mercoledì 16 aprile 2003

That's America




That’s America





Religione, bandiera, storia


La foresta del dissenso




Da un articolo di


Edward W Said




  • Docente di letterature comparate alla Columbia University (Stati uniti), autore in particolare di Orientalismo, Feltrinelli, Cultura e Imperialismo, Gamberetti, e dell'autobiografia Sempre nel posto sbagliato, Feltrinelli

  • (brani sparsi,le sottolineature sono mie, ndr.)


Vorrei tratteggiare rapidamente lo straordinario panorama dell'America di oggi, visto da un cittadino americano come me che per anni ha potuto vivere confortevolmente in questo paese, pur conservando, grazie alle sue origini palestinesi, la visione comparativa di uno straniero. Il mio proposito è semplicemente di suggerire alcuni strumenti di comprensione, di intervento e, se mi è concesso usare questo termine, di resistenza nei confronti di un paese che non è affatto monolitico come generalmente si tende a credere.


Ciò che distingue in particolare gli Stati uniti è la loro sorprendente ostentazione di benignità, innocenza e di un quasi celestiale altruismo.



A sostegno di questa pericolosa illusione è stata reclutata una nuova falange di intellettuali dal passato liberal o di sinistra, che storicamente si erano schierati contro le guerre americane all'estero, ma sono oramai disponibili a sostenere quest'idea di un impero della virtù e del bene.


... Certo, gli eventi dell'11 settembre hanno avuto un ruolo in questo voltafaccia. Ma il fatto più sorprendente è che nel loro orrore, gli attacchi alle torri gemelle e al Pentagono sono trattati come se fossero nati dal nulla, e non provocati dall’ossessiva presenza dell’America e dal suo interventismo in ogni parte del mondo.




Religione




Ciò che i nuovi «falchi liberal» fingono di non vedere è la massiccia, decisiva presenza della destra cristiana (così simile all'estremismo islamico nel suo fervore moralistico) negli Stati uniti di oggi.



La visione del mondo alla quale si ispira è tratta soprattutto dall'Antico Testamento, e coincide in larga misura con quella israeliana. Un aspetto peculiare dell'alleanza tra i neo-conservatori filoisraeliani e i cristiani estremisti è il particolare favore con cui questi ultimi vedono il sionismo.



Di fatto, lo considerano come il modo migliore per convogliare tutti gli ebrei in Terra Santa e preparare la strada alla seconda venuta del Messia; allora gli ebrei dovrebbero scegliere tra la conversione al cristianesimo o l'annientamento. Ma queste tesi teologiche sanguinarie e violentemente antisemite di solito non vengono citate nei discorsi dei cristiani fondamentalisti americani, e sono ovviamente ignorate dagli ambienti ebraici filoisraeliani.


...


Tra tutti i paesi del mondo, l'America è quello che più esplicitamente si richiama alla religione.



. La vita della nazione - dalle scritte su edifici e monumenti a quelle incise sulle monete - è tutta permeata di riferimenti a Dio, frequenti anche nelle più locuzioni più comuni, quali «in God we trust», «God's country», «God Bless America». La base elettorale di George W. Bush comprende da 60 a 70 milioni di uomini e donne che come lui credono di aver incontrato Gesù e di essere sulla terra per compiere l'opera di dio nel paese di dio.

Nel loro insieme, questi fattori convergono in un'ideologia che alimenta l'idea di un'America virtuosa e benefica, portatrice di libertà e di progresso economico e sociale: un'immagine onnipresente nella vita quotidiana, tanto da apparire come una realtà assolutamente naturale e incontrovertibile.





bandiera




In nessun altro paese la bandiera ha una tale valenza iconografica.




La si vede dovunque - sui taxi, sui risvolti delle giacche, sulle facciate delle case, alle finestre, sui tetti.


È la principale incarnazione della nazione, simbolo dell'eroica resistenza di una comunità assediata da nemici indegni.


Il patriottismo rimane tuttora la prima delle virtù americane, ed è strettamente legato allo spirito religioso e alla convinzione di essere sempre dalla parte della ragione, non soltanto all'interno dei propri confini ma dovunque nel mondo.



L'economista Julie Schor ha dimostrato che gli americani lavorano più a lungo di trent'anni fa, guadagnando relativamente di meno.


Ma finora, a livello politico i dogmi liberisti dell'economia di mercato non sono mai stati oggetto di una discussione seria e sistematica.


Come se a nessuno fosse mai venuto in mente che qualcosa andrebbe cambiato in un sistema in cui la stretta alleanza tra il governo federale e il grande capitale non riesce neppure ad assicurare ai cittadini americani un minimo di copertura sanitaria universale e un livello di istruzione decente




Ma le notizie di borsa hanno la precedenza su qualsiasi analisi o revisione del sistema.




Ma in questa società, che di fatto è straordinariamente complessa, esistono anche numerose correnti contrarie e alternative.


Le crescenti resistenze alla guerra, che il presidente tenta di minimizzare, provengono da un'altra America, più informale, in gran parte ignorata o travisata dai grandi media - dal New York Times alle emittenti televisive, passando per la maggior parte delle maggiori riviste e case editrici.




Non si era mai arrivati a una così spudorata, scandalosa complicità tra l'informazione televisiva e le smanie belliciste del governo in carica.


Ormai i telespettatori che seguono abitualmente la Cnn o di una delle altre grandi emittenti generaliste parlano con eccitazione del malefico Saddam e di quanto il «nostro» intervento sia urgente e necessario, per fermare il mostro prima che sia troppo tardi. Come se non bastasse, i vari canali sono ormai monopolizzati da veterani dell'esercito, esperti di terrorismo e politologi specializzati nelle questioni mediorientali, che il più delle volte non conoscono neppure una delle lingue della regione, e magari non hanno mai messo piede in Medioriente. Ma non per questo rinunciano ad arringare i telespettatori, in un gergo infarcito di luoghi comuni, sostenendo che «noi» dobbiamo occuparci dell'Iraq. Senza dimenticare di attrezzare le nostre finestre e le nostre automobili per proteggerci in caso di attentati con gas letali.





storia patria




Questo consenso, proprio perché scientemente costruito e gestito, è come immerso in una sorta di presente atemporale, per il quale il concetto stesso di storia è anatema.


Nei discorsi pubblici, il termine stesso di storia è usato sistematicamente in senso spregiativo, come indica una locuzione diffusa negli Stati uniti: «you're history» (sei un reperto storico, un pezzo da museo, cioè un rottame). D'altra parte, la storia nella sua accezione positiva è ciò che ogni cittadino americano è tenuto a credere, senza alcun tipo di analisi storica o di spirito critico, del suo paese (ma non del resto del mondo, definito come «vecchio», generalmente arretrato e quindi irrilevante).



Ma il tentativo di imporre criteri tanto risibili non è andato in porto. Ecco come Linda Symcox ha riassunto l'intera vicenda: «Viene da pensare che questo tentativo [neo-conservatore] sia ispirato a un malcelato desiderio di inculcare agli studenti una visione della storia consensuale e relativamente aconflittuale. Ma il tutto è finito con una netta inversione di rotta. Grazie all'opera degli storici e dei sociologi che hanno curato la redazione del testo, il documento destinato a impartire le direttive per l'insegnamento si è trasformato in veicolo di quella stessa visione pluralistica che il governo aveva tentato di contrastare.


Così, in definitiva il progetto di imporre una versione consensuale della storia (...) è stato contrastato da storici non indifferenti a temi quali la giustizia sociale e la redistribuzione del potere, e che ritengono necessaria una lettura più articolata del passato.




Ancora più sorprendente è la censura, persino istituzionalizzata, di due aspetti determinanti della storia americana: la schiavitù dei neri e lo sterminio degli amerindi.


Washington vanta un importantissimo Museo dell'Olocausto, ma sulle tragedie di quei popoli non esiste nulla del genere, in nessuno stato del paese.



. Non resta molto spazio per le questioni quali i profitti finanziari, il saccheggio delle risorse, l'aspirazione a un potere egemonico, i cambiamenti di regime ottenuti con la forza e/o con la sovversione (come ad esempio in Iran nel 1953 o in Cile nel 1973).



Ancora più fitta è la cortina di silenzio su realtà straordinariamente inique e crudeli, nella quali l'America ha responsabilità dirette, come ad esempio gli attacchi di Ariel Sharon contro i civili palestinesi, o le tremende conseguenze delle sanzioni contro l'Iraq per la popolazione, o ancora le pratiche punitive disumane dei governi della Colombia e della Turchia, che godono dell'appoggio degli Stati uniti.



all'estero raramente i commentatori tengono in debito conto questa





«foresta del dissenso»





Citerò innanzitutto l'ala sinistra della comunità afro-americana, formata da gruppi urbani che si mobilitano contro la brutalità della polizia, le discriminazioni in campo occupazionale, il degrado dell'habitat e del sistema scolastico, guidati e rappresentati da personalità quali il reverendo Al Sharpton, Cornel West, Mohammed Ali, Jesse Jackson (per quanto in ribasso come leader) e vari altri che si richiamano a Martin Luther King Jr.

A questi movimenti si associano numerose altre collettività etniche di latinoamericani, amerindi e musulmani.



È il caso di notare una particolarità interessante di alcuni personaggi quali ad esempio il reverendo Al Sharpton o il verde Ralph Nader, ormai più o meno tollerati, tanto da essersi conquistati una certa visibilità, che però non si prestano ad essere cooptati perché troppo intransigenti, o non sufficientemente interessati al tipo di premi abitualmente offerti dalla società statunitense.

Tra le componenti del dissenso va citata una parte preponderante del movimento delle donne, impegnate su temi quali il diritto all'aborto, la lotta contro le violenze e molestie sessuali e la parità sul lavoro.

Anche alcune associazioni professionali (in particolare di medici, avvocati, scienziati, universitari, più alcuni sindacati e un settore del movimento ambientalista) contribuiscono alla dinamica dei gruppi contro corrente, pur rimanendo legate, in quanto corpi istituzionalmente costituiti, all'ordine sociale e a tutto ciò che le sue esigenze comportano. Un paese percorso da conflitti Non va poi sottovalutato il ruolo delle Chiese organizzate, divenute in molti casi veri e propri vivai del dissenso e della volontà di cambiamento. I fedeli di queste Chiese vanno nettamente distinti dai cristiani fondamentalisti e dai tele-evangelisti di cui già si è parlato. I vescovi e i laici cattolici ad esempio, così come il clero della Chiesa episcopale, i quaccheri e il sinodo presbiteriano - nonostante gli scandali sessuali nel primo caso e la perdita d'influenza negli altri tre - hanno adottato in materia di pace e di guerra posizioni straordinariamente progressiste, protestando contro le violazioni dei diritti umani perpetrate all'estero, contro l'ipertrofico bilancio militare e la politica economica neoliberista, che fin dal primi anni '80 ha portato alla mutilazione dei servizi pubblici.

Storicamente, una parte della comunità ebraica organizzata è da sempre impegnata nella lotta per i diritti delle minoranze, sia negli Stati uniti che all'estero.


Ma, dopo Reagan e l'ascesa dei neoconservatori, le sue potenzialità positive sono in gran parte soffocate dall'alleanza della destra religiosa statunitense con Israele, e dalla febbrile attività delle organizzazioni sioniste, sempre pronte a tacciare di antisemitismo chiunque critichi la politica israeliana.


Molti altri gruppi e individui che aderiscono ad assemblee, riunioni e manifestazioni pacifiche hanno preso le distanze dall'alienante coro patriottico del dopo 11 settembre, facendo quadrato in difesa delle libertà civili (tra cui la libertà d'espressione) minacciate dall'Us Patriot Act.


Anche il ceto medio, che vive una situazione di disagio costante, è sempre più sensibile agli appelli contro la pena capitale e contro vari abusi (dei quali l'esempio più noto è il campo di detenzione di Guantanamo), e tende a condividere la diffidenza verso le autorità in genere, siano esse militari o civili, e la perplessità a fronte di un sistema carcerario sempre più privatizzato (la percentuale dei detenuti rispetto alla popolazione è la più alta del mondo, e nelle carceri quella degli uomini e delle donne di colore è proporzionalmente altissima).


Tutto questo si riflette nella confusa mischia del cyberspazio, luogo di svolgimento di inarrestabili contese tra l'America ufficiosa e quella ufficiale.


In una situazione economica in continuo deterioramento in cui il fossato tra ricchi e poveri si allarga sempre più, e a fronte degli incredibili sperperi, della corruzione ai più alti livelli della società e delle privatizzazioni selvagge, che mettono e repentaglio quanto rimane del sistema di sicurezza sociale, le tanto celebrate virtù del sistema capitalistico appaiono sempre più indifendibili.

Davvero l'America è unita intorno al suo presidente, alla sua politica estera bellicista, al pericoloso semplicismo della sua visione economica?

O in altri termini: l'identità americana è stata veramente stabilita una volta per tutte? E il mondo dovrà quindi adattarsi a convivere con l'immensa potenza militare di un blocco monolitico che ha dispiegato le sue truppe in decine di paesi e bombarda a destra e a manca chiunque non si pieghi al suo volere, con il pieno assenso di «tutti gli americani»?




Ho cercato di suggerire qui un altro modo di vedere l'America: un paese percorso da conflitti, ove la contestazione è molto più vivace di quanto generalmente si creda.


Un paese che sta vivendo una grave crisi d'identità. Avrà anche vinto la guerra fredda, come oggi ci si compiace di dire, ma le conseguenze di questa vittoria sul piano interno sono tutt'altro che univoche. E la lotta non è finita. Limitandosi a concentrare l'attenzione sul potere centrale, politico e militare si perde di vista una dialettica interna tuttora in atto, e ben lontana dall'essere risolta.

... Ogni cultura - e in particolar modo quella americana, che è essenzialmente una cultura di immigrati - è formata da numerose componenti che si accavallano e si sovrappongono in vari modi.



E forse, una delle conseguenze «collaterali» della globalizzazione è il sorgere di comunità transnazionali, che si mobilitano su tematiche di carattere globale - come nel caso dei movimenti impegnati per i diritti umani, per la liberazione della donna o contro la guerra.

Gli Stati uniti non sono affatto isolati da tutto questo. L'importante è saper vedere al di là delle apparenze, e non lasciarsi scoraggiare da una superficie apparentemente compatta, per collegarsi alle varie correnti del dissenso su temi che interessano tanta parte dell'umanità su questo pianeta.



Da questo diverso modo di guardare all'America possono sorgere motivi di speranza e d'incoraggiamento.





Per l’articolo intero vedi qui.



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