sabato 5 febbraio 2005

 Policlinico delle Torri Gemelle

Omelia di Carolus Magnus de Polonia

Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. Gesù disse loro: “Vedete tutte queste cose? In verità vi dico, non resterà qui pietra su pietra che non venga diroccata”.
 Sedutosi poi sul monte degli Ulivi, i suoi discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: “Dicci quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”.
 Gesù rispose: “Guardate che nessuno vi inganni; molti verranno nel mio nome, dicendo: Io sono il Cristo, e trarranno molti in inganno. Sentirete poi parlare di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi; è necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine. Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi; ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori. Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvo. Frattanto questo annuncio del mondo nuovo sarà diffuso in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine.
 Matteo cap. 24

Il brano di cui sopra è un modo di esprimersi molto lontano dalla nostra capacità di comprensione. Va visto nel contesto storico in cui è stato scritto. Forse così è possibile trovarvi un messaggio di sapienza valido per noi oggi.
Chi ha scritto il Vangelo di Marco probabilmente si riferiva alla distruzione di Gerusalemme da parte dell’esercito romano nel 70 dopo Cristo, dopo un lungo assedio durato quasi un anno. La città fu prima saccheggiata e poi letteralmente rasa al suolo. Migliaia di persone furono  massacrate. Il tempio distrutto. Fu la risposta dell’impero a una ribellione generalizzata del popolo ebreo scoppiata quattro anni avanti, nel 66. Prima di Gerusalemme tutte le città e i villaggi della Palestina erano stati distrutti. Gerusalemme si era riempita di profughi. Per questo il massacro fu immane.
I primi cristiani furono presi fra due fuochi. Anzi tre. Erano perseguitati per il loro pacifismo dagli ebrei ribelli armati, gli zeloti, i guerriglieri si direbbe oggi, quelli che dirigevano la rivolta. Ma i cristiani erano anche malvisti dal partito dei farisei, i moderati si direbbe oggi, perché i cristiani era sì pacifisti ma radicali, contrari al compromesso con l’impero, mentre i farisei avrebbero voluto cercare una via di compromesso con i romani. Infine i cristiani erano considerati dai romani come la fazione degli ebrei più pericolosa. Il loro radicalismo pacifista basato su un messianismo nonviolento poteva infiammare la rivolta popolare più di quello che non sapessero fare gli zeloti-guerriglieri. Contro la ribellione armata i romani avevano armi a quel tempo imbattibili. Ma contro la ribellione sorda del messianismo pacifista si sentivano impotenti.
Anche noi, come i primi cristiani, abbiamo le nostre apocalissi. Ci servono motivi per continuare a sperare. Forse il pacifismo radicale dei primi cristiani ci può dare qualche spunto di speranza.

Oggi parlerò dell’apocalisse dello tsunami nel sudest asiatico. ... La tragedia vissuta da milioni di persone ha riempito giornali e televisioni fino a che faceva audience. Gradualmente è passata in secondo ordine. ... Il silenzio sulla tragedia si deve anche al bisogno di creare il buio intorno alle tre grandi questioni che restano aperte.
Prima questione. La ricostruzione deve seguire le leggi inesorabili del mercato. Quelle stesse leggi che hanno reso quei paradisi turistici fragilissimi di fronte alla violenza dello tsunami. Si ricostruisce preparando il prossimo disastro. Meno se ne parla meglio si traffica.
Seconda questione. Il rapporto fra il terribile terremoto che ha prodotto poi il maremoto e l’aggressione al delicatissimo equilibrio della natura attraverso imponenti esplosioni sottomarine alla ricerca di petrolio e gas e attraverso la stessa estrazione indiscriminata di questi elementi. Anche a questo proposito, timide ammissioni su cui è bene che cada il silenzio.
Terza questione. Il nostro rapporto malato con la natura, con la vita e con Dio stesso fatto affiorare dalla sensazione di angoscia che ci ha preso di fronte alla immane tragedia. Anche questa questione va risepolta nel profondo, annegata nelle parti oscure della nostra coscienza. Perché se ci convinciamo che il nostro rapporto con la natura, con la vita e con Dio è malato allora nasce il bisogno di guarirlo. E guarire questi aspetti così intimi della nostra esistenza può significare mettere in crisi gli ordinamenti su cui si fonda la convivenza a tutti i livelli.
Su questo una breve riflessione.
Di fronte all’ “apocalisse” molti di noi hanno immediatamente provato come un senso di ostilità verso “madre natura”. L’abbiamo sentita nemica. Ci sono gravi responsabilità umane nel disastro.
Detto questo, però, il problema della distruttività della natura resta. Chi crede in Dio “creatore onnipotente” scioglie in lui il fondo del problema. Il mistero di Dio tappa ogni buco nero della razionalità impotente. Da molto tempo qui - fuori da quelle mura - abbiamo messo in discussione l’onnipotenza divina. Mi sento in compagnia non solo di tanta gente comune, la gente della strada a cui quando ho potuto mi sono accompaganto, la più saggia, ma sono anche in compagnia di una crema di teologi. Ad esempio Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo evangelico impiccato nel campo di sterminio di Flossemburg a causa della sua opposizione al nazismo fino a cospirare contro Hitler. Durante la prigionia contestualizza con forza nuova l’interrogativo cruciale che rimbalza da sempre nei secoli: dov’è Dio nell’orrore dei campi di sterminio? Giunge così a negare l’onnipotenza divina e a immaginare una società umana che vive e si organizza nella piena laicità “come se Dio non ci fosse”.
Ma che Dio è un essere impotente? Non è come negare l’esistenza di Dio? O forse no?
Ernesto Balducci giunge a far propria la famosa implorazione del mistico medioevale Eckardt, teologo domenicano, che nel XIII-XIV secolo invitava a liberarsi dalla onnipotenza divina: «Io prego che Dio mi liberi di Dio».
Ma dopo che Dio, o la nostra razionalità, a piacere, ci ha liberato da Dio, resta il problema della distruttività della natura. Chi è questa terra. questo pulviscolo, vagante nello spazio forse infinito, che genera la vita con tanto amore e la schiaccia con così inaudita ferocia? E chi siamo noi suoi figli fatti della sua stessa pasta?
Forse la riflessione su Dio va rivolta anche alla natura.
La percezione che abbiamo di Gaia è distorta, direi quasi malata. O forse meglio sarebbe dire mitica.
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Ci può esser di aiuto avvicinare l’esperienza di Pierre Teilard de Chardin. gesuita, teologo con propensione al misticismo, grande scienziato, geologo e paleontologo. Professore all’Istituto Cattolico di Parigi, poi ricercatore in Cina e quindi negli Stati Uniti dove è morto nel 1955. Gli fu proibito dai miei antecessori di pubblicare gli scritti teologici e dopo la morte furono condannate le opere pubblicate postume. L’accusa era di scarsa chiarezza teologica, in sostanza di panteismo e di materialismo. La sua intuizione di fondo sembra essere il “muoversi verso”, cioè la trasformazione finalizzata. Attraverso la sua indagine di rigore scientifico sulla evoluzione biologica giunge alla convinzione che la Biosfera tende alla coscienza, cioè si evolve verso la Noosfera. Ma ciò non avviene perché già all’inizio c’è un ordine precostituito. L’evoluzione non segue una linea ben individuabile, si muove anche a tentoni, a strappi e a impennate inspiegabili. L’ordine è nel futuro, non nel passato: cioè va costruito. L’Universo si dipana nella libertà e nell’autonomia. E sono precisamente questi valori di trasformazione che costituiscono il compito umano di “costruire la Terra”. Nel 1919 egli esplode in un mistico “Inno alla materia”:
Benedetta sii tu, aspra Materia … pericolosa Materia, mare violento, indomabile passione, tu che ci divori se non t'incateniamo. …Per raggiungerti, o Materia, bisogna che, partiti da un contatto universale con tutto ciò che, quaggiù, si muove, sentiamo via via svanire nelle nostre mani le forme particolari di tutto ciò che stringiamo, sino a rimanere alle prese con la sola essenza di tutte le consistenze e di tutte le unioni. Se vogliamo possederti, bisogna che ti sublimiamo nel dolore dopo averti voluttuosamente stretta tra le nostre braccia. O Materia, tu regni sulle vette serene ove i santi pensano di evitarti. …Portami su, o Materia, attraverso lo sforzo, la separazione e la morte, portami dove sarà finalmente possibile abbracciare castamente 1'Universo”.
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E siamo al dunque finale. Oltre a guarire la percezione di Gaia, abbiamo bisogno contestualmente di guarire anche la nostra malata percezione del rapporto fra vita e morte. Noi percepiamo la morte come separata dalla vita, anzi contrapposta alla vita. In particolare il cristianesimo ci ha abituati se non obbligati fin da piccoli a considerare la morte come punizione per il peccato: “a causa di un solo uomo (Adamo) il peccato è entrato nel mondo e col peccato la morte e la morte si è estesa a tutti perché tutti hanno peccato” (Lettera ai Romani di Paolo). E la Chiesa indefettibile assicura la vita eterna a chi si affida al suo abbraccio. E nel mondo secolarizzato la funzione di esorcizzare la morte è assolta da altre grandi costruzioni sociali fra cui non ultime il danaro e le strutture militari. E non è forse una tale assolutizzazione della vita e la separazione fra vita e morte che rende tanto aggressivo l “ordine” mondiale in cui viviamo? Chi s’intende di psicoanalisi potrebbe aiutarci.
Mentre portiamo avanti ogni giorno il nostro impegno politico e sociale per la giustizia e la pace, contro la guerra, al tempo stesso il nostro pacifismo ci deve portare oltre la dimensione socio-politica della lotta.
Assumere in noi stessi e diffondere questa cultura della vita potrebbe essere indispensabile per combattere la violenza, anche quella contro la natura, e la guerra e per affrontare un futuro incerto nella piena consapevolezza della nostra vulnerabilità e finitezza.

Ho approfittato del momento in cui ero fuori dallo SCV, lontano da Sedano, non visto da Vaiolo (Laiolo?), libero dal Ramarro. Ho sognato la mia gemella com'era ai tempi dell'imbianchino, si chiama Polonia, ho messo a dormire l'Alzeimer e finalmente son riuscito a dire quello che ho detto.
Sono ancora qui tra i Gemelli, ma domani, domenica 6 febbraio 2005, mi troverete travestito da prete scomodo, insieme alle pie donne Adriana, Fiorella, Benedetta, Paola, sulle rive dell'Arno, presso un
Isolotto, alle 11 per chi può - o in piazza o dentro una baracca - a due passi dai giardini di Castelgandolfo che lì si chiamano Cascine.
Ho invitato due nunzi apostolici clandestini: Marco, un medico senza frontiere, e Gregorio, quello che vi ha scritto da Porto  Alegre.
Adesso devo interrompere perché c'ho un ratzinger in gola che mi toglie il fiato e mi impedisce di respirare.
PS. Quello che vedrete in TV domenica è un robot mediatico, l'avete capito.


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