giovedì 20 aprile 2006


  Dispotismi antichi e nuovi 



( Questo articolo è stato prima sollecitato e poi rifiutato dalla Stampa di Torino)


 L’estenuante battaglia a colpi di parole messa in atto sugli schermi televisivi in questa campagna elettorale – da parte di alcuni, una vera e propria scimmiottatura della guerra civile – è la spia di un uso anomalo e preordinato dell’informazione pubblica e privata, voluto da chi negli ultimi anni ha diretto politicamente il paese. Non a caso il generale Carlo Jean, parlando nel 1991 ai dirigenti di Mediaset, ricordava che nel mondo della comunicazione di massa il controllo della televisione ha acquistato “da un punto di vista politico-strategico” un’importanza analoga alla “forza militare”. Giovanni Sartori, in una recente raccolta di saggi (Mala Costituzione e altri malanni, Laterza, Bari 2006), alludendo al caso italiano ha usato esplicitamente il termine “dispotismo”. Lo stato che ha in mente l’attuale maggioranza, ha scritto il politologo fiorentino, è “il frutto di un dispotismo elettivo pilotato dalla dittatura del premier”. Dodici anni fa, dalle colonne della “Stampa”, anche Norberto Bobbio aveva avvertito che la “tendenza all’unificazione del potere politico col potere economico e col potere culturale attraverso il potentissimo strumento della televisione […] ha un nome ben noto nella teoria politica. Si chiama, come la chiamava Montesquieu, dispotismo”.

 Questo è il dato di fatto ignorato dai più e su cui occorre riflettere. Il regime dispotico evoca antichi scenari, ma anche fenomeni legati alla modernità. Lo si può definire come una forma di governo caratterizzata dall’assolutezza del comando e da un esercizio del potere nell’esclusivo interesse di chi lo detiene. Dominio “senza legge e senza regola”, il dispotismo è concepito da Montesquieu come la perdita del punto di equilibrio sia delle monarchie sia delle repubbliche, e dunque come una possibile forma di corruzione di ogni governo legittimo. Chi detiene il potere dispotico sommuove e riplasma la stessa società civile. Un regime fondato sull’obbedienza dei sudditi esige infatti individui incolti, vaghe leggi, funzionari governativi con vasti poteri discrezionali, giudici asserviti all’esecutivo e un notevole rafforzamento del potere ecclesiastico, perché la religione, in un contesto siffatto, “è una paura aggiunta alla paura”. In altri termini: il dispotismo sta alla democrazia come il “governo degli uomini” sta al “governo delle leggi”.

 Alla vigilia della Rivoluzione francese, la riflessione sul regime dispotico registra una novità sostanziale. Il comando di un uomo solo, avverte Condorcet, “è soltanto un’astrazione”. In tutti i paesi in cui ha prevalso un despota si è sempre avuta “una classe di uomini o di più corpi che hanno diviso con lui il potere”. L’ultimo dei philosophes ha intuito che la società moderna è un organismo complesso e ramificato, ma che può essere governata dispoticamente sia in forma “diretta” che “indiretta”, perché tanto le forze tradizionali (come l’aristocrazia, il clero e l’esercito) quanto i gruppi interessati ad un’economia di mercato (come gli industriali, i banchieri e gli uomini della finanza) esigono un esecutivo forte e tendono comunque a condizionare pesantemente quello esistente.

 Un ulteriore elemento va sottolineato: la nascita in epoca contemporanea della “mentalità totalitaria”, intesa come mobilitazione delle energie e delle coscienze per fini di potere. Essa non solo ha preceduto – come ha ricordato a suo tempo Hannah Arendt – l’avvento dei “regimi totalitari”. E’ anche sopravvissuta alla loro disfatta, favorendo all’interno di alcune democrazie la tendenza a concentrare e a confondere i poteri pubblici con quelli privati. Perché la mentalità totalitaria e le forme dispotiche di potere hanno continuato ad aver fortuna? Si deve ad Albert Hirschman, alcuni anni fa, l’introduzione di alcune categorie che l’autore ha definito “retoriche dell’intransigenza”, messe a punto, inizialmente, dal pensiero conservatore e reazionario contro i grandi eventi della modernità (la rivoluzione francese, il suffragio universale, la politica del welfare state) e riproposte poi dal filone più radicale della sinistra e della destra del Novecento. Uno degli aspetti più interessanti dell’analisi è che queste retoriche si sono manifestate non solo all’interno dei regimi autoritari, ma anche in quei paesi democratici usciti da una guerra che ha visto su fronti avversi anche la popolazione interna. In questi paesi, la politica ha continuato ad essere concepita, anche a decenni di distanza, come la “pura continuazione della guerra civile con altri mezzi”, e dunque secondo la logica amico/nemico. I valori della democrazia (come la libertà, l’eguaglianza, la tolleranza, il dialogo), formalmente restaurati, sono stati vissuti in chiave prevalentemente tattica, come risultato di un compromesso provvisorio tra gruppi sociali e politici che si sono ferocemente combattuti in passato e che hanno continuato a considerarsi, a dispetto del nuovo regime costituzionale, inesorabilmente contrapposti.





Le riflessioni di Hirschman aiutano a capire, in particolare, quanto è successo in Italia, ossia in un paese fortemente scosso prima dal “biennio rosso” e dal colpo di stato del 1922, poi dalla guerra civile del 1943-45 e dalle lotte sociali degli anni sessanta e settanta. Dopo l’implosione del mondo comunista e la scomparsa traumatica negli anni novanta della Democrazia cristiana e del Partito socialista, le contrapposizioni frontali e le retoriche dell’intransigenza sono state esibite perlopiù dalla destra. Ma secondo un copione che, dietro i furori ideologici, ha tentato di nascondere all’opinione pubblica ben altri conflitti. Nati sul terreno degli interessi. I poteri coinvolti in questo processo di trasformazione, che ha assunto da tempo inedite forme dispotiche, sono quattro: l’esecutivo, il legislativo, il giudiziario e il sistema mediatico. Tre di questi poteri, ossia l’esecutivo, il legislativo e il sistema dell’informazione televisiva hanno fatto spesso blocco attorno alla figura del primo ministro, simbolizzato recentemente nel corpo vorace del caimano; mentre un clima culturale intollerante e aggressivo avvelena da tempo i rapporti con la magistratura e tenta di condizionare, attraverso lo schermo, gli orientamenti dell’opinione pubblica. Cito alcuni esempi, tre dei quali dimostrano come il governo degli uomini possa essere progressivamente restaurato anche attraverso il governo delle leggi.

 1) I provvedimenti che hanno favorito “il più forte di tutti”: la depenalizzazione del falso in bilancio; la legge sulle rogatorie internazionali; la sospensione dei processi in corso per le massime autorità dello stato; la riduzione dei tempi di prescrizione per i reati degli imputati eccellenti. Si è parlato, per questi atti legislativi, di leggi ad personam. Ma, dal momento che il capo del governo li ha concepiti sibi et suis, perché non chiamarli leggi ad dominum?

 2) La riforma della seconda parte della Costituzione, approvata a maggioranza semplice e sottoposta ora a referendum popolare. Essa ha introdotto una trasformazione radicale delle funzioni attribuite dai costituenti del 1948 al Presidente della Repubblica e alle due Camere, a tutto vantaggio del capo del governo, nuovo “garante” degli equilibri istituzionali dello stato.

 3) Il “riordino” della magistratura. Mentre lascia irrisolti i problemi di efficienza e di funzionalità della giustizia, ripristina pesantemente il controllo degli organi inquirenti sia da parte della gerarchia interna sia da parte dell’esecutivo.

 4) L’irrisione e il disprezzo per gli avversari politici e per gli organi istituzionali che dissentono dall’attività del governo. I giudizi sarcastici e caricaturali formulati sistematicamente dal premier non sono forse l’espressione di una logica fondata sull’antitesi amico/nemico, in auge nei regimi autoritari ?

 5) Gli scenari improbabili evocati da un gruppo di “atei devoti” e da altri analisti che praticano un uso politico della storia. Da una parte i teo-con italiani, sintonizzati culturalmente e politicamente con la destra americana, diffondono la morale manichea del Bene (di produzione propria) e del Male (di produzione altrui). Dall’altra la vulgata revisionista, di area governativa, rivede capziosamente il passato e interpreta il presente attraverso approssimative nozioni di liberalismo, comunismo e fascismo, suggerite dalle necessità ideologiche dell’oggi.
Le tendenze culturali dominanti, all’interno delle democrazie, possono essere efficacemente contrastate con solide argomentazioni critiche. Non così gli assetti del potere, e i costumi che li accompagnano. In caso di vittoria elettorale, le forze dell’Ulivo non devono illudersi. Se non ripristineranno con convinzione e con l’autorità della legge le regole dello stato di diritto, i lupi perderanno forse il pelo, ma non rinunceranno certamente a praticare il vizio. E anche se fossero lupi di un altro branco, il quadro d’insieme, sostanzialmente invariato, risulterebbe altrettanto inquietante. Non aveva forse scritto Cicerone, sollevando un problema tacitato per secoli, che essere liberi “non consiste nel vivere sotto un padrone giusto, ma nel non averne alcuno”?

 Franco Sbarberi








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