mercoledì 15 aprile 2015

LA NONNA RICORDA


LA NONNA RICORDA
(Il paradiso è lontano) 1924 – 1950
Di Maria Grazia Niccolai Benadusi
presentato da Pinuccia e Paola
Maria Grazia Niccolai Benadusi
L'assessora alla cultura del Comune Pratovecchio-Stia con Giuseppina Magnaldi e Paola Galli
Castello di Porciano: sala Dante
sabato 11 aprile 2015
(Poppi 1944)
Arezzo era stata liberata e gli inglesi erano a poche miglia da noi. Fra il crepitio della contraerea tedesca, gli spezzoni lanciati dagli aerei i bengala come enormi fuochi artificiali, si presentavano ai nostri occhi, scenari indimenticabili e in quel terrore c’era una straordinaria bellezza di immagini e di visioni coloratissime. Le mamme decisero di rifugiarsi a Poppi alto con tutta la carovana. Ricordo i due grossi bovi che trainavano un carro pieno delle nostre suppellettili con i più piccoli sopra, avviarsi verso il paese dove trovammo asilo presso quella che oggi è casa Carlomagno, abitata allora dalla Barberina di Becarino.
Cominciò da quel giorno un periodo tragico dove veramente sentimmo tutto l’orrore e la disperazione di quella orribile, immane e insensata guerra. Finirono le nostre allegre giornate passate in campagna. I primi giorni d’agosto furono tranquilli. I tedeschi erano ancora nei dintorni e facevano scorrerie nel paese. Entravano nelle case per rastrellare uomini da avviare al lavoro e deportare in Germania. Una mattina mi trovavo nella camera presa in affitto da Nandino Fognani,
dove io andavo a dormire non essendoci sufficiente spazio nell’abitazione occupata dalle cugine. Avevo una grande febbre, forse provocata da una specie di “colerino” molto diffuso in quell’epoca – quando entrò all’improvviso un tedesco col mitra spianato. Aprì l’armadio, guardò sotto il letto, mi fissò un momento, mi fece un gran saluto e se ne andò. Ero gelata sotto le lenzuola e, da come io mi sentivo in quel momento, credevo che così arrivasse la morte. La Crocina era sede di guastatori che stavano minando le antiche mura, le strade e il ponte dell’Arno, la ferrovia. Gli inglesi già appostati a Bibbiena, a Fronzola, a Buiano mandarono in avanscoperta una camionetta con truppe indiane che furono sopraffate e massacrate dai tedeschi guastatori. Una mattina tutto l’antico borgo, all’alba, fu svegliato dalla forte voce del colonnello Baldi, un poppese che si era tenuto in contatto con il comando tedesco. che ci invitava a rifugiarci nelle cantine, perché le mine sarebbero brillate da lì a poco. Uscimmo delle case e ci infilammo nei fondi delle Signorine Gatteschi, vicino alla chiesa di Badia.
Erano gli ultimi giorni di Agosto.
In quel giorno fino al tramonto fu silenzio, un silenzio innaturale quasi sospeso nell’aria vuota anche di rondini. Noi ragazze trascorremmo quelle interminabili ore sedute accanto alle botti, ma nessuno aveva voglia di parlare. Mangiammo un pezzo di pane asciutto. La giornata era bellissima, la porta delta cantina si spalancava nel giardino assolato, solo i ronzii delle mosche e delle vespe rompevano quello strano silenzio.
Il boato fu immenso, apocalittico, infinito. Ci trovammo tutti distesi fra le botti con una polvere acre che ci riempì la bocca e gli occhi. Ci precipitammo su per le scale e vedemmo una nuvola rosso mattone che riempiva il paese, e un mare di sabbia avanzava dalla piazza come una corrente impetuosa. Il borgo sembrava un fiume rosso, alto circa mezzo metro, che aveva invaso anche i portici e correva verso fondo Badia dove noi ci trovavamo. La scena era impressionante, e dovemmo rimanere lì impossibilitati a muoverci, perché doveva ancora avvenire l’ultimo scoppio. Era gia scesa la sera, un boato squarciò l’aria: saltava il ponte sull’Arno. Rimanemmo dentro l’ingresso, il portone si spalancò all’urto e un sasso di fiume abbastanza grosso, ancora bagnato,
piombò in mezzo a noi come un proiettile rompendo alcune mattonelle del pavimento. Poi fu tutto un grido. Corremmo verso la piazza di porta a Fronzola, affondando in quella terra rossa che tutto
aveva invaso e ci ritrovammo in mezzo ad una folla di persone che cercavano di recuperare le proprie suppellettili sepolte sotto le macerie. La scena sembrava irreale. Tutto era rosso, sotto una luna lattea che illuminava il paese. Donne urlanti, bambini impauriti, uomini madidi di sudore che frugavano, spalavano, correvano, nella ricerca di catinelle, pentole, letti sfondati, cassettine, bauli, coperte stracciate, pacchi di carta, lettere cornici. Era tutto un tramestio convulso, spasmodico di ombre scure che si muovevano in quel baratro immenso dove tutto era stato travolto. Allora, per la prima volta dall’inizio della guerra, fui presa da un pianto convulso e urlai con tutta l’anima contro gli anni della mia adolescenza durante i quali mi avevano fatto credere a falsi ideali che ora mi crollavano insieme a quelle macerie e a quella disperazione: ideali che avevano rappresentato valori identificabili con la patria, con la vittoria, con la grandezza dell’Italia, con la Roma imperiale. Mi sentii ingannata, defraudata, senza alternative, presa da uno smarrimento e da una rabbia che a stento riuscivo a trattenere. Lavorammo anche noi, io e le mie cugine, per tutta la notte, con furia per aiutare i nostri compaesani, tra i pianti dei senza tetto.

(da “Il Paradiso è lontano di Maria Grazia Niccolai Benadusi, AGC edizioni Stia (AR), 2014)

della presentazione 

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