della morte non insegna a
morire; non rende l'esodo più facile, ma non è questo quel ch'io cerco. Piccola
figura imbronciata e volontaria, il tuo sacrificio non ha arricchito la mia
vita, ma la mia morte. Il suo approssimarsi ristabilisce tra noi due una sorta
d'intima complicità: i vivi che mi circondano, i servi devoti, importuni a
volte, non sapranno mai sino a qual punto il mondo non c'interessa più. Penso
con disgusto ai tetri simboli delle tombe egizie: l'arido scarabeo, la rigida
mummia, la rana dei parti eterni. A dar retta ai sacerdoti, t'ho lasciato in
quel luogo ove gli elementi d'un essere si lacerano come un abito logoro che si
strappa, in quel sinistro crocevia tra ciò che esiste eternamente, ciò che fu,
e ciò che sarà. Può darsi che in fin dei conti essi abbiano ragione, che la
morte sia fatta della stessa materia fluttuante e informe della vita. Ma tutte
le teorie sull'immortalità m'ispirano diffidenza: il sistema delle retribuzioni
e delle pene lascia freddo un giudice consapevole della difficoltà d'un
giudizio. D'altra parte, mi accade altresì di trovar troppo banale la soluzione
opposta, il puro nulla, il vuoto ove risuona la risata d'Epicuro. Osservo la
mia fine: questa serie di esperimenti compiuti su me stesso prosegue il lungo
studio iniziato nella clinica di Satiro. Fino a ora, sono mutamenti esteriori,
quanto quelli che il tempo e le intemperie fanno subire a un monumento di cui
non alterano né la materia, né la plastica: a volte, attraverso le crepe, mi
sembra di scorgere e toccare le fondamenta indistruttibili, il tufo eterno.
Sono quel che ero: muoio senza mutarmi. A prima vista, l'adusto fanciullo dei
giardini di Spagna, l'ufficiale ambizioso che rientra nella tenda scrollandosi
dalle spalle i fiocchi di neve, sembrano tanto cancellati quanto lo sarò io
dopo che sarò passato attraverso il rogo; ma essi son qui; io ne sono
inseparabile. L'uomo che ha urlato sul petto d'un morto continua a gemere in un
angolo di me stesso, a onta della calma più e meno che umana alla quale
partecipo già; il viaggiatore racchiuso nel corpo del malato orami sedentario
per sempre s'interessa alla morte perché essa rappresenta una partenza. Quella
forza ch'io fui sembra capace ancora di animare parecchie altre vite, di
sollevare dei mondi. Se, per miracolo, qualche secolo venisse aggiunto ai pochi
giorni che mi restano, rifarei le stesse cose, persino gli stessi errori,
frequenterei gli stessi Olimpi e i medesimi Inferi. Una constatazione simile è
un argomento eccellente in favore dell'utilità della morte, ma nello stesso
tempo m'ispira dubbi sulla totale efficacia di essa.
In certi periodi della mia vita, ho preso
nota dei sogni; ne discutevo il significato con i sacerdoti, i filosofi, gli
astrologhi. La facoltà di sognare, attenuata da anni ormai, mi è stata ridata
in questi mesi d'agonia; gl'incidenti dello stato di veglia ci appaiono almeno
reali, a volte meno importuni dei sogni. Se questo mondo larvale e spettrale,
dove si miete l'informe e l'assurdo ancor più largamente che sulla terra, ci
offre un'idea delle condizioni dell'anima separata dal corpo, senza dubbio
trascorrerò l'eternità a rimpiangere il controllo squisito dei sensi e
l'adattamento prospettico della ragione umana. E, tuttavia, non è privo di
debolezza questo immergersi nelle regioni vaghe dei sogni; ivi, possiedo per un
istante segreti che subito mi sfuggono; mi disseto a sorgenti. L'altro giorno,
mi trovavo nell'oasi di Ammone, la sera della caccia alle belve. Ero felice:
tutto si è svolto come ai bei tempi della mia forza; il leone ferito è caduto,
poi s'è rialzato; mi sono avventato per finirlo. Ma, questa volta, il mio
cavallo, impennatosi, m'ha gettato a terra; l'orribile massa sanguinante mi è
precipitata addosso; le sue zanne m'hanno lacerato il petto; sono tornato in
me, nella mia camera di Tivoli, invocando aiuto. Ancor più di recente, ho
rivisto mio padre, eppure ci penso ben poco; giaceva nel suo letto di malato,
in una stanza della nostra casa d'Italica, che ho lasciata subito dopo la sua
morte. Aveva sul tavolo una fiala piena d'una pozione sedativa, e l'ho
supplicato di darmela. Mi sono destato senza che avesse avuto il tempo di
rispondermi. Mi fa meraviglia che la maggior parte degli uomini abbia tanta
paura degli spettri, mentre si acconsente così facilmente a parlare con i
morti, in sogno.
Anche i presagi si moltiplicano: ormai,
tutto sembra un'intimazione, un segno. Ho lasciato cadere e infrangersi una
preziosa pietra, incastonata in un anello, sulla quale un artigiano greco aveva
inciso il mio profilo. Gli auguri scrollano gravemente il capo; io rimpiango
semplicemente quel capolavoro. Mi capita di parlare di me stesso al passato: in
Senato, discutendo avvenimenti posteriori alla morte di Lucio, mi si è
inceppata la lingua e varie volte mi son trovato a parlare di quelle
circostanze come se avessero avuto luogo dopo la mia morte. Pochi mesi fa, il
giorno del mio anniversario, mentre mi portavano in lettiga su per le scale del
Campidoglio, mi son trovato faccia a faccia con un uomo in gramaglie che
piangeva: ho visto il mio vecchio Cabria cambiar colore. In quell'epoca, uscivo
ancora; continuavo a esercitare le mie funzioni di Pontefice Massimo, di
Fratello Arvale, a celebrare io stesso quei riti antichi della religione romana
che finisco per preferire alla maggior parte dei culti stranieri. In piedi
davanti all'altare, m'apprestavo ad accendere la fiamma; offrivo agli dèi un
sacrificio per Antonino. Improvvisamente, il lembo della toga che mi copriva la
fronte scivolò e mi ricadde sulla spalla, lasciandomi a testa scoperta; passavo
così dal rango di sacrificatore a quello di vittima. E, a dire il vero, è proprio
la mia volta.
La mia pazienza dà i suoi frutti: soffro
meno; la vita torna a sembrarmi quasi dolce. Non mi bisticcio più con i medici;
i loro sciocchi rimedi m'hanno ucciso; ma la loro presunzione, la loro
pedanteria ipocrita è opera nostra; mentirebbero meno se noi non avessimo paura
di soffrire. Mi mancano le forze per gli attacchi di furore d'altri tempi: so
bene, da fonte certa, che Platorio Nepote, che mi è stato molto caro, ha
abusato della mia fiducia; ma non ho tentato di sbugiardarlo; non l'ho punito.
L'avvenire del mondo non mi angustia più; non m'affatico più per calcolare
angosciosamente la durata, più o meno lunga, della pace romana; m'affido agli
dèi. Non già ch'io abbia acquisito una maggior fiducia nella loro giustizia,
che non è la nostra, o una maggior fede nella saggezza umana; è vero il
contrario. La vita è atroce; lo sappiamo. Ma proprio perché aspetto tanto poco
dalla condizione umana, i periodi di felicità, i progressi, anche parziali, gli
sforzi di ripresa e di continuità mi sembrano altrettanti prodigi che
compensano quasi la massa immensa dei mali, degli insuccessi, dell'incuria e
degli errori. Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma
di tanto in tanto verrà anche l'ordine. La pace s'instaurerà di nuovo tra le
guerre; le parole umanità, libertà, giustizia ritroveranno qua e là il senso
che noi abbiamo tentato d'infondervi. Non tutti i nostri libri periranno; si
restaureranno le nostre statue infrante; altre cupole, altri frontoni
sorgeranno dai nostri frontoni, dalle nostre cupole; vi saranno uomini che
penseranno, lavoreranno e sentiranno come noi: oso contare su questi
continuatori che seguiranno, a intervalli irregolari, lungo i secoli, su questa
immortalità intermittente. Se i barbari s'impadroniranno mai dell'impero del
mondo, saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per
rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra o
il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il Pontefice Massimo.
Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali
vaticani avrà cessato d'essere il capo d'una cerchia d'affiliati o d'una banda
di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali
dell'autorità. Erediterà i nostri palazzi, i nostri archivi; differirà da noi
meno di quel che si potrebbe credere. Accetto con calma le vicessitudini di
Roma eterna;
Le medicine non mi soccorrono più; aumenta
l'enfiagione delle mie gambe; e sonnecchio seduto più che disteso. Uno dei vantaggi
della morte sarà d'esser disteso ancora, in un letto. Ormai, tocca a me
consolare Antonino. Gli ricordo che da tempo, ormai, la morte mi appare la
soluzione più elegante dei miei problemi; come sempre, i miei voti finiscono
per realizzarsi, ma in modo più lento, più indiretto di quel che potessi mai
credere. Mi rallegro che il male m'abbia lasciato la lucidità sino all'ultimo;
di non aver dovuto subire la prova dell'estrema vecchiezza, di non esser
destinato a conoscere quell'indurimento, quella rigidità, quell'inerzia, quella
atroce assenza di desideri. Se i miei calcoli son giusti, mia madre è morta
pressapoco all'età alla quale io son giunto; la mia vita è già stata d'una metà
più lunga di quella di mio padre, morto a quarant'anni. Tutto è pronto: l'aquila
incaricata di recare agli dèi l'anima dell'imperatore è tenuta in riserva per
la cerimonia funebre; il mio mausoleo, sulla sommità del quale vengono piantati
in questo momento i cipressi destinati a formare contro il cielo una piramide
nera, sarà terminato pressappoco in tempo per deporvi le mie ceneri ancor
tiepide. Ho pregato Antonino che in seguito vi faccia trasportare Sabina; ho
trascurato di farle decretare onori divini alla sua morte, e in fin dei conti
le son dovuti; non è male riparare a questa negligenza. E vorrei che i resti di
Elio Cesare fossero collocati al mio fianco.
M'hanno portato a Baia; con questo caldo
di luglio, il tragitto è stato penoso, ma in riva al mare respiro meglio.
L'onda manda sulla riva il suo mormorio, fruscio di seta e carezza; godo ancora
le lunghe sere rosate. Ma ormai non reggo più queste tavolette che per occupare
le mie mani, che si muovono, mio malgrado. Ho mandato a chiamare Antonino; un
corriere lanciato a tutta corsa è partito per Roma. Rimbombano gli zoccoli di
Boristene, galoppa il Cavaliere Trace... Il piccolo gruppo degl'intimi si
stringe al mio capezzale. Cabria mi fa pena. Le lacrime mal si addicono alle
rughe dei vecchi. Il bel volto di Celere è, come sempre, singolarmente calmo; è
intento a curarmi senza lasciare trapelar nulla che potrebbe contribuire
all'ansia o alla stanchezza d'un malato. Ma Diotimo singhiozza, la testa
affondata nei guanciali. Ho assicurato il suo avvenire; non ama l'Italia; potrà
realizzare il suo sogno di far ritorno a Gadara e aprirvi con un amico una
scuola d'eloquenza; con la mia morte, non ha nulla da perdere. E, tuttavia,
l'esile spalla si agita convulsamente sotto le pieghe della tunica; sento sotto
le dita queste lacrime deliziose. Fino all'ultimo istante, Adriano sarà stato
amato d'amore umano.
Piccola anima smarrita e soave, compagna e
ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le
rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamo
d'entrare nella morte a occhi aperti...
AL DIVINO ADRIANO AUGUSTO
Figlio di Traiano vincitore dei parti
nipote di Nerva
pontefice massimo
rivestito per la XXII volta
della potestà tribunicia
tre volte console due volte trionfatore
padre della patria
e alla sua divina consorte
Sabina
Antonino loro figlio
A Lucio Elio Cesare
figlio del divino Adriano
due volte console
Appendice (per chi ha voglia di leggere ancora)
Nel centenario della nascita di Marguerite Yourcenar (2003) -
Il fascino delle «Memoires d'Hadrien»
di Massimo Barile
|
Su Marguerite
Yourcenar le parole espresse dal mondo letterario si sprecano con abbondanza
di particolari, a volte di imprecisioni, altre volte esagerazioni in senso
positivo e negativo soprattutto sulla sua forte personalità, in alcuni casi
giudizi frettolosi ed imperfetti di una certa critica che non l'ha mai vista
di buon occhio: analisi piene di pregiudizi e preconcetti che Marguerite
avrebbe aborrito albergando in lei la figura di uno storico proteso alla
perfezione ed al contempo di un poeta mai condizionato dalla passione di
parte ma sempre capace di un giudizio morale sereno, obiettivo, moderato.
Marguerite de
Crayencour, la gran dama della letteratura francese, l'ultima aristocratica
del pensiero, la bonne dame de Petit Plaisance, la grande seduttrice,
l'archeologa dell'anima, storica e memorialista, tessitrice di storie e miti,
orgogliosa e con una buona dose di snobismo ereditato dal padre, traduttrice
di Virginia Woolf e degli spirituals, in esilio volontario a Mount Desert
dove la leggenda immagina una donna col vestitino rosso delle beghine di
Bruges o con gli zoccoli ai piedi e un fazzoletto nero in testa.
Scrittrice,
non donna, alla quale piaceva inventarsi la vita, alla quale non importava
vincere ma essere liberi, che affermava «scrivere è come fare il pane» e poi
ancora «la poesia non è un extra» e con l'inquietudine del poeta arrivò alla
saggezza attraverso il disincanto, «saggezza del vivere, soavità del morire»,
guardando alla storia come ad una alchimia inevitabile e alla propria
esistenza come al lato visibile della vita eterna e forse fu proprio la
poesia di Kavafis, (con il sentimento di quella giustapposizione continua del
presente e del passato) tradotta dal greco e tanto amata, a condurre la
scrittrice, così legata alla memoria storica, ad astrarsi dal tempo in una
visione delle cose che mentre continuano a scorrere giungono ad un tempo che
confina con l'eterno: attualità e passato, presente e futuro si intersecano,
si inglobano e, come nelle memorie di Adriano, non si distingue più se è
l'imperatore che parla, qui ed ora, o la scrittrice-segretaria
dell'imperatore "pellegrino" che oltrepassa il confine ultimo
liberandosi dell'Io e delle sue limitazioni convergendo in un mondo che
racchiude in sé ogni istante fino al momento assoluto della poesia.
Scrittrice
accarezzata dalla grazia e privilegiata in quel mondo letterario che la vide
sempre sospesa tra la memorialista meticolosa e il poeta inquieto con le
ambiguità del suo privato: sempre sulla linea di confine e costantemente
all'erta per raccogliere nuovi incanti, per raccontare ciò che non si può
narrare, ciò che rimane dietro gli occhi che guardano ed esiste solo nel
proprio mondo spesso celato, scevro dalle false apparenze, incontaminato dai
luoghi comuni, non contagiato ancora da speculazioni di ogni sorta.
Affascinata
dal viaggio si sposterà in continuazione da una parte all'altra del mondo con
numerosi viaggi in molti paesi dell'Europa e negli Stati Uniti per poi
alternare una serie infinita di viaggi e ritorni dalla sua residenza di Mount
Desert Island: per lei ogni viaggio, ogni avventura è al tempo stesso
un'esplorazione interiore, una contemplazione mobile. Per tutta la vita è
stata stimolata dal viaggio come un bisogno irrinunciabile, una sorta di
desiderio carnale come lei stessa dirà, e anche negli ultimi anni nonostante
una accentuata costrizione ad una vita immobile non rinuncerà all'avventura
nel mondo con il consueto slancio, con rinnovato entusiasmo per ogni nuova
esperienza, con l'impareggiabile attenzione a vedere le realtà spesso
nascoste delle terre di confine, dei luoghi più selvaggi, quasi a
rispecchiarsi nello stesso amore che Adriano nutriva per il mondo barbaro.
Una voce
ispirata fin dall'infanzia quando leggeva Ibsen con il padre che le insegnava
il gusto della precisione e della verità, l'unico modo per capire ogni
passaggio, per entrare nel personaggio senza lasciarsi influenzare da se
stessa e dalle proprie visioni o dai sentimenti personali che potevano
contaminare una fedele comprensione: e lei riprenderà questo modo di
procedere con le Memorie ponendosi a fianco, facendo parlare direttamente la
voce dell'Imperatore divino. Ricreare la storia «dal di dentro», raccontare
in prima persona la vita d'un uomo arrivato al potere supremo con la sua
azione politica, le sue gesta, i suoi piaceri: un testamento del più
illuminato degli imperatori, della sua cultura, della sua volontà politica di
stabilizzare un mondo dopo le lunghe guerre e prevenire futuri cruenti
conflitti.
Il successo
delle Memorie deve forse la sua solidità come opera proprio a questa
caratteristica, a questo tessuto robusto del monologo: ispirazione, segreto e
rigore, di un'opera non facile, di un'avventura di un uomo d'eccezione in un
momento unico della storia.
Da un lato
l'originalità del suo valore intellettuale che è riuscito a sintonizzarsi
sull'universale e dall'altro la condizione solitaria dello scrittore così
indispensabile alla sua arte che le fa dire «l'individuo non conta, la
solidarietà è per l'umanità».
In un mondo
dove l'importante è assicurarsi un posto fisso e duraturo sotto i riflettori
lei è sempre stata lontana ed estranea a determinati ambienti, anche quando
nel 1981 viene eletta tra gli "Immortali" dell'Académie Française
non modifica il suo comportamento, non frequenta l'Académie, e continua ad
alternare i suoi viaggi con i soggiorni a Mount Desert, sulla costa atlantica
degli Stati Uniti. Si posiziona volontariamente in un angolo, serena e, a
volte, quasi distaccata, nel suo angolo che le permette di guardare il mondo
e di viverlo intensamente senza rientrare in una categoria o in una linea
letteraria per inseguire libera la sua visione: nel modo più giusto.
Da
privilegiata ha potuto condurre in assoluta libertà un'esistenza errabonda
scoprendo il mondo e non ha mai dovuto sottostare a compromessi per potersi
assicurare un pubblico più vasto e nel minor tempo possibile: «Potevano
leggermi in tre ed era la stessa cosa» un po' civettuola amava ripetere.
In
quell'angolo di mondo, immerso nel silenzio, nel suo studio, senza
televisione, ogni tanto all'ascolto della radio, circondata da libri, tappeti
antichi, il calore del camino, in una esistenza ridotta all'essenziale come a
seguire il ritmo della natura scandito dalle stagioni e assaporare una pace
conquistata, il lirismo assoluto.
E proprio
come poeta è il suo esordio con un volume di versi e brevi prose Le jardin
des chimères e subito dopo con Les dieux ne sont pas morts che rappresentano
comunque semplici esercizi di un'esordiente dove abbondano le imitazioni (poi
la sua intera produzione poetica sarà raccolta ne Les charitès d'Alcippe alla
fine della sua esperienza letteraria). Come poeta sembra già voler afferrare
ogni fatto, ogni evento come fossero ultimi momenti irripetibili ed
illuminati da luce celestiale e al contempo abbandona repentinamente queste
prime esperienze per dedicarsi ad altro quasi si trovasse a far fronte ad una
continua maratona con la vita e con le esperienze che essa offre: la
consapevolezza di vivere una esistenza dove non è possibile fermarsi troppo a
lungo, perdersi in eccessive soste o cadere in oblìo ma al contrario ci si
deve immergere attivamente in ogni nuovo entusiasmo per correre dietro alla
vita perché il tempo scorre veloce. Fondamentale è il senso che dà alla
parola poeta: «poeta è qualcuno che è "in contatto" attraverso cui
passa una corrente» e per lei la poesia deve poggiare su effetti ripetitivi,
tali da svolgere un ruolo incantatore o per lo meno imporsi al subconscio.
Quando la poesia è priva di ritmi immediatamente percettibili non stabilisce
quel contatto necessario al lettore, non si fa magia o incantesimo e la
corrente poetica viene interrotta perché viene a mancare quel ritmo che ricorda
al lettore che si tratta proprio di un incantesimo e di un canto che
dipendono appunto dal ritmo della frase e dalla iterazione dei gruppi di
suoni.
E proprio
nella poesia, nella sua ultima parola, nel suo ultimo canto, come araba
fenice sembra risorgere dalle ceneri del passato e rivivere i giorni e le
stagioni come se il tempo continuamente lasciasse adagiare sulla superficie
nuove sensazioni, ritrovati stupori, un rinnovato impensabile entusiasmo che
credeva ormai impossibile: solo la maturità degli anni e la capacità di
rileggersi, di rivedersi, di rivisitarsi potrà cogliere appieno le
illuminazioni, le parole del tempo.
Le memorie di Adriano
Marguerite
Yourcenar come storico dovizioso crea un archivio col passare degli anni,
annota ogni notizia utile, esamina ogni fonte, salva le plausibili elimina le
fantasiose o poco attendibili anche se a volte si lascia prendere la mano e
pur sapendo che ciò che dice Adriano è quasi sicuramente frutto della
fantasia lo salva; vaglia ogni circostanza sotto l'aspetto cronologico,
verifica le varie ipotesi ed infine sottopone all'analisi le migliaia di
fogli ed appunti illeggibili che daranno vita alle Mémoires d'Hadrien.
Prende una
figura importante, nota, compiuta, definita dalla Storia in modo da
abbracciarne con lo sguardo l'intero percorso e cerca di cogliere lucidamente
il momento in cui l'uomo, protagonista di questa esistenza unica ed
irripetibile, la soppesa, la esamina e per un istante è in grado di
giudicarla. Il processo è assai lungo e tortuoso: il libro concepito e
scritto in parte tra il '24 e il '29 viene distrutto, ripreso nel '34 con
laboriose indagini e poi abbandonato più volte fino al '37 anno nel quale
durante un soggiorno negli Stati Uniti scrive alcuni frammenti come ad
esempio la visita al medico e la rinuncia agli esercizi fisici da parte di
Adriano. Nel 1939 il manoscritto viene lasciato in Europa con la gran parte
degli appunti ma porta sempre con sé una carta dell'Impero romano alla morte
di Traiano e il profilo di Antinoo come a ricordare a se stessa che la sfida
è sempre aperta. Nel '41 in un negozio scopre per caso delle stampe di
Piranesi ed una di queste rappresenta la veduta di Villa Adriana proprio
quella visione che aveva fatto scattare la scintilla tanti anni prima. Sarà
guardata e riguardata per anni. Fino al 1948 sembra abbandonare la sua idea,
subentra una certa indifferenza dopo aver bruciato altri appunti e si sente
quasi impotente davanti a quella che pare ormai impresa impossibile: «Mi ci
sono voluti molti anni per calcolare esattamente la distanza tra l'imperatore
e me»... «per colmare non solo la distanza che mi separava da Adriano ma
soprattutto quella che mi separava da me stessa». Ma durante quegli anni
aveva continuato a leggere gli autori antichi: quello che poteva essere il
modo migliore per far rivivere il pensiero d'un uomo quasi a ricostruire la
sua biblioteca negli scaffali di Tivoli.
Proprio
quelle memorie e quei frammenti, dimenticati per anni, per caso emergono
dall'interno di un baule pieno di cianfrusaglie e vecchia corrispondenza e
Marguerite si diverte a buttare via o a dare alle fiamme le cose inutili
("a me piacciono i falò") quando salta fuori una brutta copia delle
prime pagine ingiallite delle Memorie. Siamo nel 1948 ed erano passati
diversi anni: c'era stata la guerra, il soggiorno a New York, l'isola di
Mount Desert, il fascino di tanti luoghi ed incontri e nel succedersi degli
eventi il buon Adriano era stato dimenticato. Alla vista di quelle prime
pagine scatta il colpo di fulmine, quei fogli ingialliti del manoscritto
perduto erano il segno del destino che quel libro doveva essere scritto a
qualunque costo. Rivivono le ricerche iniziate prima della guerra e i testi
della biblioteca comprati nel periodo in cui era nata l'idea: due libri su
Adriano, uno dello storico greco Dione Cassio con il capitolo de "La
storia romana" consacrato ad Adriano e un'edizione moderna dell'Historia
Augusta (più precisamente il testo de la Vita Hadriani del cronachista latino
Spartiano). Sia Dione Cassio che Spartiano si basavano su testi ormai perduti
tra i quali le Memorie pubblicate da Adriano e una raccolta di lettere
dell'imperatore. V'è da rilevare che, nonostante Dione Cassio e Spartiano non
siano grandi storici sono risultati essere estremamente fedeli alla vita
vissuta da Adriano e le indagini scrupolose odierne hanno confermato molte
delle loro affermazioni.
Le esperienze
vissute nel periodo intercorso tra le varie stesure regalano nuovo vigore e
arricchiscono la figura e l'epoca di Adriano che ormai si delineava in modo
più complesso e oltre al letterato, al viaggiatore, all'ellenista, all'amante
emergeva quella più forte dell'Uomo di Stato, dell'Imperatore.
Da quelle
pagine e dalle numerose letture di poeti e filosofi greci, sempre coltivate
nel corso degli anni, alla fine aveva ricostruito la cultura di Adriano
«sapevo pressapoco quello che Adriano leggeva, quali erano i suoi punti di
riferimento e il modo in cui considerava determinate cose in base ai filosofi
che aveva letto». Era stato un continuo impregnarsi in modo totale nella
figura di Adriano finché essa non era emersa: chiara, netta, precisa.
Le pagine
bianche portate con sé si riempivano nella cabina di un vagone letto o nel
ristorante d'una stazione, attraverso ricerche ed elaborazioni tra erudizione
e magia ispiratrice come a trasferirsi con il pensiero nell'interiorità d'un
altro con un ritratto di una voce: le memorie scritte in prima persona per fare
a meno di un intermediario compresa se stessa «Adriano era in grado di
parlare della sua vita in modo più fermo, più sottile di come avrei saputo
farlo io».
Imparare
tutto, leggere tutto, informarsi su ogni cosa, mettere a fuoco con precisione
l'immagine che abbiamo creato sotto le palpebre chiuse: attraverso lo studio
e le ricerche, perseguire l'attualità dei fatti, rendere quei volti cosa
viva, leggere un testo del secondo secolo con gli occhi di quel tempo,
calarsi nei panni di uno storico del tempo per coglierne la verità ed
eliminare la fantasia, usare con prudenza gli studi, immergersi in un
soggetto per scoprire le cose più semplici.
Far
raccontare allo stesso Adriano, con la sua voce, le idee politiche, le azioni
e le campagne belliche, la politica pacificatrice e le riforme sociali e
finanziarie: ridare vita, a poco a poco, alla sua personalità, alla sua
grandezza, alla sua generosità e alla sua esuberanza. Tutto era stato preso
in esame soprattutto le stesse opere autentiche di Adriano: la corrispondenza
amministrativa, i frammenti di discorsi o di rapporti come il celebre
Discorso di Lambesa, pareri legali riportati da giureconsulti, poesie citate
da autori del tempo come la famosa Animula vagula blandula o rilevate da
iscrizioni votive e monumenti, le celebri tre lettere di Adriano riguardanti
la sua vita personale (Lettera a Matidia, Lettera a Serviano, Lettera
dell'imperatore sul letto di morte ad Antonino). I numerosi accenni ad
Adriano e al suo ambiente, sparsi nelle opere degli autori del II e del III
secolo, con le cronache, alcuni dati interessanti ed episodi come «Le cacce
di Adriano e di Antinoo», il testo geroglifico dell'Obelisco del Pincio che
narra le esequie di Antinoo e descrive le cerimonie del suo culto e la storia
degli onori divini resi ad Antinoo che si desumono dalle iscrizioni, dai
monumenti figurativi e dalle monete.
Il fortuito
arrivo di un baule ormai dato per disperso era stato dunque l'evento
necessario, il caso aveva un ruolo fondamentale. Toccando quelle pagine e
quei libri per Marguerite era come toccare Adriano e il suo mondo ma quelle
iniziali stesure erano solo un abbozzo di scrittura dal tono di un diario
intimo o di un lungo dialogo dove non emergeva la voce potente di Adriano ed
era improponibile per un romano: era necessario farlo esprimere con un
monologo conforme alle norme e quindi Adriano doveva servirsi della parola
organizzata, quasi impersonale, strumento del mondo greco-romano di cui egli
è perfetto rappresentante, ed il monologo era l'unica scelta, senza inserire
dialoghi o conversazioni nel testo perché non vi sono fonti per sapere come
gli antichi parlassero tra loro. Adriano poteva evocare la sua vita solo
attraverso le sue stesse parole e la fortuna era che si trattava di un uomo
colto e al contempo uomo d'azione, un uomo che aveva un lungo passato alle
spalle e alcune nozioni di ciò che avrebbe potuto essere l'avvenire, di ciò
che temeva che fosse o voleva che fosse e poi era già abbastanza in là con
gli anni da avere una vita già tracciata e da poterla guardare in
prospettiva.
Poi segue un
attento studio degli storici del tempo di Adriano o quelli poco posteriori
per fare emergere l'artista, l'amatore d'arte, il mecenate, l'amante e,
facendo tesoro di ogni esperienza e della nuova impostazione, quello che
sarebbe stato impossibile vent'anni prima, cioè l'uomo di Stato.
Mémoires
d'Hadrien è l'opera universale, il libro più famoso di Marguerite Yourcenar
ed il suo fascino è duplice: sia sul piano storico che su quello letterario
grazie a questa attenta rievocazione della vita e dell'epoca dell'imperatore
romano. È scritto sotto forma di memorie indirizzate da Adriano stesso, ormai
sessantenne e condannato da una grave malattia, al figlio adottivo Marco
Aurelio designato come successore. Nel ritiro della sua villa di Tivoli
Adriano sotto lo scacco della morte imminente, accettata ed attesa con
coraggio, rievoca la propria vita: la gioventù in Spagna, gli studi ad Atene
(un'iscrizione ricorda che il sofista Iseo fu uno dei maestri del giovane
Adriano), la lunga ascesa al potere come successore di Traiano, gli anni del
potere e della gloria. Tornano a vivere i ricordi e le gesta del condottiero
militare e dello statista geniale e grande attenzione è dedicata alle
passioni della sua vita come l'amicizia con la moglie di Traiano,
l'imperatrice Plotina che gli annunziò prima la sua adozione da parte di
Traiano e due giorni dopo lo informò della morte del marito e della sua
nomina a successore con il Senato che non poté che sanzionare la sua
proclamazione, e poi l'amore per Antinoo, il giovane bitinio, il divino
adolescente, ed il grande dolore per la sua tragica morte. Sullo sfondo delle
memorie rivive anche l'ambiente della Roma del II secolo con i suoi cortei
trionfali, gli spettacoli dei mimi, i giochi del circo, le pratiche magiche
delle Sibille, i sanguinosi riti delle religioni d'Oriente, quel mondo di
indovini, di fattucchiere e di praticanti in scienze occulte di cui Adriano
si circondò.
Per scrivere
le Memories lavora anche di notte deve sapere tutto di Adriano gli anni della
gioventù, gli anni della guerra, della vanità e della carriera durante i
quali Adriano si sforza di diventare ufficiale dello stato maggiore di
Traiano, console, governatore: deve ricreare tutto attraverso i documenti
dell'epoca e il curriculum vitae degli alti funzionari. Anno per anno le
diverse funzioni e le varie cariche di cui è stato insignito Adriano, il nome
degli amici, il suo gruppo romano, la sua vita personale: una attenta
ricostruzione partendo dai documenti ma cercando di rianimarli, vivificarli:
perché i documenti da soli sono morti. Questo lavoro dura circa tre anni con
un impegno intenso e continuo quasi in simbiosi con il personaggio Adriano
scoprendone i difetti, le menzogne o le cose taciute per interesse (ad
esempio a proposito della sua conquista del potere), i delitti politici
(l'esecuzione di quattro consolari del partito militare come semplice
regolamento di conti anche se non è sicura la sua presenza a Roma durante
l'esecuzione o la condanna a morte del cognato novantenne Serviano e di suo
nipote Tusco) quando Adriano sembra quasi travolto da una sorta di
indifferenza verso la morte: «una più o una meno che importa ormai!».
Le Memorie di
Adriano sono sicuramente un'opera dal respiro più vasto rispetto alle
precedenti esperienze e non v'è alcuna soluzione di continuità con gli altri
libri : attraverso un lavoro faticoso e tremendamente difficile portava in
primo piano un Impero, un uomo che moriva a sessantadue anni, che aveva visto
tante cose, era passato attraverso tante vicende. Non a caso per riuscire a
scrivere le Mémoires d'Hadrien con quella prospettiva era necessario sapere
ogni cosa sull'epoca e sulle condizioni della vita stessa nel mondo romano,
aver letto il codice sul quale si trovano risoluzioni e deliberazioni di
Adriano: tutte cose che non si fanno in un giorno e quando, lei solo
ventenne, aveva iniziato le sue ricerche non aveva ancora quel bagaglio di
esperienze, necessario per un lavoro simile, ed è per questo che le stesure
iniziali non potevano essere all'altezza perché ancora acerbe mentre invece
la redazione definitiva, grazie ad una maturità letteraria raggiunta, poteva
essere solo quella scritta molto tempo dopo a più di quarant'anni.
Lo stesso
Adriano quando muore Lucio suo ex favorito e figlio adottivo si chiede «Se
Cesare fosse morto a quell'età che cosa resterebbe di lui? Il ricordo di un
uomo dissipato che si occupava di politica». E questo lo spinge a guardare
con maggiore pietà a chi moriva senza che il suo destino si fosse del tutto
compiuto.
Adriano è
stato uno dei primi ad essere dio di diritto in quanto imperatore e ad aver
goduto del culto dell'imperatore divinizzato da vivo, oltre ad un entusiasmo
religioso che lo circonda verso la fine della sua vita. L'uomo ispirato che
giunge a quarant'anni dopo aver superato tutte le tappe: impara il latino che
conosceva male , impara il greco, studia ed esercita tutte le funzioni
militari e civili, fa l'esperienza dei paesi barbari, osserva il periodo di
crisi sotto Domiziano e non vi partecipa seguendo i consigli dei saggi,
attraversa quindici anni di guerra proprio lui l'uomo della pax romana e
quando diventa imperatore fa cessare la guerra contro i Parti. Dovrà
ritornarvi con la guerra di Palestina che sarà vista, proprio per questo
motivo, come uno dei suoi insuccessi.
Ma dalle
Memorie emerge un Adriano continuamente innovatore, costantemente
riformatore, un uomo con rara intelligenza capace di riassestare l'economia
con geniale creatività (alcuni dei primi provvedimenti adottati furono gli
aumenti di distribuzione di congiaria alla popolazione dell'Urbe, raddoppio
del premio alle truppe e sospensione della riscossione dell'aureum coronarium
dovuto dalle province n.d.r.) migliorare le condizioni degli schiavi,
pacificare la terra, emancipare le province mantenendo l'unità romana,
proporre l'ellenismo senza la forza e inaugurare un periodo di sviluppo
dell'arte greca. È un uomo lucido non folgorante, con una visione mentale
aperta ad altri mondi che non sono i suoi come ad esempio il mondo barbaro e
ai poeti che scherzavano su questa sua propensione rispondeva: «Restate pure
a Roma, nelle taverne, a farvi pungere dalle zanzare e a cianciare di
letteratura». Questa fervida inclinazione per il mondo greco e il senso del
mondo barbaro non fanno dimenticare il presente di Roma dove, facendo appello
alla mia memoria di antichi studi classici e se ben ricordo, questa sua
grande ed insaziabile passione ellenica fu motteggiata dai romani che per
derisione lo soprannominarono greculo o grechetto. E fu anche il «romano
spagnolo diventato greco» o come dice il Bengtoon nella sua Storia Greca
«Adriano fu il primo vero ellenista sul trono dei Cesari».
Ma il colpo
di genio involontario è forse Antinoo che poteva rappresentare l'incontro con
il suo ideale umano e poteva incarnare le aspirazioni dell'imperatore ma è
importante sottolineare che Adriano non aveva certo bisogno della figura di
Antinoo perché aveva in sé le caratteristiche del grande funzionario, del
letterato e del principe anche se il culto di Antinoo ha forse posto a
simbolo quell'ideale religioso e passionale: «Ci vuole sempre una vampata di
follia per costruire un destino» dirà Marguerite Yourcenar.
Non per
niente Adriano ha disseminato per tutto l'Impero le effigi di Antinoo: in
tutte le città greche o dell'Asia minore vi sono monete che lo raffigurano,
creando quel culto che le dedicherà la città di Antinopoli, fondata
dall'imperatore in onore del suo favorito, ancora visibile fino agli inizi
del secolo e poi distrutta da un industriale egiziano che utilizzerà i ruderi
per costruire uno zuccherificio.
Per quanto
riguarda la tragica morte di Antinoo annegato nelle acque del Nilo si possono
fare delle ipotesi e la versione ufficiale sembra indirizzarsi verso il
sacrificio di sé ad Adriano, un suicidio-sacrificio del favorito «per fuggire
all'invecchiamento, all'usura della passione, all'odiosità degli intrighi di
palazzo». La versione del suicidio sacrificale che si desume dalle fonti era
questa: Antinoo aveva saputo per mezzo di un oracolo che la vita di Adriano
non si sarebbe conservata a lungo a meno che un altro non avesse offerto in
cambio la sua alle divinità infere e per il grande amore che Antinoo aveva
nei confronti del suo imperatore avrebbe offerto la sua vita. Interessante è
annotare come in una lettera, scritta da Adriano poco tempo prima della
morte, sembra di avvertire ormai un abbandono al semplice godimento del
piacere: in ogni caso la scomparsa di Antinoo sconvolgerà la mente
dell'imperatore. A sublimazione del suo grande dolore colse l'occasione per
fare un Dio del suo divino amante. Per prima cosa cambiò il nome della città
di Besa (dove era morto Antinoo) in quello di Antinopoli e la ingrandì con
numerosi edifici, vi eresse un tempio e vi istituì un culto. In tutto
l'Impero si fece a gara nel dedicare ad Antinoo templi, e statue che erano la
riproduzione pura dei lineamenti e del corpo del divino adolescente, e poi
simulacri che ne rivestivano le sembianze e in occidente predominarono i
simulacri bacchici di Antinoo. Dione Cassio narra inoltre che Adriano giurò
di aver visto nel cielo risplendere una nuova stella che doveva essere
certamente l'anima di Antinoo assurta a divinità. Questa interpretazione
divina rasenta il delirio religioso se consideriamo che nella villa di
Tivoli, di cui aveva fatto il santuario dei suoi sogni, sono state rinvenute
decine di statue, busti, simulacri di Antinoo ed è la dimostrazione che la
perdita di Antinoo segni una svolta decisiva nella vita di Adriano. Dopo
pochi anni dalla morte di Antinoo la sua salute peggiorava, messa a dura
prova dal suo peregrinare per le terre dell'Impero. Il fisico era in declino
il suo stato di salute si era aggravato e le condizioni mentali peggioravano:
ormai il grande principe che aveva portato l'Impero a splendori mai
conosciuti è prossimo alla fine, sopraffatto da una malattia che lo obbliga
ad una forzata inattività ed «Adriano è un uomo di quelli che invecchiando
peggiorano a vista d'occhio». Frequenti segni di squilibrio, imprevedibili
sbalzi d'umore, violenti rancori, tremende gelosie, una costante invidia dei
minimi fatti altrui, senza dimenticare le acute crisi di disperazione
supplicando a chi gli era vicino e fedele di offrirgli del veleno. Ormai
ridotto ad uno stato di semi impotenza nella sua villa di Baia avrebbe
spedito sentenze di morte da attuarsi da parte di Antonino che lo sostituiva
al potere: logicamente Antonino Pio, non ne teneva assolutamente conto (ironia
del destino forse l'appellativo di Pio decretata dal Senato non era casuale);
e proprio il buon Antonino Pio tentava di riabilitare la memoria del padre
adottivo e cercava di convincere il Senato a concedere ad Adriano gli onori
dell'apoteosi che lo accoglieva nell'Olimpo delle divinità romane.
Attenendosi
alle fonti giova sottolineare che in realtà se da una parte invocava la morte
dall'altra ricorreva a stregoni, indovini e maghi affinché lo guarissero ma
il male faceva il suo corso e il 10 luglio del 138 si spense.
La parabola
di una vita viene fissata in modo meraviglioso dalla stessa Marguerite
Yourcenar che, per scrivere l'atto finale, immersa in una sera gelida a Mount
Desert cerca di rivivere quel giorno di luglio: «il peso del lenzuolo sulle
gambe stanche, il mormorio quasi impercettibile d'un mare senza marea,
l'ultimo sorso d'acqua, l'ultima immagine, l'imperatore non ha che da
morire».
Ma Adriano
rimase l'Augusto per eccellenza, il padre della patria, il secondo Romolo col
quale l'Impero romano aveva raggiunto l'apogeo oltre il quale cominciava
l'inevitabile declino, l'inesorabile parabola discendente quasi simbolizzata
negli ultimi anni di uno dei più grandi imperatori della storia di Roma:
lacerata da sprazzi di crudeltà che si alternano a periodi di assoluta
indifferenza, pervasa ancora dalle ultime lucide e geniali intuizioni mentre
aumenta sempre più la perdita di contatto con la realtà: per scongiurare la
fine dell'imperatore dio e del mito dell'eterno impero romano non c'era più
nulla da fare.
L'accoglienza
entusiasta delle Memorie ha sicuramente posto un forte accento su Antinoo
come il momento culminante della vita di Adriano ma nelle Memorie vi sono
«quarantacinque anni di tensioni seguiti da nove anni di travagli» come dirà
Marguerite Yourcenar come a voler sottolineare una visione ben più ampia
dell'opera. Nell'arco della vita di Adriano si è focalizzata l'attenzione
soprattutto sul suo successo straordinario, all'apice della gloria, in
trionfo ed amato, ma per l'autrice emergono con vigore anche le figure
minori, i personaggi che esistono a metà che hanno anche loro un fascino
particolare e poi v'è la malinconica visione di un uomo che invecchia a suo
modo, secondo il proprio stile di vita: quando la lucidità viene meno o è
portata fino al sospetto, l'uomo è in preda a folgoranti accessi di follia,
ripensa con amarezza alla inevitabile guerra di Giudea, vive da Imperatore i
momenti di angoscia davanti alla malattia.
Il successo
delle Memorie sorprenderà la stessa scrittrice soprattutto per quell'idea che
s'era fatta che la vita di un imperatore poco poteva interessare alla gente
(e le Memorie era un libro certamente non dei più facili) ed è importante
ricordare ciò che Marguerite disse: "Nel caso di Hadrien c'è stata
quella tendenza del lettore a identificazione con il protagonista e
soprattutto con l'avventura amorosa. Sono rari i lettori che hanno visto
l'insieme del libro (direi quell'intero processo umano di un imperatore). In
genere i lettori non vedono l'insieme; vedono la punta saliente,
l'angolazione che più li tocca. Colgono sempre, di un libro, l'aspetto che
riflette la loro vita».
«Avevo
scritto la storia di un principe e al tempo stesso un grande destino
individuale e poi è sempre piacevole dare a un essere che è vissuto un piccolo
rilancio nel tempo».
Le Memorie è
stato un libro che durante le sue diverse stesure ha subito una riduzione,
una spoliazione: è rimasto in vita il condensato di un libro molto più vasto,
il riassunto di scene che erano state descritte nei minimi particolari e
nelle sfumature più impensabili durante notti insonni e magiche: è rimasto
«solo ciò che un uomo ha creduto di essere, ciò che ha voluto essere, ciò che
è stato».
Non è un caso
che Marguerite Yourcenar durante un'intervista abbia risposto: «La vita è
spoliazione ed arricchimento: Ci togliamo i vestiti per dorarci al sole» e
lei ha rivissuto come protagonista della sua storia le stagioni della propria
esistenza come se il lento fluire del tempo e le memorie del passato avessero
il potere di riaprire lo scrigno di emozioni dimenticate.
Questo
incessante sguardo all'indietro e al passato viene fissato con precisione, la
parola si erge a testimone, sempre incantata, perennemente condannata a
raccontare ciò che pareva dimenticato, una totale immersione nella
memorialistica: e trasforma la vita in letteratura.
Si rende
conto che non ha senso inseguire il passato e archiviarlo tra le pagine come
reperto e decide di interpretare la vita: le vicende della vita sono argilla,
l'architettura della memoria poggia sulla sabbia e si mette a guardare il
mondo con lo sguardo incantato dell'infanzia, con lo stupore della sorpresa.
Le sue
meditazioni sul tempo vedono ogni rapporto come effimero, doloroso e precario
e si incidono sempre nella memoria con lacerazioni sul proprio corpo e lo
stesso Adriano afferma «Oggi comincio a scorgere il profilo della mia morte»:
l'ombra funerea è sempre in agguato come in diabolica attesa per un ultimo
dialogo, la morte unico referente ammesso dalla stessa scrittrice come misura
dell'universale.
Da archeologa
della memoria scoperchia le urne, codifica i segni, legge le iscrizioni,
riassembla i reperti frantumati e ricostruisce la vita dei defunti, le
passioni, le fragilità, le scelte, le gesta: la storia si fa apologo.
Marguerite
Yourcenar da mirabile tessitrice di storia e di miti con la sua parola ricrea
la trama del passato ed ogni passo compiuto dai suoi personaggi, con le
azioni, e con le passioni è immerso nel mondo che deve fare i conti con il
calendario che riporta le date e gli eventi. Gli anni trascorsi al di fuori
della consuetudine sociale dopo aver cambiato paese, lingua e continente, in
quel rifugio sulla costa nordamericana, tentando di sconfiggere o trovarsi
pronta ad assaporare la morte attraverso l'esumazione del tempo: guardare al
passato come alla sola entità indiscussa, e con una ineguagliabile grazia
muoversi oltre le soglie del tempo. «L'uomo è ambiguo perché ha rinunciato al
sogno e ha piegato la trasparenza della volontà alle aride leggi del calcolo
personale»: per salvare l'umanità dalla catastrofe bisogna abbattere le mura
del tempo e comprendere i secoli nelle pagine fuggevoli di un libro. Le
figure storiche divenute personaggi letterari attraverso il rigore
intellettuale e la scrittura con quel gusto della precisione di un biografo
postumo sono immessi nell'eternità.
Nella sua
ricerca "alla deriva del caso" la scrittura può nascere a bordo di
un treno, in una sala d'attesa, nella camera d'un albergo chissà dove o
durante una visita alla Villa Adriana o facendo una passeggiata. Gli
strumenti per far emergere i ricordi sono custoditi nella memoria familiare o
nella memoria storica e attraverso una accurata documentazione vuole
ricostruire la scena completa che offra una più compiuta immagine: il punto
di partenza è il documento, il reperto registrato, per riassemblare tra loro
i pezzi con curiosità per vedere che cosa ne verrà fuori. Il suo corpo sembra
dileguarsi in lontananza, il suo Io è altrove e si assiste ad una frattura
tra individuo e realtà, come l'artista che non partecipa al gioco, vive ai
margini o se ne sta in un angolo. Perennemente impegnata nella ricerca del
proprio destino attraverso quello altrui, la sua memoria la conduce
inesorabilmente sempre davanti a quel senso della perdita: una malinconia sotterranea
permea tutte le azioni e il mondo appare come un enorme archivio di frammenti
da riunire per ottenere una sublime ultima opera. Grande anima dolente
estende la sua pietà all'universo, all'umanità: la sofferenza del mondo
comune a tutti gli individui nella loro esistenza non è più sofferenza
privata ma destino.
Nella
religione del buddismo cercò la chiave per accettare e superare tale destino:
la fuga verso l'alto può sottrarre l'artista allo smarrimento e la scrittura
può mutare la vita. Nelle memorie cercherà un comune denominatore fra i
diversi destini e troverà «l'infinita pietà per la nostra pochezza e, per
contrasto, il rispetto e la curiosità per le fragili e complesse strutture
che posano come palafitte sopra l'abisso».
In questo
incessante viaggiare sulle tracce del passato e con quel desiderio vibrante
di contemplare il mondo nel quale vive darà vita alle memorie, darà un senso
alla parola che può germogliare ovunque perché il luogo non ha importanza.
Da scrittrice
estranea all'ovvio, al banale e all'autoreferenza, rifuggirà sempre dal
privilegiare il proprio caso personale perché l'individuo è valido solo
all'interno di un disegno globale ed universale: l'importante è non smettere
mai di cercare la visione.
Proprio
questo guardare al mondo con una visione così complessa rende inevitabile il
superamento dell'Io, quasi mai utilizzato nella narrazione, una abolizione
che diventa una necessità, una limitazione che non ha più ragione d'esistere:
la sua assenza diventa liberazione.
In un
continuo superamento, approfondendo e studiando il Tantrismo, lo Zen, la
conoscenza buddhista nelle sue varie scuole, la scrittrice cercherà nelle
direzioni più diverse:«il pugnale per uccidere l'Io».
Con uno
scatto incredibile trasformerà la perdita in guadagno e l'esperienza
diventerà contemplazione.
Sarà una
lenta conquista iniziata con la scoperta che occorre identificarsi con
l'altro non per un annullamento ma per comprenderlo nella sua singolarità,
nella sua unicità, e capirlo più profondamente. Come nel caso di Adriano che
girò e rigirò nella sua testa per decenni prima di esprimersi ancora con la
sua voce. Si arrabbiava quando le dicevano «Adriano sei tu»: perché lei non
si era identificata con lui ma vi si era posta accanto, lì vicino per
ascoltarlo, per capirlo, per contemplarne l'esistenza, sicuramente più
importante di tante altre, ma indubbiamente facente parte di tutte le altre,
del tutto.
Cadere nel
tutto ad occhi aperti, far perdere le tracce nella foresta nordica, andare
verso la propria sorte, la propria desolata méta.
«I nostri
rapporti con gli altri non hanno che una durata; quando si è ottenuta la
soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il servigio, compiuta l'opera,
cessano; quel che ero capace di dire è stato detto; quello che potevo
apprendere è stato appreso».
La
consapevolezza della maturità e del tempo «l'anima che assiste al passare
delle gioie, delle tristezze e delle morti di cui è fatta la vita ha ricevuto
la grande lezione delle cose che passano». Rimangono i momenti migliori, i
momenti alti che sono sempre i più felici come in un rapporto tra la
grandezza e la felicità adrianea. Quel sentimento greco della felicità: i
momenti migliori sono anche i più felici.
Cosa avrebbe
voluto rivedere Marguerite Yourcenar nel momento ultimo della propria fine? I
giacinti del Mont Noir, le arance appese ai rami da suo padre, un cimitero in
rovina invaso dalle rose, il mare con il suo rumore che dura dal principio
del mondo, il carillon che suona un'arietta di Haydn al capezzale di Grace
Frick morente (la sua compagna di vita per lunghi anni nonché una
straordinaria traduttrice in lingua inglese della sua opera), o quel giorno a
Corbridge, distesa in mezzo ad un campo di scavi quando si è lasciata
impregnare di pioggia insieme alle ossa dei morti romani, o un arrivo
mattutino a Segesta, a cavallo, attraverso sentieri allora deserti e sassosi
che profumavano di timo o i volti amati, confusi tra i volti immaginari o tra
i volti della storia. O niente di tutto questo, forse solo... il vuoto
fiammeggiante come il cielo d'estate, che divora le cose, e a prezzo del
quale il resto non è più che una successione d'ombre.
La morte come
la vita, le Care memorie e l'innocenza di una fanciulla, le vestigia e i
profumi del presente, la linea di confine sempre lambita e molte volte
attraversata, mille simboli e rimandi ma una sola certezza: l'indicazione per
giungere alla méta ogni lettore la deve cercare dentro se stesso.
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