lunedì 30 settembre 2013

Israele sul ponte del Titanic

Pappe: La soluzione dei due stati è morta più di un decennio fa
Israele continua a cercare altri Oslo per acquisire una legittimità internazionale
di Ilan Pappe
Il recente tentativo di rilanciare i negoziati di pace tra Israele e palestinesi non è in grado di produrre risultati più significativi di quelli dei tentativi precedenti. Arriva 20 anni dopo la firma degli accordi di Oslo tra Israele e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina .


Gli Accordi di Oslo furono un duplice evento. Ci fu la Dichiarazione dei Principi (DOP ) firmata solennemente sul prato della Casa Bianca il 13 settembre 1993; e ci fu l'accordo, relativamente meno celebre, 'Oslo II' firmato nel settembre 1995 a Taba , in Egitto, che delineò l'attuazione della dichiarazione del 1993, secondo l’interpretazione israeliana. 
L'interpretazione israeliana era che gli accordi di Oslo fossero stati solo un avallo palestinese alla strategia formulata dagli israeliani nel 1967 nei confronti dei territori occupati. Dopo la guerra del 1967, tutti i successivi governi israeliani sono stati fermamente decisi a far sì che la Cisgiordania restasse parte di Israele. Per loro è sia il cuore della antica patria che un luogo strategico per impedire la divisione dello stato in due parti fra cui sarebbe scoppiata un'altra guerra. 
Allo stesso tempo, l'élite politica israeliana non ha voluto concedere la cittadinanza alle persone che vivono lì, né ha preso seriamente in considerazione la loro espulsione. Volevano tenersi la zona, ma non le persone. La prima rivolta palestinese, tuttavia, mostrò il costo dell'occupazione, e portò la comunità internazionale ad esigere un chiarimento, da parte di Israele, sui suoi piani per il futuro della Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Per Israele, Oslo era stato quel chiarimento. 
Gli Accordi di Oslo non erano un piano di pace per gli israeliani, erano una soluzione al paradosso che aveva a lungo turbato Israele: volere la terra senza le persone che la abitavano. Questa era il problema del sionismo dal giorno della sua nascita: come avere la terra senza il suo popolo in un mondo in cui non sono più accettati né il colonialismo né la pulizia etnica. 
Oslo II fornì la risposta: il piano di pace avrebbe creato sul terreno i fatti che avrebbero portato al confinamento della popolazione nativa in piccoli spazi, mentre il resto sarebbe stato annesso ad Israele. 
Nel II accordo di Oslo, la Cisgiordania fu divisa in tre aree. Solo una di loro, la zona A, dove i palestinesi vivevano in aree densamente popolate, non era controllata direttamente da Israele. Era un territorio non omogeneo che nel 1995 costituiva solo il tre per cento della Cisgiordania e che sarebbe cresciuto fino al 18 per cento entro il 2011. Gli israeliani concessero l'autonomia a quell’area e crearono l'Autorità nazionale palestinese per controllarla. Le altre due aree, Area C e Area B, sarebbero state sotto il controllo di Israele, direttamente nel caso della prima e, teoricamente, in comune, ma in pratica direttamente, nel secondo. 
Oslo aveva lo scopo di consentire agli israeliani di mantenere questa divisione e questo meccanismo di controllo per un periodo molto lungo. La seconda rivolta palestinese del 2001 mostrò che i palestinesi non erano disposti ad accettarlo. La risposta israeliana fu quello di cercare un’altra Oslo, che forse possiamo chiamare Oslo III, che avrebbe di nuovo garantito loro il consenso internazionale e palestinese per il modo in cui volevano governare i territori occupati. Cioè, con la concessione di una limitata autonomia alle aree palestinesi densamente popolate e con l’istituzione del pieno controllo israeliano sul resto del territorio. Questa sarebbe stata una soluzione permanente in cui tale autonomia sarebbe poi stata definita 'essere uno Stato'. 
Ma qualcosa è cambiato nella visione israeliana da Oslo 2000. I poteri politici in Israele prima del 2000 erano sinceri, credo, nella loro offerta ai palestinesi dell’Area C e di Gaza per la creazione di uno stato. L'élite politica di questo secolo, tuttavia, mentre utilizza il discorso dei due stati, ha già stabilito, senza dichiararlo pubblicamente, l’esistenza di uno Stato israeliano in cui i palestinesi della Cisgiordania hanno lo stesso status di cittadini di serie B che hanno quelli che vivono nelle altre zone all'interno di Israele. Hanno anche trovato una soluzione speciale per la Striscia di Gaza: ghettizzarla. 
La volontà di mantenere lo status quo come una realtà permanente è diventata la vera strategia israeliana con l'ascesa di Ariel Sharon al potere nella prima parte di questo secolo. L'unica esitazione che aveva era sul futuro della Striscia di Gaza, e una volta trovata la formula della ghettizzazione, invece di governarla direttamente, non ha sentito più alcuna necessità di cambiare la realtà esistente. 
Questa strategia si basava sul presupposto che nel lungo periodo la comunità internazionale avrebbe concesso a Israele, se non la legittimità, almeno l’accettazione del suo continuo controllo sulla Cisgiordania. I politici israeliani sono consapevoli che questa strategia ha isolato Israele nell'opinione pubblica mondiale trasformandolo in uno stato paria agli occhi dei gruppi della società civile di tutto il mondo. Ma, allo stesso tempo, sono anche sollevati di sapere che finora questo trend globale ha avuto poco effetto sulle politiche dei governi occidentali e dei loro alleati . 
Ogni speranza di far rivivere qualcosa delle idee originali che portarono i palestinesi a sostenere gli accordi di Oslo nel 1993 morì con il governo di Ehud Olmet del 2007, quando furono sepolti, a tutti gli effetti, sia gli accordi di Oslo che la soluzione dei due stati. 
Questa strategia fu definita da Olmert 'unilateralismo'. La ragion d'essere di questa politica era che non ci sarebbe stata pace nel prossimo futuro e quindi Israele doveva decidere unilateralmente il destino della Cisgiordania. Gli sforzi diplomatici in questo secolo hanno fatto molto poco per evitare l'attuazione di questa strategia. 
Dal punto di vista di oggi, questa strategia si è sviluppata in modo chiaro. La Cisgiordania è divisa in due zone: una ebraica, una palestinese. Le aree ebraiche sono più o meno equivalenti all’Area C (di Oslo), in cui Israele ha il pieno controllo, ma anche a parti dell’Area B, dove l'Anp ( Autorità nazionale palestinese ) e Israele condividono il controllo. Insieme formano quasi la metà della Cisgiordania. 
Israele non ha ancora annesso ufficialmente lo spazio 'ebraico', ma potrebbe farlo in futuro. Per il momento, l’identità etnica di queste zone è determinata dalla massiccia presenza ebraica e da una strisciante pulizia etnica degli abitanti palestinesi spingendoli in enclave ristrette all'interno di questo spazio 'ebraico'. Lo spazio 'palestinese', nel frattempo, è la zona A, controllata dal ANP, dove Israele si riserva il diritto di entrare liberamente con i suoi agenti segreti, unità speciali e, se necessario, forze armate di massa, ogni qualvolta lo ritenga necessario. 
Per i responsabili principali della politica israeliana non si tratta di una situazione temporanea, ma di un modo di vita che può essere mantenuto per un tempo molto lungo. È completato da una serie di misure della massima importanza per tutti coloro che sono coinvolti nella lotta contro l'occupazione. La prima è finanziaria: il governo di Israele continua a mandare grandi somme di denaro nelle colonie e il risultato è che queste colonie sono diventate ormai zone di espansione urbana, con tutte le moderne infrastrutture di una nuova metropoli. Il denaro viene utilizzato principalmente per costruire nelle colonie esistenti, ma anche per espandere l'area intorno in modo tale che diventino parte integrante del paesaggio. 
La seconda misura è la continua de-arabizzazione della zona della 'Grande Gerusalemme' - più di 250.000 palestinesi sono stati sradicati da questa zona che copre quasi un terzo della Cisgiordania. Questo risultato è stato ottenuto mediante la demolizione di case, gli arresti politici e, soprattutto, non permettendo alle persone di tornare nella Grande Gerusalemme se avessero fatto l'errore di lasciarla. 
La terza misura è la rete dei muri. La sua caratteristica più evidente è il famoso muro dell'Apartheid, che ha diviso in due la Cisgiordania in un modo che diminuisce l integrità territoriale di un futuro Stato palestinese. La rete comprende anche piccoli recinti e muri che trasformano in enclave la maggior parte dei villaggi e città palestinesi in modo da non consentire nessuno sviluppo territoriale. Nel 2013, questa è la situazione di Israele: una repubblica sionista che si estende tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, con un numero quasi uguale di palestinesi ed ebrei. Questa realtà demografica mette in pericolo l'identità dello Stato ebraico o di regime della ‘democrazia dei maestri'. 
In Israele non ci sono partiti politici di qualche peso che si offrano di cambiare questa realtà. Non esiste un vero piano occidentale per fermare il consolidamento di questo stato, per non parlare di offrire una valida e seria alternativa. Fattori come la frammentazione palestinese, la disgregazione degli Stati nazionali arabi vicini di Israele e il continuo e incondizionato sostegno americano a Israele, tutti agiscono da cuscinetto che difende il pubblico ebraico israeliano da eventuali minacce al loro nuovo stato più grande, razzista, ma economicamente sostenibile. 
La validità morale di questo nuovo stato geo-politico allargato di Israele è stato eroso in modo significativo dal successo del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni ( BDS) messo in moto dalla società civile palestinese alcuni anni fa. Anche le stesse azioni di Israele hanno contribuito a un'ulteriore delegittimazione dello Stato agli occhi delle società civili di tutto il mondo. 
La lotta dell’Occidente contro il regime dell’apartheid in Sud Africa ha dimostrato che la negazione della legittimità internazionale di un regime è un processo dal basso verso l’alto e questo può ancora accadere nel caso di Israele. Il ruolo degli amici della Palestina in tutto il mondo non è mutato e deve continuare con lo stesso impegno nella pressione sui loro governi affinché condannino questo nuovo regime per le sue politiche criminali. 
La strategia delle persone che vivono all'interno non è cambiata molto. Più presto si rendono conto che non possono più lottare per una Palestina indipendente all'interno dello 'spazio palestinese', meglio è. Potrebbero invece concentrarsi la necessità di unire il fronte palestinese e le strategie di lotta, insieme agli israeliani progressisti, per un cambiamento di regime in questo nuovo stato che è stato istituito nel 2001 . Vi è un urgente bisogno di una nuova strategia che riformuli il rapporto tra ebrei e palestinesi nella terra di Israele e Palestina. 
Per questi motivi l'unica soluzione ragionevole sembra essere quella di uno stato democratico per tutti. Se questo non accadrà, la tempesta si abbatterà sui confini di Israele con una forza maggiore di quanto non sia avvenuto in passato. Ovunque nel mondo arabo, le persone e i movimenti sono alla ricerca di modi di cambiare i regimi e le realtà politiche oppressive - sicuramente questo arriverà anche nel nuovo Israele allargato, se non oggi, domani. Gli israeliani possono occupare il miglior posto sul ponte del Titanic, ma la nave sta comunque affondando. 
Ilan Pappe è uno storico israeliano e il direttore del Centro europeo di studi sulla Palestina dell'Università di Exeter 
(tradotto da barbara gagliardi
per l’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus)




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