mercoledì 11 gennaio 2012

Ricordando Vassem

Resistere per esistere
ricordando Vassem
Quando sulla nostra stampa si parla o per lo meno si parlava fino a qualche tempo fa (ora sull'argomento c'è il silenzio) di palestinesi, le immagini che venivano fatte apparire erano foto di giovani e ragazzi scalmanati che gettavano pietre, ogni tanto quelle foto terribili di autobus o bar saltati in aria per colpa di un kamikaze (anche donna) e per completare il quadro, le foto di una o due città israeliane dove erano caduti, producendo danni, i missili di Hamas? E gli ebrei? Li si poteva pensare come più o meno distinti signori desiderosi solo di vivere in pace sulla terra che, dopo tanti secoli di persecuzione, erano riusciti ad avere. E come l'avevano abbellita questa terra in parte arida: giardini, orti lussureggianti, grandi case di pietra bianca con i tetti rossi, ideate da architetti europei dotati di una solida preparazione urbanistica. E guardate invece le affollate città arabe piene di traffico disordinato, di rumori e anche di una quantità eccessiva di angoli sporchi e trasandati.
E allora val la pena di muoversi per andare a vedere questo contrasto in una terra su cui per migliaia di anni sono vissuti insieme pacificamente pastori e contadini, ebrei e arabi, entrambi appartenenti a una varietà umana (voglio evitare la parola razza) cosiddetta semita. E così siamo andati in Palestina e  per quanto ci si aspettasse una situazione niente affatto rassicurante, abbiam dovuto, forse anche a malincuore, perché si tratta di sentimenti che incupiscono e rendono più pesante la vita, ripeto, abbiamo dovuto far posto a un sentimento amaro e ostile che assomiglia forse all' odio, certamente al disprezzo, quando abbiamo visto sulla strada che porta a una scuoletta di campagna un gruppo di bambini protetti da soldati e da volontari, perché i coloni israeliani, spesso anche donne e bambini, non scherzano nel tirare sassi e calci nelle gambe. E non scherzano neppure nel gettare dall'alto immondizia nelle strade dei palestinesi tanto che le buie strade tortuose che sono i loro suq sono spesso protette da reti messe dai soliti soldati. Succede così che i soldati sono meglio dei civili, quando questi di civile non hanno proprio più nulla e a noi che viviamo in città tranquille, certo un po' inquinate dal traffico, ma con le vie che s'incrociano ad angolo retto, tutte animate da bei negozi illuminati, cosa è sembrata Hebron, una città fra le più antiche, se non un campo di concentramento chiuso qua e là da filo spinato e da muri che hanno mozzato le strade, da inferriate dietro cui sono prigioniere case e persone, con molte vie un tempo animate da negozi pieni di colori ora ridotte a una sequela di porte di ferro (qui il legno non si usa) sprangate. Ma come fanno questi coloni europei che hanno abitato belle città d'Europa a vivere in questo orrendo incastro di strade, di fili di ferro e di muri che bloccano all'improvviso il passaggio, dove sono allo stesso tempo assedianti e assediati? E' vita questa per loro? E' sufficiente sentirsi popolo eletto per cancellare la tristezza di una vita così? Del resto foto e documentari li mostrano aggressivi e urlanti, sicuri di non dover cedere davanti a quell'umanità di serie B sul collo della quale posano pesantemente i piedi. E intanto sanno che intorno alla città assediata e assetata, perché loro si appropriano dell'acqua per quanto possono, già sta crescendo una cintura di insediamenti che finirà per soffocare il nemico insopportabile. Perché questo è molto evidente: gli arabi e i palestinesi in particolare sono appunto una razza inferiore ed è giusto che se ne vadano via e si riuniscano agli altri arabi a cui somigliano.
Le cose che abbiamo visto sono anche molte altre e compaiono in documentari che mostrano molto efficacemente aspetti durissimi del quotidiano, dalle lunghe soste ai ceck-point per poter andare al posto di lavoro, alla fatica necessaria per riuscire a raccogliere le olive della propria terra, cosa che solo la presenza dei soldati (ancora una volta) rende possibile, sotto gli insulti e le grida isteriche di donne e uomini che preferirebbero farle marcire tutte piuttosto che lasciarle a quei cani di palestinesi.
Nel frattempo che fanno quei cani di palestinesi? Devo dire che ci siamo quasi stupiti di come li abbiamo visti al momento. Sembra che il tempo delle intifade sia passato, anche se a noi la situazione è sembrata esplosiva, con l’avanzare continuo degli insediamenti che si diffondono sul territorio della Cisgiordania come bubboni di una peste nera. La parola d’ordine che abbiamo riscontrato dovunque è: resistenza senza le armi, “resistere per esistere”. Si resiste ricostruendo (anche per tre volte!) case distrutte che forse saranno di nuovo abbattute, lavorando i campi sotto le ingiurie dei vicini coloni, liberando i dintorni della casa dall’immondizia che è stata scaricata lì vicino. Ho davanti una serie di persone, di visi giovani e determinati ma sereni, qualche volta perfino sorridenti, come il giovane padre del villaggio di Attuani che ci raccontava mentre il bimbetto di due anni giocava a nascondino tra le sue gambe. O il giovane di Bil’in a cui piaceva molto parlare e rideva divertito mentre raccontava l’episodio quasi comico di come aveva rischiato la vita, durante la lotta a oltranza per fare arretrare il muro rubaterra a protezione di un insediamento di coloni sorto nuovo di zecca davanti a loro. E’ in questo villaggio che sono morti in seguito allo scoppio dei lacrimogeni due giovani, fratello e sorella, ed è sempre lì che, sotto la pioggia dei lacrimogeni è stata posta la semplice tomba che ricorda la morte di quel giovane, Vassem, di cui abbiamo trovato l’immagine in varie case, accanto a molte altre foto di giovani uccisi, i martiri, come dicono loro. Tra questi non c’è nessun kamikaze. E’ stato per noi molto educativo l’incontro con queste persone che nella situazione drammatica in cui si trovano hanno la forza di praticare questa scelta di compostezza e maturità che è la resistenza non violenta.
Ci sarà una realtà europea che voglia soffermarsi a fare una valutazione di questa situazione secondo criteri umani? Chi ha accettato la fine del colonialismo, chi ha considerato positiva la fine dell’apartheid in Africa in nome del rispetto dei diritti umani non ha scampo, perché nei territori occupati molti diritti vengono violati, prima di tutto quello della dignità della persone.
E noi che siamo stati testimoni diretti, per nostra volontà, di questa situazione, che cosa possiamo fare ora?
(Paola)

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