martedì 12 febbraio 2008

SAPIA



clicca sulla foto, per ricordare Toni.


"SAPIA"

personaggio ‘cucito’


ESPLORAZIONE DANTESCA

SUL CANTO XIII° DEL PURGATORIO


Sapìa Salvani Saracini è una donna divorata da un’ambizione impotente, che ha il nome di invidia. Invidia che genera odio. l’ambizione potente è invece quella di Provenzano Salvani, nipote di Sapìa. sono tutti e due in Purgatorio. Opere buone e preghiere d’altrui, hanno ottenuto loro la clemenza di Dio. Provenzano cammina muto, da 31 anni, sotto un macigno che gli “doma la cervice superba”. Sapìa, da 25, ‘cucita’ le palpebre, rammenda, cieca, la vita “ria”, nella cornice subito sopra, tra i lividi invidiosi. Un fatto. ma, come sempre in Dante, s’allarga: Sapìa è anche una città, Siena, “vana” decerebrata, che vuole la morte di un figlio, Provenzano, il superbo.

E in parallelo, Firenze, la “città partita”, che vuole (due volte: 1302, 1315) la morte di Dante, il superbo, il suo figlio maggiore. Così tutto, in Dante, si fa storia società impegno morale, meditazione sulle vicende degli uomini; mai evasione, ma presenza totale, “a viso aperto”: di mente e di cuore.


A CURA DI TONI COMELLO

CON:

Francesco Bellone, Giancarlo Monticelli, Angelo Rea, Letizia Sacco


PASSO D’ARNO (CENTRO INTERNAZIONALE DANTESCO )

IN COLLABORAZIONE CON IL TREBBO


MERCOLEDI 27 FEBBRAIO ORE 21 - CIRCOLO ARCI ISOLOTTO -Via Maccari 104 -Prenotazione telefonica presso il Circolo  055780070. Ingresso 5 euro.


Sarà una grande emozione veder Toni rivivere nelle facce di Francesco, Giancarlo, Angelo e Letizia.


Il Canto XIII del Purgatorio



 Sedute lungo la parete rocciosa, Dante vede poi delle anime coperte di mantelli di panno ruvido e dello stesso colore livido della pietra, l’una appoggiata all’altra e tutte alla roccia, simili ai ciechi seduti vicino alle chiese a chiedere l’elemosina. Esse hanno inoltre le palpebre cucite con un fil di ferro. Il poeta, commosso da quella vista, si rivolge agli espiandi chiedendo se tra loro vi sia qualche italiano. Una gli risponde e comincia così il dialogo tra il poeta e la senese Sapia, zia di Provenzano Salvani e ascesa in Purgatorio grazie alle preghiere del francescano Pier Pettinaio: il canto si chiude con una profezia di quello spirito circa alcune fallimentari iniziative intraprese dalla sua città.


Allora più che prima li occhi apersi;


guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti


al color de la pietra non diversi.


Di vil ciliccio mi parean coperti,


e l’un sofferia l’altro con la spalla,


60     e tutti da la ripa eran sofferti.


Così li ciechi a cui la roba falla,


stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna,


63     e l’uno il capo sopra l’altro avvalla,


perché ’n altrui pietà tosto si pogna,


non pur per lo sonar de le parole,


66     ma per la vista che non meno agogna.


E come a li orbi non approda il sole,


così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora,


69     luce del ciel di sé largir non vole;


ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra


e cusce sì, come a sparvier selvaggio


72     si fa però che queto non dimora.


 


Tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava


in vista; e se volesse alcun dir "Come?",


102     lo mento a guisa d’orbo in sù levava.


"Spirto", diss’io, "che per salir ti dome,


se tu se’ quelli che mi rispondesti,


105     fammiti conto o per luogo o per nome".


"Io fui sanese", rispuose, "e con questi


altri rimendo qui la vita ria,


108     lagrimando a colui che sé ne presti.


Savia non fui, avvegna che Sapìa


fossi chiamata, e fui de li altrui danni


111     più lieta assai che di ventura mia.


E perché tu non creda ch’io t’inganni,


odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle,


114     già discendendo l’arco d’i miei anni.


Eran li cittadin miei presso a Colle


in campo giunti co’ loro avversari,


117     e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.


Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari


passi di fuga; e veggendo la caccia,


120     letizia presi a tutte altre dispari,


tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,


gridando a Dio: "Omai più non ti temo!",


123     come fé ’l merlo per poca bonaccia.


Pace volli con Dio in su lo stremo


de la mia vita; e ancor non sarebbe


126     lo mio dover per penitenza scemo,


se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe


Pier Pettinaio in sue sante orazioni,


129     a cui di me per caritate increbbe.


Ma tu chi se’, che nostre condizioni


vai dimandando, e porti li occhi sciolti,


132     sì com’io credo, e spirando ragioni?".


"Li occhi", diss’io, "mi fieno ancor qui tolti,


ma picciol tempo, ché poca è l’offesa


135     fatta per esser con invidia vòlti.


Troppa è più la paura ond’è sospesa


l’anima mia del tormento di sotto,


138     che già lo ’ncarco di là giù mi pesa".

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