domenica 11 luglio 2004

Le nostre radici antiche II


La ricerca della felicità


Anche sulla paura della morte i versi lucreziani, fondati sulla concezione materialistica della dissoluzione dell’anima insieme col corpo, rappresentano una delle vie maestre con cui l’antichità cerca di consolare l’uomo per la sua mortalità:


La morte non è nulla per noi e non ci tocca per niente,
se la sostanza dell’anima ci appare mortale…
Quando cesseremo di esistere, dopo il divorzio dell’anima dal corpo,
la cui unione compone la nostra individualità,
nulla potrà più raggiungere i nostri sensi,
neppure il rimpianto dei bimbi
che correvano incontro ai nostri baci,
neppure le preoccupazioni per la sorte
del nostro cadavere, inumato o posto sul rogo
o lasciato in pasto alle fiere.



Al vecchio carico d’anni che non vuol morire si rivolge la natura personificata, ingiungendogli di cedere ad altri il suo posto: “Le cose si rinnovano una a spese dell’altra secondo un ordine obbligato…E’ necessaria materia nuova perché crescano le nuove generazioni…Gli esseri non cesseranno mai di nascere gli uni dagli altri. La vita non è stata concessa in proprietà a nessuno, a tutti in usufrutto.



Ancora, se la natura d'un tratto parlasse e a qualcuno di noi così facesse, in persona, questo rimprovero: "Che cosa, o mortale, ti preme tanto che indulgi oltremisura a penosi lamenti? Perché per la morte ti affliggi e piangi? Infatti, se ti è stata gradita la vita che hai trascorsa prima, né tutti i suoi beni, come accumulati in un vaso bucato, sono fluiti via e si sono dileguati senza che ne godessi, perché non ti ritiri, come un convitato sazio della vita, e non prendi, o stolto, di buon animo, un riposo sicuro?


Denique si vocem rerum natura repente.
mittat et hoc alicui nostrum sic increpet ipsa:
'quid tibi tanto operest, mortalis, quod nimis aegris
luctibus indulges? quid mortem congemis ac fles?
nam [si] grata fuit tibi vita ante acta priorque
et non omnia pertusum congesta quasi in vas
commoda perfluxere atque ingrata interiere;
cur non ut plenus vitae conviva recedis
aequo animoque capis securam, stulte, quietem?


Ma se tutti i godimenti che ti sono stati offerti, sono stati dissipati
e perduti, e la vita ti è in odio, perché cerchi di aggiungere ancora
q
uello che di nuovo andrà malamente perduto e tutto svanirà
senza profitto? Perché non poni piuttosto fine alla vita e al travaglio?
Infatti non c'è più nulla che io possa escogitare e scoprire
per te, che ti piaccia: tutte le cose sono sempre uguali.
Se il tuo corpo non è ancora sfatto dagli anni, né le membra
stremate languiscono, tuttavia tutte le cose restano uguali,
anche se tu dovessi vincere, continuando a vivere,
tutte le età, anzi perfino se tu non dovessi morire mai"; -
che cosa risponderemmo, se non che la natura intenta
un giusto processo e con le sue parole espone una causa vera?


sin ea quae fructus cumque es periere profusa
vitaque in offensost, cur amplius addere quaeris,
rursum quod pereat male et ingratum occidat omne,
non potius vitae finem facis atque laboris?
nam tibi praeterea quod machiner inveniamque,
quod placeat, nihil est; eadem sunt omnia semper.
si tibi non annis corpus iam marcet et artus
confecti languent, eadem tamen omnia restant,
omnia si perges vivendo vincere saecla,
atque etiam potius, si numquam sis moriturus',
quid respondemus, nisi iustam intendere litem
naturam et veram verbis exponere caus
am?
E quando ti dicono:
"Ora, ora mai più la casa ti accoglierà in letizia, né la sposa
ottima, né i dolci figli ti correranno incontro a contendersi
i primi baci, né invaderanno il tuo cuore di tacita dolcezza.
Non potrai essere uomo di prospere imprese, né sostegno
ai tuoi. A te misero dicono "un solo giorno
avverso tutti ha tolti i molti doni della vita".
Ma questo, a tale proposito, non aggiungono: "né più
il rimpianto di quelle cose ti accompagna e resta in te".
Se ciò vedessero chiaro con la mente e vi s'attenessero con le parole,
si scioglierebbero da grande angoscia e timore dell'animo.



E se ora un vecchio cadente si lagnasse e lamentasse
l'incombere della morte rattristandosi più del giusto,
non avrebbe essa ragione d'alzare la voce e rimbrottarlo con voce aspra?
"Via di qui con le tue lacrime, o uomo da baratro, e rattieni i lamenti.
Tutti i doni della vita hai già goduti e sei marcio.
Ma, perché sempre aneli a ciò che è lontano e disprezzi quanto è presente,
incompiuta ti è scivolata via, e senza profitto, la vita,
e inaspettatamente la morte sta dritta accosto al tuo capo
prima che tu possa andartene sazio e contento d'ogni cosa.
Ora, comunque, lascia tutte queste cose che non si confanno più alla tua età
e di buon animo, suvvia, cedi il posto ‹ad altri›: è necessario".



grandior hic vero si iam seniorque queratur
atque obitum lamentetur miser amplius aequo,
non merito inclamet magis et voce increpet acri:
'aufer abhinc lacrimas, baratre, et compesce querellas.
omnia perfunctus vitai praemia marces;
sed quia semper aves quod abest, praesentia temnis,
inperfecta tibi elapsast ingrataque vita,
et nec opinanti mors ad caput adstitit ante
quam satur ac plenus possis discedere rerum
.


Giusta, penso, sarebbe l'accusa, giusti i rimbrotti e gl'improperi.
Sempre infatti, scacciate dalle cose nuove, cedono il posto
le vecchie, ed è necessario che una cosa da altre si rinnovi;
né alcuno nel baratro del tenebroso Tartaro sprofonda.
Di materia c'è bisogno perché crescano le generazioni future;
che tutte, tuttavia, compiuta la loro vita, ti seguiranno;
e dunque non meno di te le generazioni son cadute prima, e cadranno.
Così le cose non cesseranno mai di nascere le une dalle altre,
e la vita a nessuno è data in proprietà, a tutti in usufrutto.



nunc aliena tua tamen aetate omnia mitte
aequo animoque, age dum, aliis concede nocesse est.
Cedit enim rerum novitate extrusa vetustas
semper, et ex aliis aliud reparare necessest.
Nec quisquam in baratrum nec Tartara deditur atra;
materies opus est, ut crescant postera saecla;
quae tamen omnia te vita perfuncta sequentur;
nec minus ergo ante haec quam tu cecidere cadentque.
sic aliud ex alio numquam desistet oriri
vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu.


Lucrezio, III, vv. 880 sgg.


1 commento:

  1. Meraviglioso! Grazie per avermi richiamato alla mente questi bei versi.

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