lunedì 23 gennaio 2012

Sette giorni nella Palestina occupata - III

seconda giornata, venerdi 30 dicembre,  Da Nablus a Qalqilya

Balata

Questo campo-lager di Balata ha una estensione di 1 kmq ed è il più grande campo profughi nella Cisgiordania. E’ stato costruito nel 1950 alla periferia dell’antica città Cananea di Shechem e la maggioranza dei suoi abitanti provengono da Jaffa e dalla pianura centrale della Palestina e della Galilea. All’inizio questo campo era costituito da tende, poi a partire dal 1954 l’ONU ha fatto costruire strette file di casette che sostituirono progressivamente le tende usurate. Ciascuna misurava 3 metri quadrati ed ospitava una famiglia (in media 6-7 persone). Ogni 25-30 famiglie c’erano gruppi di servizi igienici. Solo nel 1960 il campo è stato fornito di fognature e nel 1970 è stata data l’elettricità. I 5.000 abitanti iniziali sono arrivati adesso a 25.000 e per ospitarli gli edifici sono stati  rialzati  utilizzando i fondi inviati dagli emigranti alle famiglie in espansione. Il risultato è un dedalo di vicoli strettissimi fra alte costruzioni ammassate le une sulle altre, che non lasciano passare aria e luce. Come si fa a vivere così? Si capisce come qui sia iniziata l’incessante resistenza palestinese con la 1^ Intifada! In uno slargo fra i vicoli siedono delle donne su un gradino e giocano dei bambini che non conoscono altri orizzonti. Ogni famiglia ha qui un parente ucciso o ferito o rinchiuso in carcere. E’ in questo campo che nasce il Centro operativo della resistenza ed inizia anche la II^ Intifada con 230 persone uccise e 300 persone attualmente rinchiuse in carcere.
Una volta nel campo, le persone dipendono totalmente dall’ONU. L’UNRWA, che doveva  avere solo carattere temporaneo, è ancora operativa e ha la funzione di provvedere all’istruzione ed ai servizi sanitari e sociali, di assistenza alle famiglie senza reddito, ai centri per i giovani, e così via. In presenza di una grande disoccupazione, le persone hanno perso le speranze per il futuro. Specialmente la popolazione giovane è frustrata e con un senso di impotenza che aumenta sempre di più. Prima del 1948 la vita della popolazione era normale, il 65% andava a lavorare in Israele ma tutto è cambiato quando molti hanno dovuto abbandonare la loro terra, nel silenzio colpevole dell’occidente, che doveva scaricare i suoi sensi di colpa per la Shoah.  Adesso sono arrivati già alla 3^ generazione che nasce in un campo profughi, senza speranze per un futuro migliore, se la situazione rimane allo stato attuale e il mondo occidentale non si decide a muoversi.


Qalqilya


Qui abbiamo il primo, violento impatto con il muro dell’apartheid che circonda la città e con le allucinanti condizioni di vita delle persone residenti. Questa città, situata sulla Linea Verde, confine stabilito dalla Linea di armistizio del 1949, si trova a meno di 20 km dal Mar Mediterraneo, ma ai loro abitanti è vietato andarci. Nel 1967 la città rischiò di essere distrutta dai bulldozer israeliani, che furono ritirati solo grazie a pressioni diplomatiche. Oggi essa conta oltre 44.000 abitanti. Il pullman si ferma lungo una strada che termina contro il muro, a circa 100 metri di distanza. Sul lato sinistro della strada vi sono campi incolti, sul lato destro un reticolato al di là del quale si stendono piccoli campi coltivati, che finiscono contro il grande muro, che circonda completamente la città. La popolazione vive in condizioni economiche disperate, con un tasso di disoccupazione  del 60-70% e la maggior parte delle famiglie sopravvive grazie agli aiuti umanitari. Ci avviciniamo al muro tappezzato di murales colorati, che esprimono tutti il desiderio di libertà. Dalla torretta un soldato armato di mitra ci sorveglia e quando qualcuno di noi si avvicina troppo al reticolato e al cancello di passaggio, una voce amplificata ingiunge di allontanarsi dal confine.
Il checkpoint di Qalqilya

 L’indignazione e la rabbia aumenta ancora quando, ormai quasi avvolti dal buio, andiamo a vedere l’unico passaggio riservato ai palestinesi residenti che debbono andare a lavorare in Israele. Il passaggio, oggi deserto per il giorno di festa, è costituito da una serie di corridoi paralleli transennati con ringhiere d’acciaio, lungo i quali già prima delle 5 la mattina si affollano decine e decine di persone, che debbono passare al controllo armato del checkpoint. Per terra, lungo questi stretti passaggi, strati di bicchieri di carta, sacchetti e bottigliette sono a testimoniare quello che avviene ogni mattina. Alcuni di noi percorrono questi corridoi fino a una zona illuminata, quando da una torretta un’altra voce metallica ci impone di allontanarci. Risaliamo in pullman e al checkpoint ci fermano. Una telefonata dalla torretta per segnalare un bus sospetto? Chissà…. Un giovane soldato e una bionda soldatessa salgono a bordo per controllare ogni volto e ogni passaporto, mentre il giovane nato in carcere che era salito con noi a Nablus, viene fermato e interrogato per molti minuti. Lui, essendo palestinese, non sarebbe dovuto passare da questo checkpoint riservato solo agli israeliani. Riesce a cavarsela raccontando che lavora per la Comunità europea ed è in questo frangente impegnato con un gruppo di turisti Italiani in visita.
(dal diario di Fiorella e Piero)

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