venerdì 8 agosto 2003

La battaglia di Campaldino vista da Canaccini


 


Il Casentino tra poesia e storia


 









Itinerario dantesco



Seconda Appendice al cap. IV°



La battaglia di Campaldino vista da Canaccini


Gli aretini radunarono un poderoso esercito per fronteggiare il nemico, ma pur coinvolgendo numerosi alleati in uno sforzo enorme, non riuscirono ad eguagliare lo schieramento guelfo per quella che doveva essere la battaglia decisiva. I Ghibellini disponevano in campo di circa 8000 fanti,di cui pochi armati con balestre ed archi, e di 800 cavalieri, troppo pochi per fronteggiare la cavalleria pesante guelfa.
L'11 giugno di quell’anno segnò una battuta d’arresto nella vita della comunità aretina. Una pausa segnata dal sangue, dalla morte di oltre 1700 uomini, dalla distruzione del contado, dei villaggi,dalla morte di tutti i Capitani della città e della sua guida spirituale, il suo Vescovo.
Già ai tempi della battaglia, l’evento dovette generate una serie di episodi che esaltavano o denigravano fatti d'arme e personaggi. Nacquero così, come sempre accade, eroi e vigliacchi.
Il nostro Buonconte che probabilmente ad Arezzo aveva lasciato la sua Giovanna e la sua figlioletta si dice che prima dello scontro sia andato ad esaminare, su consiglio del Vescovo, lo schieramento avversario. Tornato con pessime notizie, sconsigliò l’attacco, ma di tutta risposta forse miope ma non vile, gli rispose che non era degno di portare il nome della sua nobile casata. Al che Buonconte replicò che dalla pugna nessuno dei due sarebbe uscito vivo.
E così accadde.
Dinanzi allo schieramento ghibellino si sistemarono dodici valenti uomini d’arme, che si facevano chiamare li paladini. La scelta cadde tra le famiglie più nobili ma non si fa menzione diretta di alcuno. Non possiamo far altro che elencare alcune di quelle nobili casate che persero i loro figli in quell'afoso sabato di giugno: i Pazzi del Valdarno, i Montefeltro, gli Ubertini, i Fifanti, gli Uberti,i Grifoni e gli Abati, i conti da Gangalandi e gli Scolari.
Buonconte da Montefeltro era tra i feditori, cavalieri destinati a sfondare con un urto violentissimo la schiera dei Guelfi. Lo seguivano suo fratello Loccio e le sue truppe appiedate, tutti sotto l’insegna dello stendardo a bande azzurro e oro. Accanto a Buonconte, sempre tra i feditori, doveva trovarsi il suo amico Guglielmo de’ Pazzi, vincitori assieme alle Giostre al Toppo appena un anno prima. Dopo aver gridato tutti "San Donato cavaliere!" i 600 cavalieri ghibellini si gettarono al galoppo contro il nemico, sfondando la prima linea di cavalleria. Dietro, a corsa, seguivano gli 8000 fanti. La battaglia fu aspra e dura, ma decisive furono le due ali di palvesari guelfi armati di lancia lunga e balestre che rovesciarono sul nemico un tale carico di ferraglia da chiuderlo ben presto in una stretta mortale. Tutti i cavalieri si trovarono accerchiati e la loro forza d’urto ormai esaurita.


A questo punto il conte Guido Novello sarebbe dovuto intervenire con le sue riserve. Ma non si decise e la viltà prevalse sul valore, spingendolo a spronare il suo cavallo verso il castello di Poppi. Da lì assistette impotente alla disfatta degli Aretini di cui era Podestà.
Nella piana frattanto la battaglia infuriava e Corso Donati, che era stato nominato Capitano delle riserve lucchesi e pistoiesi, rovinò su un fianco dell’esercito ghibellino facendone strage.
La battaglia dei Ghibellini era perduta. Molti dei vessilliferi erano già stati uccisi e anche i paladini annientati.
E Buonconte?
Il giovane, strenuissimus Bonuscomes, impegnato sin dall’inizio nello scontro delle prime file era uno dei personaggi più in vista dello schieramento ghibellino e sarà stato di certo mira di numerosissimi attacchi sia da parte della cavalleria che da parte dei balestrieri che avranno riconosciuto la sua divisa. I Capitani guelfi avranno probabilmente indicato i comandanti avversari descrivendo l’arme del Vescovo, di Buonconte, di Guglielmino de’ Pazzi. Fatto sta che del corpo di Buonconte nulla si seppe al termine dello scontro. L’impietoso ufficio del riconoscimento dei caduti, da parte di congiunti o amici, contrastava con quello che poche ore prima si era consumato, quando "i villani non aveano pietà e gli ammazavano" ( Cronaca di Dino compagni).
Sulla fine del montefeltrano pesa, è inutile dirlo, il racconto che Dante ha intessuto nel V dei Purgatorio.
Numerose sono sorte le ipotesi attorno a questo struggente episodio. È probabile che all’indomani dello scontro, non sapendo più nulla di un capitano così in vista, siano nate delle leggende attorno alla figura di Buonconte; così come dovettero nascere attorno alla piana lugubre di Campaldino. evitata per anni, ricoperta da ossa e popolata fino ai giorni nostri da spettri.
Tutto il racconto sulla morte di Buonconte è però frutto dell’immaginario poetico di Dante. Sia lo Zingarelli che il Papini avanzarono addirittura che fosse stato lo stesso Dante ad aver ucciso Buonconte, ma nulla c’è a riprova di tale fantasiosa ipotesi. Interessante è invece quella proposta dal Vivaldi, il quale sottolinea come forse Buonconte, scampato alla strage, avesse tentato di salvare il proprio drappello spingendosi verso la vicina Bibbiena, per poi proseguire verso Arezzo o la stessa Montefeltro, come ipotizza il Franceschini. Ed è qui che nei pressi della ghibellina Bibbiena, ai suoi piedi scorre l’Archian rubesto, furono forse raggiunti dai Fiorentini e qui dovette accendersi un ulteriore scontro.
Comunque sia, il giovane montefeltrano trovò la morte in Casentino insieme a molti altri, illustri e non. E come tanti non ebbe probabilmente sepoltura.


(Federico Canaccini, Gli eroi di Campaldino, 11 giugno 1289 Scramasax ed.pgg 33,34)


Dopo la battaglia l'esercito fiorentino assediò Bibbiena, devastò le campagne e arrivò sino ad Arezzo, dove si esibì in sceneggiate di sfottimento fuori delle mura, ma senza tentare di espugnarla.

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