Il 9 è un autobus storico,
qui all’Isolotto di Firenze. Cinquant’anni fa esatti, quando La Pira consegnò mille appartamenti mille a istriani in fuga da Tito, a meridionali in fuga dalla miseria, a impiegati in fuga dai centri-sfrattati il 9 si affacciava arrancando nelle vicinanze, senza addentrarsi nelle nuove vie ancora in fase di costruzione e quando arrivava alla salita del Ponte alla Vittoria, in direzione del Centro, a volte gli stantuffi del motore avevano attacchi d’asma e bisognava scendere per dargli il fiato da respirare prima che espirasse. Poi, oltre il ponte, zona Porta a Prato, direzione stazione centrale la via filava liscia. Oggi è un lungo elegante serpente di 18 metri che sfreccia da Via Torcicoda, nuovo di fabbrica, elegante nelle sue maniglie rosse, particolarmente soddisfatto quando i giovani autisti, uomini e donne, che lo guidano mettono in mostra l’efficienza dei freni e la capacità di accelerazione che costringe noi barbebianche a non mollare di un attimo la presa delle maniglie, l’appoggio dei sostegni. In 8 minuti ci porta da Piazza Batoni a S.Maria Novella; o meglio ci portava; adesso possono passare anche 20 minuti; aspettiamo che la nuova riconfermata Amministrazione ci faccia intravedere la fine dei lavori stradali che rendono Firenze potenzialmente la Mecca dei podisti. Anche le biciclette di Ferrara qui farebbero fatica a mantenere la velocità media di crociera del caro vecchio intramontabile velocipede, così lo chiamano ancora i francesi:velò.
Con il seguente racconto surreale di Paola, compagna di vita, ispiratrice d’arte, fonte di serenità alleggerisco oggi il mio blog dall’ossessione sempre più incombente di questo nostro attuale capo del governo che, abbandonato dai più cari amici, si è messo a tirare il carro da solo. La strada è impervia, scoscesa, piena di curve; non basta il servofreno (Ah, la vecchia martinicca, voi giovani non l’avete mai vista, come non avete più visto un pagliaio!). Bisognerà saltare dal carro per l’opposto motivo per cui i vecchi isolottiani saltavano dal 9: loro per spingerlo e riprenderlo, noi per lasciarlo andare al suo destino, con il solo autista inguaribilmente uscito di senno.
Nella speranza di incrociare anche noi, per una volta, gli autisti dell’autobus n.9, come segue.
AUTOBUS DI PERIFERIA
Qualche volta succede che gli autobus, passino con molto ritardo alle fermate della periferia. La gente aspetta, si spazientisce, guarda i modelli esposti nella vetrina del negozio di abbigliamento, le scatole dei cioccolatini troppo grandi del bar in angolo e si scambia occhiate indignate.
Ma che fanno questi autisti? Ma dove si saranno cacciati? Io lo so dove s’infilano gli autisti dell’autobus numero 9, un serpentone lungo a due carrozze, nuovo, di un verde tenero e lucido, uno dei più belli della città. Lo so perché, incuriosito da queste lunghe e snervanti sparizioni, ho rifatto da me il percorso verso la periferia e ho scoperto che non è affatto vero quello che ci dicono e cioè che c’è una precisa fermata di capolinea e che tutto finisce lì. Sarebbe troppo semplice e in definitiva anche piuttosto deludente. In realtà l’autobus va molto al di là di quella fermata, s’inoltra nella piana, in mezzo alle fabbrichette di scarpe e di bidoni di plastica, oltrepassa il blocco bianco sporco dell’ASNU, poi corre via verso la collina spelacchiata che proprio per questo si chiama Calvana e arriva fin quasi alla città vicina. E allora? Non sapevo darmi ragione di tutto questo, capire perché non se ne sa nulla di questo percorso fuori città di cui gli autisti non dicono mai nulla. Mai che cerchino di giustificare i grandi ritardi, ma, se li guardi attentamente negli occhi, ti accorgi che c’è sotto qualcosa, un preciso segreto, che li potresti anche trattar male, non te lo diranno mai. Ma io sono un appassionato di segreti grandi e anche piccoli, ce la metto tutta per conoscerli perché non sopporto che la mia vita diventi grigia e piatta come quella di tanti, la maggior parte della gente, credo di poter dire. Gli eventi che interessano di solito, quelli che hanno una finalità precisa, che so, una partenza a un’ora stabilita, la spesa in un supermercato faraonico, un appuntamento di lavoro in un giorno qualsiasi oppure la visita a una mostra, un pranzo con gli amici, cento altre ne potrei dire, sono tutte cose che mi lasciano indifferente, di più, mi danno pena. Così sto sempre all’erta, in uno stato di attesa continua che succeda qualcosa di nuovo che mi ridia fiato, che mi faccia battere il cuore un po’ più rapido e mi stringa leggermente alla gola. A volte mi aspetto di svegliarmi con un viso diverso, vado allo specchio e niente.
Quando torno in città, dopo essere stato fuori, mi guardo in giro per vedere se le vie sono per caso un po’ cambiate, le chiese fuori posto, se c’è una bella statua nuova al posto di una che non m’era mai piaciuta. Lo stesso quando rientro in casa. Guardo se qualcuno ha portato un pacco di biscotti in cucina, una salsiccia in frigorifero, un libro interessante che io non abbia ancora letto sul comodino. E il fatto che questo non succede non mi toglie la voglia di continuare perché non saprei fare a meno dell’emozione che questo gioco mi comunica.
C’è un’altra cosa che mi coinvolge sempre e mi impedisce di annoiarmi, guardare bene la gente e cercar di capire cosa pensa, cosa vorrebbe dire al posto di quello che dice.
Anche questo è un aspetto del mistero, così mi piace chiamare questa specie di doppia realtà, una sotto gli occhi di tutti, l’altra che vive e respira dietro. E non è affatto vero che è difficile a percepirsi. Sta là sotto, se ti interessa saperla, se vuoi farlo. Spesso abbiamo troppa fretta e troppi stimoli esterni per capire davvero quanto è interessante la retrovita.
Ma, per tornare all’argomento, una mattina ho preso la Panda e sono andato anch’io laggiù nella piana. Oltrepassato il cavalcavia, è stato come inoltrarsi in un paese sconosciuto. La strada costeggiava il fiume, ma tutto intorno diventava un po’ più arido e polveroso, le case sparivano e anche la gente. Per un certo tratto mi sentivo ancora accompagnato dai blocchi bassi delle piccole fabbriche che occhieggiavano qua e là come funghi biancastri e malaticci. Poi finirono anche quelle. Anche il fiume mi sembrava diventato più brutto, scorreva piano, cosparso di larghe macchie biancastre di spurghi, chissà quante zanzare d’estate, ora nemmeno un’anatra selvatica, nemmeno una nutria. Talpe probabilmente ce n’erano parecchie infilate nelle buche che stavano sotto, quasi al pelo dell’acqua grigia. Provavo un po’ schifo a pensarci.
- Ma che ci viene a fare l’autobus qui – mi domandavo. A chi può servire questo percorso così fuori mano. Poi vidi la collinetta e l’autobus fermo proprio sotto.
Intorno c’era gente che parlava, rideva, si chiamava. Soprattutto bambini e ragazzi, vestiti come capita, con blusotti troppo larghi, calzoni adattati in qualche modo alla persona, che pareva si dessero un gran da fare. Mi avvicinai un po’ e vidi che erano dietro a dipingere l’autobus con vernici e pennelli. Sul fianco destro avevano dipinto dei fiori gialli immensi e un po’ sbilenchi, sul sinistro dei fiori rossi sotto un cielo con tanti soli. L’autista in un angolo, sotto un alberello stento, stava seduto a guardare e sembrava tranquillo.
Mi avvicinai.
- Vorrei capire – dissi – l’autobus arriva qui tutte le volte e succede sempre questa storia?-
- No di certo. Questa è la manutenzione straordinaria – rispose un po’ annoiato.
- E le altre volte? –
- Di tutto un po’-
- - Qualche volta qui ballano e cantano, si mangia qualcosa, a volte si parla e basta. Oppure mi aiutano a pulire la vettura. –
Lo guardavo e pensavo a come poteva essere così tranquillo di affidare l’autobus a quel gruppo di ragazzini cenciosi. Eppure le pitture erano belle, vivaci e comunicavano qualcosa, la voglia di vivere, direi, la bellezza delle cose. Ma quale bellezza, se lì di fiori non ce n’era uno, se le case sulla collinetta erano tutte baracche col tetto di bandone e coi cenci che sventolavano da tutte le parti.
- Ma voi autisti ci venite volentieri qui, l’avete scelto voi questo posto?-
- Non capisco il problema. – rispose lui guardandomi per la prima volta negli occhi.
- Lei ci sta volentieri nel casino di tutti i giorni, nei posti dove nessuno ti regala nulla e tu sei sotto pressione dalla mattina alla sera, scambiando poche parole a volte arrabbiate e ti butti giù la sera che sei proprio fatto?-
- Ma io c’ho i miei misteri da risolvere – risposi un po’ risentito. – Che crede –
- Beh, - rispose lui con un tono benevolo che mi fece sentir meglio – Allora vuol dire che non sta sempre a lavorare, a sbattersi per guadagnarsi da vivere, ma si diverte anche lei e magari senza dover pagare. Perché tutto si paga, presto anche l’aria buona per respirare dovremo comprarci, perché quella normale è diventata invivibile. E non ci sarà nemmeno più tanto tempo per dormire. Non ha visto che tutti quei grandi supermercati ora restano aperti anche la notte? –
Mi ero seduto accanto a lui sulla poca erba dell’argine.
- E le foglie, le piante – chiesi quasi come se riflettessi con me stesso – sopravvivranno o le faranno di plastica? –
- Bravo, e le macchine saranno così tante che faranno parcheggi perfino sui tetti delle case, rinforzati, si capisce. E i vestiti saranno di plastica anche loro. –
Masticavamo in silenzio, svogliati, guardando i ragazzini che avevano finito di sistemare l’autobus e parevano molto contenti.
- E quelli lassù – dissi a un certo punto, indicando le baracchette in cima alla collina – che ne ricavano di buono a stare fuori dal caderone? Non hanno casa, non hanno lavoro, le sembra un vita dignitosa?
- Nulla – rispose lui, alzando le spalle – quelli sono i paria, ma siccome non ne hanno coscienza e questo vuol dire proprio esser poveri fino in fondo, poveri da far pena, il doro desiderio è sedersi da Mc Donald e comprare le scarpe Nike per i loro figlioli. –
- E questo lo trova così incomprensibile? – azzardai – Lo trovo triste – rispose guardando fisso avanti a sé.
Concordavo, ma siccome non avevamo voglia di continuare a essere tristi, abbiamo guardato l’autobus che era proprio molto attraente coi suoi fiori colorati.
- I fiori – disse lui e aveva cambiato voce.
- Vede, è come se ci volessero impedire di farci prendere dallo sconforto, come se quei bambini volessero darci un messaggio positivo, che forse avrà qualche probabilità di aiutare qualcuno a inventare cose un po’ più decenti di quelle che ci tocca mandare giù ora. –
Poi si alzò, spolverandosi il fondo dei pantaloni e fece un cenno di saluto.
- Bisogna che vada, perché la gente a questo punto ha già aspettato abbastanza. –
- Non mi andava di risalire subito in macchina, anche perché ero inquieto e turbato da quello che avevo visto e sentito. Perciò volevo star solo. Scesi giù al fiume a guardare se c’erano le buche delle talpe. Così, a prima vista, non ne vidi, poi, guardando meglio, scorsi una famigliola intera, una bestia grossa con certi baffi lunghi e tre piccine che si rincorrevano vicino all’acqua. Mi parvero bellini, come sono tutti i cuccioli, bisognosi di essere protetti e rispettati come lo sono tutti gli animali.
Scritto da Paola e pubblicato con il suo permesso.
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