lunedì 1 settembre 2008

Il lago degli idoli



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Domenica 31 agosto


Il lago degli idoli


Ritornato finalmente lago dopo 178 anni, da quando nel 1830 fu prosciugato per depredarlo delle mille e mille statuette votive che i nostri antenati etruschi avevano gettato nel suo fondo. Siamo a 1400 metri di altezza, nel grembo della madre Falterona che ci guarda da sopra, a 1654 metri. E’ una splendida calda assolata giornata di questa grande coda estiva 2008. La montagna riempie ruscelli e stagni dell’acqua caduta in abbondanza all’inizio dell’estate. E il lago è là, all’interno di una radura di faggi, ritornato a noi per l’opera dei forestali del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi. Il deus ex machina si chiama Alfredo Bresciani,  scienze forestali, che ci illustra la sua creatura ritornata in vita da pochi mesi con un paziente duro piacevole lavoro che ha richiesto mezzi e competenze; non distinguevo giorni feriali e festivi, è stata una passione. E ce ne parla mescolando competenza e partecipazione affettiva; mi incanto ad ascoltarlo. Bresciani ci parla dei tremila pezzi e pezzettini ritrovati nel fondo durante i lavori di scavo e ricostituzione del fondo impermeabile argilloso che, ricostituito usando solo tecniche naturali, garantirà la sopravvivenza a questo pezzo di preistoria (8500 anni) e di storia (2500) etrusca, cioè nostra. L’anno scorso di questi tempi era ancora asciutto. Asciutto l’avevano visto Ella e Dora Noyes nei primi anni del Novecento (***). Bresciani racconta il lago ritrovato come un pezzo di vita sua; è un piacere ascoltarlo; non ha bisogno della raccomandazione di Catone: ”rem tene verba sequentur”. 


Se il racconto di Ella Noyes può essere retorico – di bella letteratura – questo di Bresciani è appassionatamente realistico. I quattro metri d’acqua che stanno al centro del laghetto sono garantiti da uno strato argilloso naturale ripescato con fatica nel fondo, in accordo con le disposizione della Sovrintendenza Archeologica fiorentina che vieta qualsiasi intervento di natura artificiale chimica che semplificherebbe il lavoro. Così come non è stato permesso incanalare acqua da sorgenti lì vicine...E il lago è qui: un anno fa l’avevamo promesso (si rivolge ai numerosi membri del gruppo archeologica casentinese-romagnolo presenti a questa festa di battesimo). Certo è ancora un bambino in fasce; la creaturina piano piano riacquisterà l’aspetto originale, via via che madre Natura proseguirà il suo corso instancabile; solo 130 anni e le anime degli Etruschi rivedranno il lago protettore come l’avevano lasciato 2500 anni fa. Bresciani ci dà appuntamento per quella data; 130 anni, un battito di ciglia dell’Universo mondo.


Siamo arrivati al Lago degli idoli salendo su macchine fuoristrada da Papiano fino alla chiesa di Montalto, storico campo base dell’escursione detta dell’”anello di Vitareta”. Solo che per noi 50 privilegiati si sono aperte le sbarre dell’area vietata al traffico e siamo risaliti su fino al rifugio di Vitareta e oltre. Con una oretta di cammino siamo arrivati alle sorgenti dell’Arno che è un fiume a più teste. Bresciani  ce ne ha contate 5:  Arnaccio, Fosso del lago degli idoli, Razzagalline, Arno, Fosso della rota. Si ritrovano tutte poco più sotto col nome antico di Partenna (ricordate Porsenna?). A capo d’Arno, su richiesta, ho declamato una buona parte del Canto XIV del Purgatorio. I primi versi sono scritti sulla pietra: “Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona”. Lì ho recitati con una certa emzione, come giusto naturale e logico.


Durante la salita a piedi ho rivissuto un piccolo amarcord etrusco, ragionando con Teresa dei Troiani e di Fiesole e di Roma, cioè del Ponte anni quaranta e seguenti: la guerra, la mamma di lei morta in un bombardamento alleato ad Arezzo (per me il ricordo acuto e diretto della prima vittima di guerra, assassinata dal fuoco amico dei bombardieri angloamericani; per lei che aveva un anno, un’assenza imposta dal destino cinico e baro (leggi: da Mussolini cinico e casa Savoia "bara" degli italiani), poi Lando 5 anni di scuola elementare insieme, e via divagando. Nella storia di ogni individuo e di ogni piccolo paese si condensa la storia più grande di popoli e regioni. Tutto si tiene.


 Nella discesa del ritorno Paolo Furieri mi spiega la differenza tra un porcino di abete (mi aveva indicato una porcinaia lui che conosce tutto della zona Falterona con la Valle dell’Oia, Valluccione e via dicendo), un porcino di castagno, uno di faggio, uno di querciolo, uno di felce. I più saporiti sono al castagno e al querciolo. Non ho avuto il tempo di descrivergli i porcini di Northalje, a Nord di Stoccolma, sul Baltico.

Gran finale all’italiana, nello specifico alla casentinese: una mangiata a Mezzomontana, un mini agroturismo sulla strada della Calla, venendo da Stia. Una vecchia contadina sopravvissuta del periodo delle Noyes ci ha messo sotto il naso tortelli di patate a burro e pepe,  ravioli bianchi e rossi (burro e pommarola, quest’ultima eccezionale seconda Mario mio dirimpettaio di tavola). Il punteggio massimo comunque è andato al prosciutto servito in antipasto: stagionato e salato il giusto, affettato “quasi a mano”. Testimoni Franco e Irma,  ai miei lati. Come dessert la storia di Buonconte da Montefeltro (
Purgatorio V) illustrata e recitata da Mario Miani. Al quale ho promesso il mio Dante in Casentino con speciale dedica.


 Alcune foto.



Appendice 1





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 Appendice 2


La visita alle sorgenti dell’Arno e al lago degli idoli fatta da Ella Noyes all’inizio del Novecento. Davvero un bel pezzo di letteratura.


 


(***)Capo d'Arno, la sorgente dello storico fiume, si trova in una fenditura del monte, subito sotto la vetta del Falterona. Il posto è nascosto nel fitto della macchia di faggio ceduo e non è facile trovarlo, a meno che la guida non sia ben pratica dei luoghi, è facile essere sviati dai numerosi ruscelletti che si incontrano durante il cammino. Ma, dopo un'arrampica­ta sotto gli ultimi cespugli intricati, usciti in un ameno spazio verde a lato della famosa fonte, si sente che sarebbe impossibile confondere un'altra con questa sorgente regale. Perché l'Arno non sbuca strisciando nascosto dalla terra come tanti inizi modesti che si concludono in grandi cose. Il suo primo apparire è degno del suo corso carico di storia. Una massa di rocce ammucchiate da terremoti e tempeste forma una specie di conchiglia entro il grembo della montagna e dalle rocce sgorgano le sorgenti alimenta­te da qualche pozzo inesauribile nel cuore della terra, in un semicerchio di sette getti pieni e forti che si precipitano giù sopra le rocce, i massi della forra, unendosi in un torrente che già nella sua prima infanzia è abbondante e sonoro. Si segue il suo percorso con l'occhio, dal suo primo cadere sulle rocce fra i fianchi delle ripide colline alla profonda gola, giù in basso, dove le correnti sorelle, Arnino e Arnaccio, portano il primo tributo, e giù alla stretta curva verso ovest ove esso brilla argenteo nell'ombra profonda delle colline che stanno di fronte. Poi, osservando il curvare della gola ancora verso sud, si è portàticon l'immaginazione lungo il sentiero della topografia dantesca, passato Porci ano ed i suoi porci, e via via giù per il Casentino, fuori del suo ingresso, oltre Bibbiena a quel subitaneo e sdegnoso volger di muso del fiume, lontano dai botoli aretini. Ed ancora, con l'occhio.dell'imma­ginazione, lo si segue nel suo scorrere verso nord, lungo il Valdarno; proprio in direzione opposta al suo primo corso esso emerge ancora in lontane vallate, recando il suo pieno flusso a Firenze, la più bella di tutte le città, ma popolata, per Dante, da lupi. Incerto prima e come intravisto in sogno ora, il Cupolone si fa sempre più distinto. Così, in un attimo, voi potete alzare gli occhi dal nascere alla piena maturità del fiume, che bellezza, gentilezza degli uomini e traversie del tempo hanno purificato ed esorcizzato dall'accusa di essere maledetto e sventurato lanciatagli dallo spirito in­quieto ed impaziente di Dante.


Nella gente che dimora presso le sorgenti dell'Amo si scorgono gli elementi ed i principii, giovani e sempre rinascenti, di quella vita umana che al suo apogeo nella


storia edificò laggiù quella città, meraviglia della cultura e dell'arte, che essa fu un tempo, e che sempre resterà nella memoria, per il vasto arco del volo del suo spirito nell'empireo della bellezza e della gioia, lei che dette prova di essere troppo grande per essere racchiusa nel cosmo del savio medievale. Per essa il futuro, non il passato. Firenze, accusata da Dante e che prosegue incrollabile la sua strada, non direttamente alla meta, ma da lontano, a larghe curve come va il suo fiume, è finalmente giustificata e si identifica ora con la somma delle imprese compiute da tutti i suoi figli, più nobile del più nobile di essi.


Accade spesso, anche in giornate di bel tempo, che il panorama distante sia nascosto dalla bruma. Nelle miti giornate di ottobre e di novembre, al di là delle infinite pieghe vellutate d'erba dei poggi vicini, il mondo appare come un ampio mare bianco dal quale emergono le lunghe groppe delle catene di monti, blu e ombrose, una dopo l'altra in linee calme e soavi, fino a che si fondono con il cielo. In giorni come questi lasciamo che il passato riposi sotto il suo sudario. E' sufficiente il presente, così dolce. In verità, per chi siede quassù al principio delle cose il presente sembra subito dietro al passato e tutto quel corso tortuoso del fiume ed il fluire dei secoli sembra al di là da venire. Il prato verde su cui siamo seduti, a lato della culla mormorante dell'Amo, è come è sempre stato, e un pastore e un cacciatore vaganti mille anni fa, si sarebbero scaldati a un fuocherello scop­piettante di frasche di faggio identico a quello che la nostra guida ha acceso ora.


La montagna è tornata ad una solitudine che ci riporta indietro fino al tempo degli Etruschi, che usavano portare i loro infermi ad un lago salutare non lontano da Capo d'Amo. Questo lago si è ora prosciugato, ma la conformazio­ne delle rocce indica dov'era, e la sua virtù risanatrice, con l'esistenza di un tempio a lato di esso, viene ipotizzata dopo la scoperta, nel 1830, di una grande quantità di offerte votive: oggetti di bronzo di manifattura etrusca, armi, catene, ornamenti, ma soprattutto statuette, alcune delle quali del periodo d'oro dell'arte etrusca. Molte di esse possono essere ammirate al British Museum.


La discesa dalla montagna alla piccola città di Stia, molto più in basso, è una rapida scivolata, giù per le erte verdi radure fra la macchia, molto diversa dalla lenta arrampicata. Viene poi un delizioso percorso attraverso pascoli di erbe montane cosparsi di massi e lungo sentieri . addossati ai fianchi del monte, sopra la foresta di quercie aggrappate alla terra; e vallate profonde dove si scorgono grappoli di casette: i rifugi estivi dei pastori. Si passa vicino a vasti ovili e, per quelli che salgono di notte per vedere la levata del sole sulla cima, la via è sbarrata da cani da pastore grossi come orsi, bianchi orsi ruggenti, finché il pastore non li richiama per lasciarvi passare. Ma verso la fine di settembre le greggi abbandonano la verde Alpe e scendono lente verso i loro pascoli invernali della lontana Maremma, la regione paludosa fra le montagne e il mare Tirreno, insalubre durante l'estate per uomini e bestiame. Dopo che sono partite i pendii restano solitari, eccetto per qualche piccolo gregge qua e là e per poche vacche bianche dalle larghe corna e dai miti occhi, appartenenti ai poderi più alti sui monti, che pascoleranno fra i sassi durante tutto !'inverno, nei posti più solatii, dove la neve dura poco. Essi


sono guidati da bambini dalla :accia mite e dagli occhi timidi, creature che ignorano l'arte del leggere e dello scrivere, che siedono sui massi, nel mite sole invernale, chiacchierando fra loro o cantando, ognuno per suo conto, interminabili canzoni. E' da quassù, dalle montagne, che sgorga la vena delle canzoni spontanee per le quali i conta­dini toscani sono rinomati.


C'è un'altra strada dal Falterona per Stia, molto più lunga della scorciatoia, ma che attraversa dei luoghi incan­tevoli. Prima si discende per un ripidissimo colle. Ricordo di aver avuto una strana impressione, una volta che facevo quel percorso: era in ottobre avanzato, ma il sole scaldava quasi più che in estate, c'era stato cattivo tempo il mese precedente ed era nevicato sul monte. Larghe chiazze di4 neve restavano ancora nelle radure fra i boschetti; eravamo discesi con la neve al ginocchio fra i cumuli ed eravamo giunti al fianco del monte dove tutto era senza ombra, pietroso, arido. Affannati dal caldo, con 1D. gola secca, guardammo dietro a noi il percorso che avevamo fatto. Sopra la neve accecante si piegava su di noi il cielo, nero nell'intensità del suo ardente blu, alcuni faggi autunnali erano una macchia di fuoco sopra il bianco terribile. Non avrei mai immaginato che la terra potesse assumere un aspetto così infernale. Inciampando e scivolando per la china, con i piedi colpiti dalle pietre sciolte che rotolavano, seguivamo un sentiero in una landa senza alberi, quando ci confortò il suono di acque correnti vicine; giungemmo ad un tratto sopra una crepa della montagna da dove sgorgava l'acqua con forza e abbondanza, saltando di. masso in masso e formando piccole pozze. Dopo esserci chinati a bere ed esserci riposati per un poco all'ombra delle piante che crescevano nel burrone, traversammo il torrente; ora la nostra strada portava a pascoli stupendi, e giù giù alla gola che si allargava fino al punto dove i torrenti confluivano per la prima volta. Nei pressi c'è un podere di montagna con la casa costruita fra prati naturali falciati rasi, freschi e verdeggianti, dove le acque dintorno fanno un rinfrescante rumore scorrendo giù per i burroni. Sotto questo podere traversammo l'Arno, ora in piena e, entrando nella selva di castagni sull'altra sponda, proseguimmo il nostro cammino fra larghe radure assolate e zone ombrose mentre fra le foglie dorate donne e ragazzi raccoglievano i frutti rossastri dallo strato di ricci spinosi e ingialliti che copriva il terreno. Le timide teste avvolte in fazzoletti si sollevavano al nostro passaggio e gli occhi miti ci guardavano con stupore. Una delle donne ci chiamò e ci chiese: "venite da molto lontano?» A noi sembrò che lei e i suoi compagni fossero infinitamente lontani, lasciati indietro nel tempo, in una qualche epoca d'oro, in un eterno pomeriggio di sole e di pace.


Di lì a poco traversammo un minuscolo villaggio abbarbicato sul pendio, nel ripido passaggio fra le casette di pietra, una o due vegliarde simili a sibille camminavano curve sotto il sole. Procedendo attorno al colle, raggiungem­mo finalmente l'altro versante e ci trovammo di nuovo in vista dell'Arno, che fa una larga curva fra le colline ed è ora un torrente considerevole che corre in un letto pietroso e nel suo percorso verso sud traversa la parte alta della valle principale.


La nostra strada proseguiva lungo i fianchi dei colli sopra il fiume, sempre attraverso selve di castagni; al limite di un ripido pendio, di fronte a noi, svettavano le cime dei cipressi che cingono la chiesa alpestre di Santa Maria delle Grazie. Dopo un'altra ora di cammino eravamo sulla ripida strada di Stia.


Il Casentino e la sua storia


Traduzione di Amerigo Citernesi


Ed.Fruska, 2001


Pgg 29-35


Altre foto del pellegrinaggio.

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