mercoledì 1 novembre 2006

Il consolato americano


Presto a Firenze ci sarà la tranvia, ma per adesso ci sono i lavori. Imponenti, invasivi, insopportabili. Il ponte alla Vittoria e tutto ciò che ci sta intorno sono soffocati da un nodo inestricabile di macchine che non si allenta mai.

Anche prima c’era traffico. Da quando mi ricordo quel tratto di viale che va dalla Porta al Prato fino al ponte è sempre stato incasinato. Ma adesso è peggio, non c’è dubbio. In questi anni tutta la zona ha assunto un aspetto sospeso e trasandato, non sembra neanche di stare a Firenze. Per questo motivo quando sono quasi andata a sbattere contro una incongrua fioriera piazzata nel mezzo del Lungarno Amerigo Vespucci quasi non ci ho fatto caso. Non mi sono stupita, ho messo i piedi giù dalla bicicletta e mi stavo rassegnando a pagare il mio pegno al progresso della città.


E invece no. Quelle fioriere, e le transenne, le camionette coi carabinieri messe di traverso come in un’eterna emergenza non sono una tappa disagevole da sopportare in vista di una modernizzazione. Sono un raffazzonato tentativo di risolvere un problema, reagendo con colpevole debolezza di fronte all’arroganza.


Il Lungarno di Firenze, come gran parte della città, è patrimonio del mondo. E’ difficile mettersi in relazione con la bellezza, ma si può fare. A patto che si tenga presente che non è privata. E come se ogni gesto prevedesse l’approvazione di un’assemblea di un immenso condominio.


Oppure si tratta di ricrearne una nuova sulla base di un nuovo talento. Come mettere i baffi alla Gioconda, o una piramide di fronte al Louvre. Chi ha il coraggio, e l’immaginazione, può farlo.

Ma quello che non si può fare per nessun motivo è regalarla, questa bellezza, a chi mostra i muscoli, sputtanarla perché qualcuno la trasformi in un ennesima dimostrazione di potere.


Mi piacerebbe sapere che cosa pensa Oriana Fallaci di quello che ha fatto il consolato americano del Lungarno Vespucci. Per carità, niente piscia e niente cazzi, non si sentono né preghiere né puzze di nessun genere. Semplicemente perché quel pezzo di Lungarno non c’è più. E stato sottratto e messo sotto vuoto. Non è più di proprietà della città e dei cittadini. Alcune centinaia di metri di uno dei lungofiume più belli del mondo sono diventati l’entrata del consolato americano.


Sorvegliato dalle due gigantesche fioriere, inamovibili, cementate in mezzo alla strada di traverso. Non sul marciapiede, ma in mezzo alla strada, dove le auto transitavano normalmente. E dove continuano a transitare, nel tratto che segue e in quello che precede. E dal momento che il divieto vige anche alle spalle del palazzo, garantito da transenne e da solerti carabinieri, quel rettangolo di città è diventato un territorio astratto, una «zona» dove neanche gli stalkers sono ammessi. Per evitare che ci parcheggino jeep imbottite di esplosivo. Capisco la loro preoccupazione, ma per quale motivo non si spostano allora in una parte della città che sia controllabile senza creare disagio?


Come reagirebbero se ci prendessimo una mano della Statua della Libertà per farne una pista per elicotteri, o chiudessimo il ponte di Brooklyn perché ospitasse la fiera della porchetta di Ariccia?

Da Elena Stancanelli, Firenze da piccola, Laterza 2006 (Pag.33-34) € 9.



Comprato ieri, letto d'un fiato.

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