lunedì 29 gennaio 2007

 Dante a teatro


SAPIA

MERCOLEDI' 7 FEBBRAIO 2007  al Circolo Isolotto di Via Maccari, ore 21,

 IL TEATRO DEL TREBBO

di Toni Comello

presenta

IL XIII CANTO DEL PURGATORIO


Esplorazione Dantesca


  Purgatorio XIII


Giunti alla sommità della gradinata, Dante e Virgilio si trovano nel secondo girone, ove si espia la colpa dell’invidia. Esso è di circonferenza inferiore rispetto al primo e non vi compaiono né bassorilievi né disegni. Al termine dell’invocazione di Virgilio al sole, i due poeti vedono venirsi incontro volando alcuni spiriti che, senza fermarsi, pronunciano, ciascuno, frasi diverse. Il primo allude all’episodio delle nozze di Cana, il secondo si presenta come Oreste, un terzo infine parafrasa un versetto di Matteo: sono, secondo la spiegazione di Virgilio, in quanto esempi di umiltà, moniti contro il peccato dell’invidia. 

 Sedute lungo la parete rocciosa, Dante vede poi delle anime coperte di mantelli di panno ruvido e dello stesso colore livido della pietra, l’una appoggiata all’altra e tutte alla roccia, simili ai ciechi seduti vicino alle chiese a chiedere l’elemosina. Esse hanno inoltre le palpebre cucite con un fil di ferro. Il poeta, commosso da quella vista, si rivolge agli espiandi chiedendo se tra loro vi sia qualche italiano. Una gli risponde e comincia così il dialogo tra il poeta e la senese Sapia, zia di Provenzano Salvani e ascesa in Purgatorio grazie alle preghiere del francescano Pier Pettinaio: il canto si chiude con una profezia di quello spirito circa alcune fallimentari iniziative intraprese dalla sua città.

 

SAPIA


Sapia era una nobile Senese che viveva in via Montanini, a Siena.

Aveva gli occhi e i capelli castani, una carnagione rosea, un naso a patata, una bocca piccola,di statura non era molto alta ed era snella.

Sapia provava invidia per la felicità degli altri e infatti nella "Divina Commedia" fu messa nel purgatorio, nel girone degli invidiosi, dal poeta Dante Alighieri.

Mentre si svolgeva la battaglia di Colle fra i Senesi e i Fiorentini Sapia salì su una torre e pregò che i Senesi perdessero, infatti fu così.

Nel purgatorio, Sapia incontrò Dante e gli disse che aveva usato la sua intelligenza nel modo sbagliato. Sapia venne cacciata da Siena ma grazie alle preghiere di un uomo buono riuscì a salvare la sua anima.


La battaglia di Colle


La lotta tra guelfi e ghibellini coinvolse a lungo anche Colle, dove il popolo guelfo sin dal 1267 era riuscito a cacciare i ghibellini, gravitando più verso la guelfa Firenze che non la Siena ghibellina.

Nel 1268 il Connestabile di Francia Giovanni Britaud ed i numerosi fuoriusciti guelfi da Siena avevano fatto di Colle di Val d'Elsa il centro di raccolta delle forze guelfe, grazie alla sua posizione avanzata nel territorio senese, che abilmente sfruttavano per cavalcate e devastazioni improvvise sin sotto le mura della città di Siena.

Da questa situazione il condottiero senese Provenzano Salvani, trionfatore nel 1260 della battaglia di Montaperti contro i fiorentini, decise di tentare un'azione militare per espugnare la città di Colle.

  Il 15 giugno 1269, il Consiglio Generale di Firenze, riunitosi d'urgenza alla notizia dell'avvicinarsi delle milizie ghibelline a Colle, fece bandire che i combattenti di tre sestrieri si trovassero "a candela accesa", ossia all'alba, pronti a partire alla volta dell'alleata Colle.

Dal lato guelfo si trovavano schierati 400 cavalieri francesi del Britaud, 200 fiorentini di Neri de' Bardi e circa 200 tra colligiani e senesi fuoriusciti, oltre a qualche centinaio di fanti colligiani, tutti comandati dal Britaud.

Dal lato senese, 1400 cavalieri ed 8.000 fanti al comando di Provenzano Salvani, speravano in una facile vittoria, da ottenersi però prima che i rinforzi fiorentini arrivassero in città.

 

Lunedì 17 giugno 1269, durante uno spostamento dell'accampamento delle forze senesi dalla Badia di Spugna verso probabilmente Gracciano, le forze guelfe con mossa audace, ma anche avventata data la disparità delle forze in campo, attaccarono l'esercito ghibellino, dietro la bandiera guelfa portata da messer Aldobrandino de' Pazzi "per l'onore di Dio e per la vittoria di Firenze".

Il combattimento fu breve, ma cruento.

In pochi, e fra questi Provenzano Salvani, si opposero con le armi nel fuggi fuggi generale delle forze senesi prese dal panico, che lasciarono sul campo circa mille morti e 1644 feriti.

 Tutto l'accampamento senese fu distrutto e le loro insegne e quelle dei tedeschi trascinate per terra, mentre lo stesso Provenzano Salvani fu catturato ed ucciso da un fuoriuscito senese, Regolino Tolomei, e la sua testa, staccata dal busto ed infissa sopra una picca, fu esposta sulle mura di Colle.Finiva così il predominio ghibellino, ottenuto dopo la battaglia di Montaperti, ed iniziava quello definitivo della guelfa Firenze.

 Dante Alighieri, nel canto XIII del Purgatorio, nel secondo girone dell'invidia, così per bocca di madonna Sapia riassume la battaglia di Colle:


Tra l'altre vidi un'ombra ch'aspettava

in vista; e se volesse alcun dir `Come?',

lo mento a guisa d'orbo in sù levava.


«Spirto», diss' io, «che per salir ti dome,

se tu se' quelli che mi rispondesti,

fammiti conto o per luogo o per nome».


«Io fui sanese», rispuose, «e con questi

altri rimendo qui la vita ria,

lagrimando a colui che sé ne presti.


Savia non fui, avvegna che Sapìa

fossi chiamata, e fui de li altrui danni

più lieta assai che di ventura mia.


E perché tu non creda ch'io t'inganni,

odi s'i' fui, com' io ti dico, folle,

già discendendo l'arco d'i miei anni.


Eran li cittadin miei presso a Colle

in campo giunti co' loro avversari,

e io pregava Iddio di quel ch'e' volle.


Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari

passi di fuga; e veggendo la caccia,

letizia presi a tutte altre dispari,


tanto ch'io volsi in sù l'ardita faccia,

gridando a Dio: ``Omai più non ti temo!",

come fé 'l merlo per poca bonaccia.


Pace volli con Dio in su lo stremo

de la mia vita; e ancor non sarebbe

lo mio dover per penitenza scemo,


se ciò non fosse, ch'a memoria m'ebbe

Pier Pettinaio in sue sante orazioni,

a cui di me per caritate increbbe.


Ma tu chi se', che nostre condizioni

vai dimandando, e porti li occhi sciolti,

sì com' io credo, e spirando ragioni?».


«Li occhi», diss' io, «mi fieno ancor qui tolti,

ma picciol tempo, ché poca è l'offesa

fatta per esser con invidia vòlti.


Troppa è più la paura ond' è sospesa

l'anima mia del tormento di sotto,

che già lo 'ncarco di là giù mi pesa».


Ed ella a me: «Chi t'ha dunque condotto

qua sù tra noi, se giù ritornar credi?».

E io: «Costui ch'è meco e non fa motto.


E vivo sono; e però mi richiedi,

spirito eletto, se tu vuo' ch'i' mova

di là per te ancor li mortai piedi».


«Oh, questa è a udir sì cosa nuova»,

rispuose, «che gran segno è che Dio t'ami;

però col priego tuo talor mi giova.


E cheggioti, per quel che tu più brami,

se mai calchi la terra di Toscana,

che a' miei propinqui tu ben mi rinfami.


Tu li vedrai tra quella gente vana

che spera in Talamone, e perderagli

più di speranza ch'a trovar la Diana;


ma più vi perderanno li ammiragli».


Il canto completo e relativo commento


Trovato qui  


Presentazione di Toni Comello


PERCHE’ SAPIA?


Fin da lontane letture mi era sempre piaciuta mi aveva incuriosito toccato. I commenti dicevano: è figura minore, più che personaggio macchietta; ma, mi dicevo, le macchiette divertono sì ma poi passano, Sapìa invece non passa mi intriga non vuole lasciarmi ci dev’essere sotto qualcosa;

e cresceva la voglia di conoscerla meglio di saperne di più magari facendone uno spettacolo: c’era un’aria di donne di casa, di zie, di vecchie prozie, la signora Marietta, le cugine bizzòchere di via Odofredo. Mi domandavo: cos’è che mi attira? l’invidia no certo, anche se Sapìa invidiosa lo è, accovacciata con “questi altri” sulla pietra “livida” della seconda cornice del Purgatorio; l’invidia è gretta meschina incapace di agire, augura il male ma non ha né forza né passione per farlo, lo dice già il nome: in—video guardo contro, faccio il malocchio. per questo Dante agli invidiosi “cuce” le palpebre col “fil di ferro”;  allora, di Sapìa, mi prendeva che cosa?

Per lunghezza di parte Sapìa è una primattrice del Purgatorio: parla e cicaleccia e stride per 41 versi e una sillaba (complessivamente di versi Dante gliene dedica 64). Perché mai, stringato com’è, attentissimo a “lo fren de l’arte”, darebbe tanto spazio a una caricatura come un commediografo in cerca di applausi? viene un sospetto (sub—spìcere): che non ‘contro’ si debba guardare ma ‘sottò’, e guardando sotto si trova! Sapìa si rivela per quello che è: un grande nodo sentimentale e psicologico con implicazionj più vaste, politiche, e riverberi sanguinosi; nei suoi violenti rapporti familiari noi vediamo in controluce, trasposti, gli atroci rapporti di Dante con Firenze madre “noverca”, le tremende lotte di parte che spaccano le famiglie e inferociscono anche le donne. Sapìa diventa così il correlativo simbolico di Siena la sua città, e l’odio di Sapìa per Provenzano suo nipote è parente dell’odio di Firenze per Dante: odio fino a volerne la morte.

E’ un grande nodo ‘cucito’ nascosto sotto le apparenze di una caricatura. Sapìa è incartonata dall’invidia (come la sua città “vana” che cerca “Diàne” inesistenti e “Talamoni” mortiferi) povero “merlo” sciocco nel freddo più acuto dell’inverno, lei che avrebbe voluto essere “sparvier grifagno” e non c era riuscita. Personaggio ornitologico, era salita 18 di giugno del 1269 sulle mura di un castello e lì invocando strage e morte si era creduta, la “folle”, complice anzi padrona di Dio.

Ora è qui vecchia cieca elemosinante e se la interroghi paziente lei scioglie il suo nodo e ti rivelerà il suo segreto come ha già fatto una volta in punto di morte ‘scucendosi’ con l’umile terziario francescano Pier Pettinaio da Campi.

LA STORIA DI SAPIA

Siena nel’ ‘200 una città sui monti isolata rossa di crete sitibonda senz acqua e la cerca nel fiume sotterraneo e inesistente, della mitica Diana; il porto di Talamone~ malcomprato per  “vani” commerci falliti, nella Maremmà malarica, che ogni libecciata rinsabbia.

4 settembre 1260: battaglia di Montaperti, i ghibellini sanesi alleati ai cavalieri tedeschi di Manfredi re di Sicilia sbaragliano la lega guelfa toscana: “lo strazio e’l grande scempio I che fece l’Arbia colorata in rosso”.

20 febbraio 1266: battaglia di Benevento, Manfredi è sconfitto e ucciso (“in co’ del ponte”) dal francese Carlo d’Angiò che il papa Clemente IV chiama a metter fine al potere degli Svevi in Italia;

8 giugno 1269: battaglia di Colle Vai d’Elsa, i Sanesi con a capo Provenzan Salvani’ sono disfatti dai Fiorentini: l;000 i morti, l;500 i prigioni (“e veggendo la caccia.”):  è  l’inizio della decadenza di Siena (“Or fu giammai / gente sì vana come la sanese?”).

In Siena una donna: Sapìa (sàpio: ho sapore, ho sapere, sono “savia’ ) nata nel 1210 dalla potente famiglia gibellina dei Salvani, sposa a Ghinibaldo nella famiglia guelfa dei Saracini; madre di femmine Sapìa ha un nipote, figlio di fratello: Provenzano, forte ambizioso superbo (“presuntuoso I a recar Siena tutta a le sue mani”); la zia ne è presa e orgogliosa.

1267: Ghinibaldo è richiesto podestà cli Colle Vai d’Elsa.  Provenzano si oppone. Sapìa "vana” come la sua città, ‘priva del vanto di first lady di Colle, stravolge in odio l’amore e quando alla battaglia di Colle Provenzano viene preso, decapitato, la testa portata su una picca a ludibrio nel “campo”, Sapìa preda d’odio stravolto esulta e bestemmia Dio.

In punto di morte si pente: si confida e si ‘scuce’ con Pier Pettinaio umile venditore di pettini a Siena in fama di santità, e Dio la perdona.

Dante la trova cieca e mendicante fra gli altri invidiosi sulla seconda cornice del Purgatorio; anche Provenzano è in Purgatorio, nella prima cornice, dei superbi, subito sotto Sapìa; gira muto “sanza riposo” “rannicchiato a terra” dal macigno che gli “corna la cervice”; nel pieno della potenza, “quando vivea più glorioso”, offrì tutto il suo avere per un amico che Carlo d’Angiò teneva a riscatto e non bastando si pose a elemosinare per lui a Siena nella piazza del Campo: il superbo si é fatto eroe dell’umiltà.

Consanguinei divisi dall’odio ravvicinati dalla giustizia e dalla clemenza sono qui una cieca e ferma l’altro muto e in continuo moto a scontare ‘il selvaggio dolore di essere uomini’

Toni Comello

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