martedì 15 novembre 2011

SILVIOSTORY: LA GRANDE ILLUSIONE

SILVIOSTORY: LA GRANDE ILLUSIONE



        Dalla scesa in campo nel lontano 1994 alla caduta di oggi: i flash di una carriera politica segnata da intuizioni e affari, affermazioni e scandali, successi e cattive compagnie.



Di quello che è stato Berlusconi nella vicenda italiana si deve cominciare a riflettere, riavvolgendo il nastro della sua storia politica. E sapendo che è politicamente ancora vivo. Consapevole o no, ha tentato fino all’ultimo di fare il male degli italiani, convinto che il suo bene fosse il loro bene, sessanta milioni di trastulli e «io solo a poterli governare». Ha tentato fino all’ultimo, come un Gheddafi, di ricattare gli ectoplasmi da lui nominati in parlamento ai suoi servigi, da quelli giudiziari a quelli d’alcova. «Metto la fiducia, perché voglio guardare negli occhi chi mi tradisce». Mi ricorda il 25 luglio 1943, quando Grandi entrò nel Gran Consiglio con due bombe a mano nella sahariana. Mi ricorda che quando si votava la fiducia per appello nominale alla camera o al senato, con un Sì o con un No, si doveva pronunciare quel monosillabo passando sotto il banco del governo. Se a qualcuno tremano le gambe, c’è rischio che gli si paralizzino. Ha tentato fino all’ultimo, contro il mondo, di dimostrare che il problema italiano non era lui. Consentendo agli attendenti Bechis e Ferrara di fare l’esperimento di lunedì mattina: annunciano che il primo ministro italiano sta per dimettersi, le Borse esultano e salgono, lui smentisce, e le Borse gli ritornano in faccia come un boomerang. Avevano avuto ragione gli inglesi, prima che i mercati riaprissero, a lanciargli l’ultimo appello, «In nome di Dio, dimettiti». Ma chi crede in Dio? Berlusconi?



Razza Padrona



A Berlusconi basta lui come dio, incarnazione della Razza Padrona. Ce lo diceva nelle riunioni dei giornalisti “suoi dipendenti” ad Arcore: «Scendo in politica, o mi aiutate a vincere o me ne vado alle Bahamas, e a Natale vi mando una cartolina illustrata». Indirizzo, sottinteso, il marciapiede.



Erano i giorni in cui il riservatissimo Cuccia, lo gnomo di piazza Affari, sussurrava a Montanelli che il suo editore aveva quattromila miliardi di debiti con le banche. E non c’era più a Roma nemmeno un Craxi a garantirgli l’intoccabilità del conflitto d’interessi. Nonostante la mellifluità della sinistra.



Tutta la sua vita, e vent’anni della nostra, sono passati così, nel segno del conflitto.



Più volte negli ultimi giorni del regime s’è letto che il raìs (ma lui s’era incoronato premier, fregandosene delle regole sostanziali e formali della Costituzione) aveva avuto consultazioni coi figli Marina e Piersilvio, eredi o già vicerè dell’impero, e con Confalonieri, reggente dal 1993. L’Italia fluttuava come Genova nel nubifragio, ma il premier non consultava ministri, governatori, eminenze grige o porporine, capi di stato e di governo. Consultava i figli, come se il crollo del suo regime durato 18 anni fosse affare di famiglia. Che dite: alla Fininvest giova di più se resisto o se mi dimetto? Resisti papà, era la risposta; e anche il milanese apparentemente pacioso Confalonieri, che s’era tenuto fuori da notti al bunga bunga e da pubblici fanatismi confindustriali, diceva «Giova più se resisti», memore della sua vecchia legittima ammissione: «Sono grato a Silvio, perché mi ha fatto ricco». Poi ha confuso l’onore del premier con la resistenza in articulo mortis.



Tutto qua. Del resto erano passati 18 anni da quando, al tavolo lungo di Arcore, Ferrara fingeva di farsi carico di una brillante idea personale: «Può la Fininvest assumere un’iniziativa per la ricomposizione del quadro politico?» In quel momento, la Fininvest sembrava non aver più referenti a Roma, né per l’assegnazione delle frequenze né per altro. E i comunisti erano sempre buoni come mangiatori di bambini, nonostante Occhetto cercasse di spiegare che l’alleanza elettorale con Rifondazionisti e retini era una cosa, la maggioranza per il governo di sinistra altra cosa. Col Mattarellum «regalatoci dai referendum di Segni», i comunisti prenderanno 500 seggi. «Ricevo ogni giorno telefonate da colleghi industriali che mi sollecitano a scendere in campo ». Anche da Agnelli? No, ma alla fine s’è persuaso anche lui: «Lasciamolo provare.



Se va bene a lui va bene a tutti noi, se va male va male solo a lui».



Patriottismo finanziario.



Invano il contrapposto patriottismo romantico di Montanelli consigliava l’amico Fedele di dissuaderlo: «Prima lo applaudiranno, poi gli salteranno tutti addosso, quando gli avrà fatto bere la sua politica fino alla feccia che risale il vaso». Scrisse proprio così sul Corriere della Sera, dopo aver perduto il Giornale e La Voce, «la feccia che risale il vaso», la destra berlusconiana «la peggior destra che io abbia mai visto, benché ne abbia viste tante nella mia lunga vita». Oggi sarebbe stato il suo giorno, quello in cui l’overdose dimostra i suoi effetti. Ma è morto dieci anni fa, subito dopo il ritorno del Cavaliere a palazzo Chigi e l’inizio del decennio, che milioni di italiani hanno tracannato con lui, come la “sozza” dell’imperatore della Cina descritto da Carducci: «E zozza ancora, e zozza ancora: il mio popol, vedete, è in visibilio, e canta osanna, osanna». In italiano, «Meno male che Silvio c’è».



C’è Silvio, c’è il canto, ma non c’è l’idea.



Qual era l’idea di Berlusconi per l’Italia? Il decennio ha avuto due tempi, due legislature, entrambe senza che l’idea emergesse.



La prima rivolta a costruire nel cuore dell’Europa liberale e costituzionale una jamahiriya nazional-popolare nella forma, borghese-cleptocratica nella sostanza.



Primo tempo, l’arrembaggio



Primo tempo, 2001-2005. Al Cavaliere bastò qualche mese per rassicurare gli italiani: «Lo Stato sono io». Un Re Sole che impone prima cosa l’abolizione del reato di falso in bilancio e una legge che rendesse impossibili le rogatorie internazionali. Cominciava così a pestare anche i piedi ai suoi soci euroatlantici o arabi, restii a investire in società dove era lecito falsare i bilanci. Poi agli americani, che sanguinavano dalle Torri Gemelle. Per combattere il terrorismo dopo l’11 settembre Bush aveva chiesto collaborazione internazionale militare, giuridica, bancaria, di intelligence. Ma le esigenze del raìs venivano prima della lotta al terrorismo.



Ostilità alle rogatorie e tira e molla se andare in Afghanistan nonostante il voto ampio del parlamento. Cadono così primi semi della diffidenza euroatlantica per l’Italia di Arcore, Bush lascia senza risposta le richieste della Farnesina di ricevere il brianzolo alla Casa Bianca: il buon patriota Ciampi, quando Bush padre va al Quirinale durante una vacanza romana, lo chiama dietro una tenda e gli sussurra: preghi suo figlio di ricevere quel tanghero che gli italiani si sono scelti per premier.



Cominciò così la “questione di fiducia” dell’Italia, su cui dieci anni dopo Berlusconi sarebbe caduto. Neanche il suo primo cantore Giuliano Ferrara, aspirante Primo Cervello del regime, sopportava senza recalcitrare: e diventò Giuliano l’Apostata a metà. L’atra metà preferì dedicarla all’esegesi delle encicliche papali. Quanto all’altro grande ma discreto patron, Gianni Agnelli, che aveva regalato al premier un ministro degli esteri come l’ambasciatore Ruggiero, cominciò a parlare di «Repubblica dei fichidindia». Dopo qualche settimana anche Ruggiero dà forfait. La sera di San Silvestro, Ciampi parla agli italiani ribadendo l’assoluta fedeltà all’Europa; il primo gennaio 2002 entra in vigore l’euro; il 2 gennaio Martino,Tremonti e Bossi rinnovano gli attacchi all’euroentusiasmo; il 3 Ruggiero denuncia la subdola linea dei colleghi; il 4 Berlusconi dichiara decaduto Ruggiero, colpevole di non aver esaltato le sue dichiarazioni sulla «superiore civiltà occidentale». Da allora, per dieci anni, Berlusconi non farà che lamentare gli scarsi poteri del raìs, l’impossibilità di licenziare un ministro e assumerne un altro.



Con gli italiani la menzogna funziona: il Cav può tenersi un ministro dell’interno come Scajola, che al G8 di Genova aveva lasciato la città in mano ai black bloc, un ministro delle infrastrutture come Lunardi («Con la mafia bisogna convivere»). Ma soprattutto ministri che gli confezionano gli abiti addosso, Gasparri per la tv e la pubblicità, Frattini per il conflitto d’interessi, Tremonti per il lavoro degli spalloni che passano le Alpi su e giù protetti dallo “scudo fiscale”; Castelli (che ha soffiato a Pera il posto di Guadasigilli) e che a via Arenula epura tutti i magistrati che manifestano indipendenza di giudizio. A Roma, il governatore fascista Storace chiude l’anno dicendo (contestato da Pecorella) che «c’è più corruzione a Palazzo che antrace in America», nonostante Ground Zero; ma il governo cammina come un treno e chiede di ridurre a 6 i 32 reati individuati dall’Unione europea per combattere il terrorismo (riciclaggio, corruzione, razzismo, società a scatole cinesi, ecc. ecc.). «Europa? – balbetta Bossi – chiamatela piuttosto Forcolandia». Applaudono Oriana Fallaci, Gianni Baget Bozzo, Marcello Pera ripagato con la presidenza del senato.



Palazzo Chigi non è ancora diventato palazzo Grazioli (la bavosa svolta sessuale verrà nel secondo tempo), ma svolge ancora funzioni di governo: come ricevere Sua Altezza Reale il principe saudita Al Waleed, socio in affari Mediaset, schierando nel cortile la fanfara dei Lancieri di Montebello: lieti (?) di tornare, dopo decenni, sui campi della gloria.



Secondo tempo, il basso impero



Secondo tempo, 2008-2012. Finita in anticipo la seconda esperienza Prodi (2006-2008), per la sarabanda bertinottiana, mastelliana, cardinalizia, industrialista e bottegaia contro il “cattolico adulto”, il bis di Berlusconi si annuncia col fuoco d’artificio di cento parlamentari di maggioranza: un’anonima leva nuova, prelevata da ranghi aziendali, hostess, professionisti in salita e professioniste in vigilia di climaterio, ex miss e veline (futuro nerbo del partito dell’amore, poi tout court partito della gnocca), con la certezza che gli italiani non avrebbero dimenticato tanto presto la sarabanda del centrosinistra. Come segno del destino, anche la nuova legislatura si annuncia con un G8, non tra le fioriere di Genova ma tra le macerie ancora polverose dell’Aquila; e l’odore di immondizia con cui Senatus populusque partenopeus avevano deciso, in omaggio alla camorra, di seppellire il profumo del Golfo, troppo aspirato dai turisti. Ghe pensi mi. Come a Genova, anche a L’Aquila. Ma stavolta il premier ha l’asso nella manica dell’uomo che veste in uniforme anche quando dorme, il capo della protezione civile Bertolaso.



Entrambi, dopo aver devastato La Maddalena, già destinata al G8, preparare nella città terremotata il trompe l’oeil per i grandi del mondo, e manda soldati a Napoli a raccogliere “monnezza” in tre giorni. Altro trompe l’oeil di altri tre giorni. Tre giorni anche per sgombrare Lampedusa dai migranti, fino alla guerra contro l’altro raìs, Gheddafi, che a Roma era venuto con tenda, elefanti e amazzoni, abbronzate come Obama. Nel frattempo, un esercito di legulei e ammazzasentenze tutela il premier dai processi in corso. E dalle campagne scandalistiche, che dalle escort risalgono alle istituzioni. Giorno dopo giorno, politica e scandali, potere e sesso, mostrano la natura del principe.



E quella del declino, la fine di un regno, segnato dalla certezza dell’impunità, da prescrizioni e da proroghe, dalla fame di carne, dalla sovranità popolare trasformata in preservativo. Cala sul paese, e una parte ne gode ancora, una cultura nietzschiana imparata sui sunti Bignami. Su quelle paginette tascabili scrivevano gli appunti leader da operetta e da arrembaggio, e cittadini ai quali parlare di “regole” è molto peggio che chiedergli le figlie in prestito. Vallettopoli è anche questo. Il paradiso è a portata di mano, si chiama condoni, sanatorie, scudi, amnistie, amnesie, banche estere, mazzette, lavori in nero, affitti in nero, false invalidità, remissione dei peccati, prescrizioni. Cos’altro si vuole da un governo? Gli stessi preti di scuola ruiniana tacciono.



Poi smisero di tacere anche loro, quando per un verso lo stesso parlamento dei “nominati” non riuscì più ad arginare la marea dei disoccupati, delle donne e degli studenti nelle piazze, e delle richieste dei magistrati contro la casta. Giorni tristi per i Cosentino, i Papa, i Cuffaro, tutti gli uomini del presidente, e chissà mai perché scelti tutti con le stesse stimmate. Più male dei giudici fanno i mercati, le Borse, i governi stranieri (in aggiunta ai giornali), partner irridenti dei vertici, dopo che per anni il premier aveva preparato anche per loro il trompe l’oeil dell’Italia ricca e protetta da ogni crisi: tutti al ristorante, tutti in fila per un posto in aereo, tutti a sgomitare in agenzia per una camera negli alpeggi, sui campi sci, ponte dopo ponte.



Il lettone di Putin diventa il lettone dell’ammalato delirante. Una malattia psicofisica che cambia ogni giorno i connotati del raìs, camicia nera aperta al collo, petto in fuori, pancia in dentro, mascella quadrata, sguardo aquilino, broncio di tempesta, come da balilla avevamo appreso alla scuola del Duce.



Riciclaggio di 70 anni fa, spacciato per ultima incarnazione del re a un popolo la cui memoria non va più addietro dell’altro ieri. Del resto, alle “donne” piace così: nell’ora del fuggifuggi, una tal deputata Rossi, richiesta se si senta la Claretta Petacci del Cav, risponde: «Clarette e Claretti per fortuna sono in tanti in questo paese». Tutti «col presidente per sempre, fino alla fine. Perché lui non avrà mai fine».



Gli affari di famiglia



E alla fine Berlusconi cade nella stessa trappola in cui ha intrappolato il suo popolo: l’immortale, l’imbattibile, il senza mai fine, finisce. E non gli resta che lasciare a Roma i conti dello stato e correre ad Arcore, come si diceva, a fare i conti della holding in famiglia: le finanziarie utilizzate per controllare la Fininvest (Mediolanum, Milan, Mondadori, Mediaset. Finanze Luxembourg, Teatro Manzoni); la spartizione del capitale tra i familiari (Silvio 63 per cento, Marina 7,65, Piersilvio 7,65, Barbara, Eleonora e Luigi 21,43). Come Mussolini in fuga verso la Valtellina si preoccupava di mettere in salvo le lettere che compromettevano Churchill, il premier in ripiegamento ha il pensiero dominante. A Mammona. Mentre l’Italia è prossima al default, pensa a una nuova legge testamentaria che raddoppi la quota del testatore, sicché egli possa non disperderla fra cinque figli ma concentrarla su qualcuno. E lo spread coi Btp tedeschi sta a 500 e, dopo Zapatero, anche il premier greco lascia la barca a nuovi timonieri.



Finis Austriae



Bisognerebbe rileggere in libri non elegiaci la vicenda di Vittorio Veneto, quanto facemmo noi e quanto, forse più, fece la rivolta dei popoli riuniti nella Duplice Monarchia. Mesi prima della battaglia, gli austriaci avevano offerto all’Italia la ritirata dal Veneto e poi l’armistizio. Molti erano d’accordo, non V. E. Orlando, presidente del consiglio, perché così l’Italia si sarebbe portata per sempre addosso la disfatta di Caporetto.



Occorreva una vittoria riabilitante.



Le prime linee austriache ressero all’offensiva diversi giorni, poi arrivò tra quei soldati boemi, croati, galiziani, sloveni la notizia delle rivolte nei loro paesi, e gettarono i fucili anche loro, aprendoci la via di Vittorio Veneto. Ridotti alle misere cose del berlusconismo, anche in esse si ritrovano gli elementi della Finis Austriae. Il partitone pluriculturale dell’uomo senza cultura si disgrega, Fini accende la miccia della secessione verso il centro, sancendo la fine del “predellino”; in piazza scendono i mondi del lavoro, della scuola, della dignità femminile, dell’università, mentre pseudoministeri volano a Monza; la secessione dilaga tra i partiti o partitini “fondatori”, socialisti e liberali, democristiani e repubblicani, partito dei soldi e partito Rai o Mediaset. Ma soprattutto Europa e Fmi decretano la fine della sovranità ottocentesca degli stati: non si governa senza il consenso internazionale se sei debitore. «Otto traditori», dirà ieri sera il raìs di fronte alla cifra implacabile: 308 invece di 316.



Le Clarette e i Claretti sono ancora «con Lui fino alla fine». Una fine che lascia sul campo l’onore nazionale, ma finalmente anche l’Italia dei nuovi mimi delle corti barbare o signorili, il sudario spagnolo-tridentino disteso sul paese del Rinascimento, lo slittamento da tangentopoli al berlusconismo in continuità, senza un ripensamento morale condiviso, il degrado delle istituzioni rappresentative prive di culture autocritiche, il “partito liberale di massa” rivelatosi uno slogan da opporre alla gioiosa macchina da guerra.



(Da vecchio liberale, di questo voglio esser grato a Berlusconi: d’aver dimostrato che il presunto “liberalismo” della borghesia italiana non è mai esistito. È esistito solo in un’estrema minoranza di liberali che, quando il clima storico lo ha permesso, Risorgimento, Resistenza, Costituente, si è messo alla testa della nazione per dare, non per prendere. Speriamo che quel clima torni).

   

 FEDERICO ORLANDO



da: www.criticaliberale.itdi domenica 13 novembre 2011 

     

Mo non gliene farei un torto se ha nicchiato nel seguire Bush nella lotta contro il terrorismo, dato che le torri gemelle non sono state buttate giù da 20 ragazzini islamici; mentre è vero Bin Laden e famiglia, l'agente CIA e i grandi amici dei Bush. Così come non è campata in aria la politica di avvicinamento alla Russia e alla costa meridionale del mediterraneo.  Vuol solo dire che il Silvio fiuta il proprio interesse e capisce che gli Stati Uniti sono solo concorrenti prepotenti e senza pietà. Per questo la Francia è corsa in Libia cercando di arrivare prima della NATO, braccio armato USA.  Che poi il Silvio abbia confuso il proprio interesse con quello dell'Italia, questo è il punto. Montanelli lo capì subito. 

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