giovedì 13 aprile 2006

Un racconto di Paola


                                     
I tufi
- Oggi c’è odore d’autunno - disse Alice spenzolandosi dalla finestra e allargando la bocca. 
– E com’è l’odore d’autunno? – la voce di Clara aveva una sfumatura annoiata – E poi l’odore non deve mica entrare in bocca, non è mica un sapore.
- A me invece mi entra in bocca e poi sale su nel naso – disse Alice aspirando forte – e quando passa dalla bocca diventa più grande e dopo lo sento meglio.
 -  Grullina – ora la voce aveva la sfumatura del soprapensiero dal momento che l’interesse di Clara era già occupato dalle scarpe che dovevano essere lucidate bene perché era giorno festivo, in piazza c’era gente e parecchi l’avrebbero guardata. Com’era eccitante essere guardate, soprattutto da quei quattro o cinque giovanotti che non conosceva bene, ma che venivano in paese giusto per dare un’occhiata alle ragazze. A lei facevano un certo effetto quelle occhiate lunghe che non sapeva se erano timide o sfacciate, forse tutt’e due. Quelle occhiate la turbavano e le davano un brivido molto piacevole a cui poi ripensava tutto il giorno.
 In città i suoi compagni erano ancora ragazzetti come lei, questi invece erano già grandi, coi baffetti, i capelli neri sfumati nel collo che veniva fuori abbronzato dalle camicie aperte, sempre bianche e ben stirate. Ce n’era uno, più alto, con un modo obliquo di guardare e i denti candidi come quelli di una réclame. Aveva sentito che lo chiamavano Domenico. Era un nome orrendo, una cosa assurda che lui non se ne rendesse conto. Nico era più bello, se fosse capitato di parlarci gliel’avrebbe detto.
 Comunque oggi sceglieva il vestito giallo con la vita bassa e la gonna a balze. Sotto sarebbero state ben in vista le ginocchia abbronzate e lisce e le scarpe nere lucide col piccolo tacco rotondo.
La nonna mise dentro la testa e un po’ del vestito nero a pallini bianchi.
– Su, carine, sbrigatevi. Ali, sei sempre in ritardo, cambiati e datti un’arrangiata ai maxicapelli.-
L’arrangiata era presto fatta, bastava una scossa forte della testa e la massa arruffata dei riccioli era a posto. Anche se la nonna dalla cucina dove stava preparando la colazione borbottava che per quel giorno poteva andare, ma poi era bene fare la treccia perché i capelli stavano più ordinati. Erano così folti, nessuno in famiglia ne aveva mai avuti tanti. Alice non capiva se era bello o brutto avere tanti capelli. Comunque quando la mamma non c’era, tutte le difficoltà venivano aggirate con molta disinvoltura perché la nonna era grande e faceva finta di credere a tutto quello che loro le rifilavano. Uscirono dirigendosi alla piazza della chiesa.
 – Oggi voglio il chinotto – disse Alice saltellando intorno alla nonna che cercava uno spazio sicuro per posare in terra il bastone. – E non voglio leggere nel libro di preghiere perché puzza di carta vecchia.
 La mano della nonna la carezzò brevemente.
 – Non è un problema, Ali, ma ora smetti di saltare. Dopo la messa si va tutt’e tre al bar.-
 – Clara non c’è – disse Alice, e fece con gli occhi un’espressione furba.
 - Cercala – disse la nonna con energia – e portala dentro. – Poi entrò in chiesa dritta nel vestitino nero che la faceva apparire più alta.
 Alice pensò a un pezzetto di liquirizia che stava per essere inghiottito da una balena. Indugiò un po’ a guardare la gente che entrava, tutta vestita per bene e un po’ buffa, poi corse verso la piazzetta dove si riunivano le ragazze e i ragazzi davanti al circolo culturale che era una brutta casa gialla ridipinta ogni anno di un giallo più scuro. Ora sembrava un pezzo di pecorino stagionato e faceva venir la voglia di staccarne un morso.
 Dal momento che Clara non c’era, non valeva la pena di tornare indietro e prese per la strada che scendeva verso i tufi, dov’erano le grotte che un tempo la gente aveva usato come cantine. Arrampicandosi sulla porticina di legno della prima grotta, col naso nel vuoto che c’era tra le assicelle, guardò nel semibuio. Veniva un buon odore di muffa e di vino, che annusò con piacere insieme al frescolino che alitava dal fondo oscuro della grotta. Non che non si facesse sentire un certo impulso a scappare, ma sapeva che doveva resistere.
 – Un due e tre, che il mio cane torni da me – disse tutto d’un fiato, poi siccome niente si muoveva, scese con un saltello e si arrampicò sulla porta della seconda grotta. – Tu lo sai dov’è Pillo, vero? Fammelo tornare.
  Aspettò qualche secondo, ma i piedi negli spazi stretti le facevano male e si lasciò andar giù. C’erano altre grotte tutte in fila, ma pensò di essere stata abbastanza coraggiosa per quella volta e che avrebbe potuto tornare. Forse sarebbe stata più fortunata. Corse via, l’importante era non voltarsi indietro, poteva succedere di inciampare e quelli che la guardavano da dietro, da dentro le grotte, avrebbero pensato che lei era una stupida, una bambina sciocca che non si meritava di ritrovare il suo cane.
 A messa arrivò tardi, in tempo per vedere la gente che usciva, tutti gli uomini davanti, perché dentro stavano sempre in fondo in piedi, forse per essere pronti a uscire prima. Era il momento più bello, perché si poteva chiacchierare finalmente con quelli che ci piacevano, ma la nonna era arrabbiata e il chinotto bisognava scordarselo per quel giorno.
La mattina dopo c’era un gran sole, già appena sveglia. Non era certo molto presto perché le cicale frinivano come impazzite sull’albero di sambuco che coi rami più grandi toccava quasi la finestra della camera. Una volta aveva visto una cicala morta, era gialla e brutta, invece i grilli, che vedeva spesso nell’orto saltare qua e là cercando riparo nei buchi della terra, erano amorosi, specie quando ne trovava uno sperduto in un angolo della camera e lo prendeva col fazzoletto per portarlo fuori. Però per sentirli bisognava aspettare la sera e gran parte della notte veniva sprecata perché era obbligatorio dormire. Quello del dormire era un problema di cui parlavano con Clara, anzi una delle poche cose su cui erano d’accordo. Perché si doveva passare proprio la notte a dormire e non il giorno che faceva tanto caldo? La notte era bella per tante cose, la luna che era un po’ strana, con quel viso serio, ma era anche unica, un incredibile lampadario appeso a niente e il cielo una coperta immensa fatta di una stoffa leggera blu, con stelle vere, mica di lustrini e poi tutti gli animali che di giorno non si fanno mai vedere e invece col buio escono, come i cerbiatti, i conigli selvatici e i porcospini che si trovano sempre schiacciati sulla strada, poveretti e i grilli che sarebbe interessante vedere come fanno a cantare così.
 Bevve in fretta il latte troppo caldo, scottandosi un po’ la gola e prese la fetta di pane con la marmellata di visciole, perché era più buona a mangiarla mentre camminava. Salutò in fretta la nonna e mentre con la guancia sfiorava quella di lei, la sentì sudata, fredda e sudata. La nonna era seduta vicino alla tavola e puliva i fagiolini. La luce della finestra la colpiva in pieno e la faceva vedere pallida pallida, un po’ spettinata, lei che era sempre così ordinata. Come faceva la pelle a essere sudata e fredda? Forse non era un momento buono per la nonna, ma lei aveva fretta e scappò via.
 Mentre camminava per la discesa dei tufi fra la macchia che diventava sempre più fitta, sentiva l’ombra che si faceva più scura e fresca, mentre una leggera inquietudine s’impadroniva di lei. Le grotte erano là a pochi passi, silenziose e appena visibili dentro la parete color zucchero bruciato. Si arrampicò sulla prima e restò zitta, col fiato sospeso per un po’. Una lucertola le passò davanti smuovendo un poco la terra che cadde in un polverio leggero.
 – Lucertola verde e nera della grotta, vorrei ritrovare il mio cane – disse con voce che cercò di rendere ferma. Le sembrò che ci fosse un’eco leggera e l’odore di una presenza invisibile, ma non successe nulla. Provò con la seconda grotta, ma quella sensazione strana si era dileguata. Si voltò per tornare indietro e si accorse che era a pochi passi dal cimitero. Era un luogo piccolo, un quadrato circondato dai campi, completamente assolato. Le cicale frinivano, un po’ più in là vedeva il campo sportivo lungo e deserto. Non c’era mai venuta sola, ma ora era lì e forse poteva chiedere di Pillo alla nonna Emilia, che ci stava da qualche anno. Lei era nata in quei posti e ci aveva sempre abitato, forse poteva sapere qualcosa. Faceva per lei e per Clara le lumachelle col grasso di prosciutto, quando cuoceva il pane e rideva sempre con gli occhi brillanti dietro gli occhiali. Pensò proprio al viso della nonna quando rideva mentre passava fra le brutte casine bianche di marmo, senza guardare troppo. Poi lo vide, quel ragazzo, seduto proprio lì vicino a un’aiuola con tanti fiori. Somigliava in tutto alla fotografia nel marmo.
– Sei Ivan? – chiese e intanto sentiva il cuore battere forte come se volesse saltar fuori. Era più bello di come se lo ricordava, prima che avesse l’incidente con la moto e non aveva punto sangue addosso.
 A un certo momento lui disse:
– mi sa che il tuo cane te l’ha preso l’accalappiacani. –
Diceva la c quasi come fosse un g.
 –Non è mica un gane il mio, - disse Alice – è un cane.  E poi me l’avrebbero detto, perché ha la medaglia col nome e il telefono.
Era contenta di come gli era venuto di dirlo, senza impappinarsi, com’era capitato altre volte quando era stata sola con un ragazzo. In quei momenti le venivano in mente tante cose, ma non riusciva a dirle. Clara in quei casi parlava tanto e in modo molto stupido, con sorrisi e occhi stralunati. E poi, a pensarci, per lei era facile perché erano ragazzi normali, mentre quello che accadeva a lei era difficile a succedere. Riuscì a guardarlo fisso e cercò di vedere se aveva qualcosa di particolare, ma non c’era niente. Era proprio come tutti gli altri, ma aveva degli occhi scuri molto belli, forse appena tristi. Lei si ricordava bene la sua mamma che viso disperato aveva. Anche lui la guardava, sperò che la vedesse carina, più grande di quello che era. Se si fosse messa il vestito celeste, forse allora poteva darsi.
Poi lui disse:
 – Devo andare ora, ma se torni a trovarmi, mi fai piacere. – Alice pensò che lo voleva rivedere, ma non lì, lì non sarebbe tornata volentieri. Meglio in un bel prato dove avrebbero potuto passeggiare mangiando due gelati portati da lei e chiacchierare.
 – Non puoi venire fuori di qui? – chiese.
- No, non posso – rispose lui. Aveva tirato fuori un coltellino con cui scalzava la terra intorno ai fiori. – I fiori sono brutti – disse – non mi sono mai piaciuti e questo posto non mi piace.
-Lo so perché – sussurrò Alice – perché vorresti tornare vivo, vero? –
 - Già, ma non si può –
 -Nemmeno se si potesse fare un baratto con Pillo?
 Era brutto pensare che Pillo avrebbe dovuto morire per poter far tornare vivo Ivan, ma le era venuto di dirlo così, senza pensare. Forse perché lui avesse un pensiero gentile e riconoscente verso di lei.
 – Chissà – rispose lui – non so se si può perché il tuo Pillo è un cane. Vai – disse con voce più amichevole – ci vediamo domani, se vuoi. Ne parliamo.
 Mentre usciva dal cancello di ferro, Alice pensò che forse lui era ancora lì a guardarla. Camminò tutta diritta, sentendo la treccia che le batteva sulla schiena. Certo era una pettinatura proprio da bambina, la nonna doveva smetterla di farle fare la treccia. Ma improvvisamente, mentre si sforzava di muovere le gambe che sembravano irrigidite ed era come nei brutti sogni che non si riesce ad andare avanti, mentre si cammina, sentì che no, non voleva crescere, voleva proprio restare così per giocare e correre, non diventare grande come Clara e le sue amiche. E avere la nonna vicina che la guardava e sapeva tutto, mentre le ravviava i capelli con la mano. Cominciò a correre, la strada prendeva a salire, la macchia si diradava e la luce del sole formava chiazze sempre più grandi sul sentiero. Vide i tetti delle case spuntare là in cima, fra le lacrime che cominciavano a scorrere giù e arrivavano in bocca col loro strano sapore pungente, perché lei non si meritava più che Pillo ritornasse salvo, ma ora era pentita e non poteva neanche pensare a una cosa così brutta. Ivan, che certo sapeva tutto, avrebbe capito che non era bugiarda e cattiva.

PAOLA GALLI  Un'identità intermedia Tufani ed. pag. 53 (il decimo dei 17 racconti brevi).

 


Nessun commento:

Posta un commento