lunedì 29 maggio 2006

Grazie, Paola


In anni molto lontani una mia professoressa di italiano, che era stata amica di Benedetto Croce e poeta lei stessa all’interno di quel gruppo di persone colte che avevano frequentato a Napoli la casa del famoso filosofo negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale(c’è un ricordo di quell’ambiente in “Una scelta di vita” di Giorgio Amendola) ci parlava della Vita Nova come di un grazioso romanzo, poetico e “vaporoso”, come diceva lei, e noi, ingenue sognanti ragazze degli anni cinquanta traducevamo con pre-pre-romantico. A dir la verità, allora ci attiravano più i romanzi di Carlo Levi e di Cesare Pavese, come era giusto. Oggi, rileggendo quell’opera giovanile di Dante, anche se mi sembra che indulga eccessivamente al patetico, con quel continuo piangere per amore, mi ritrovo a notare alcune cose positive, che sono queste. L’elemento stilnovista degli spiriti e spiritelli, così evidente anche in Guinizelli e Cavalcanti, è applicato in maniera convincente nel famoso episodio in cui Dante si trova in una casa dove si erano riunite molte giovani donne ( quante donne gentili e di novella etade nella Vita Nova!) e a un certo punto sente “un mirabile tremore” che lo costringe ad appoggiarsi a una pintura, cioè al muro affrescato per non cadere. Perché lo spirito d’amore si è impossessato di lui, occupando ogni facoltà sensoriale, al di fuori di quella degli occhi che, benché in maniera stravolta, possono vedere Beatrice, che è improvvisamente entrata nella stanza. E dicono: ma perché amore ci tratta così, che non possiamo nemmeno godere della bellezza di questa donna? Questo punto è molto bello, secondo me, e credo che non ci voglia troppa fantasia per immaginare questa bella casa dove tante ragazze allegre e ben vestite fanno crocchio, ammiccando a Dante e si gabbano di lui e della sua emozione proprio con lei. Da questo momento si scatena una serie di fughe di lui che ne inventa tante per nascondere questo sentimento, facendo finta di guardare un’altra donna, perfino in chiesa, dicendo cose non plausibili quando gli si chiede perché cerchi sempre di vedere Beatrice se poi non può sostenerne la vista e via dicendo. In un certo senso si prova quasi difficoltà a pensare che questo fragile, emozionabilissimo e anche un po’ bugiardo Dante sia lo stesso che pochi anni dopo – sia pure in tutt’altra situazione d’animo - comincerà a scrivere la Commedia.  Molte chiacchiere nella piccola Firenze di allora vennero fuori intorno a quella storia personale, Beatrice tolse il saluto a Dante e il lettore potrebbe finalmente pensare che a lei importasse qualcosa del povero Dante, ma niente successe in questo senso. Presto lei morirà. Niente del suo matrimonio viene detto nel libro, come non viene mai nominato il matrimonio di Dante. E Gemma poveretta, che non c’è un angolo piccolo piccolo dell’opera di Dante in cui venga ricordata, che avrà pensato? Si sarà accontentata, lei che aveva portato una bella dote, di guardare alla casa e ai figlioli? Ma confesso che, se fossi stata Beatrice, non sarei stata del tutto soddisfatta. Lei è al di sopra di tutto, di lei Dante si ripromette di parlare come mai siè parlato di nessun’altra donna, ma è giusto che tutto il suo incanto sfumi in questa figura di Madonna? Che di lei si parli come di una figura santa al di sopra dei sentimenti umani? Così, mentre a lei tributava un’attenzione sacrale, della donna Pietra stringeva nel pensiero e maltrattava le trecce, della donna casentinese vedeva il biondo dei capelli e il verde dell’abito. Cose di donne vere. Veramente in un sogno della Vita Nova aveva visto Beatrice nuda e avvolta in un drappo rosso in braccio ad Amore che le faceva mangiare il cuore di Dante, ma la crudezza e sensualità del sogno, anche se immagine poetica ricorrente, era stata poi cancellata dai successivi proponimenti di amore spiritualissimo e di lode per lei così superiore ai comuni mortali, che costituiscono la materia preferenziale di questo amore particolarissimo. Di più, quando verso la fine dell’opera, si racconta di una giovane e bella donna che s’impietosisce del dolore del poveretto, Dante si premura di aggiungere subito che, siccome si era accorto che cominciava a “vederla troppo volentieri”, d’autorità il super-io si era imposto e aveva decretato che il piacere di pensare a Lei era molto superiore a quello di guardare la donna pietosa. Questo era Dante giovane, quando viveva in Firenze, ancora ignaro di tutto lo scombussolamento che avrebbe sconvolto la sua vita. Quanto di realistico e quanto di poeticamente costruito in questo “romantico” romanzo giovanile? Forse a molti piacerebbe saperlo. (Paola Galli)


Nota (La parte dell'opera citata da Paola)


XIV. Appresso la battaglia de li diversi pensieri avvenne che questa gentilissima venne in parte ove molte donne gentili erano adunate; a la qual parte io fui condotto per amica persona, credendosi fare a me grande piacere, in quanto mi menava là ove tante donne mostravano le loro bellezze. Onde io, quasi non sappiendo a che io fossi menato, e fidandomi ne la persona la quale uno suo amico a l'estremitade de la vita condotto avea, dissi a lui: «Perché semo noi venuti a queste donne?». Allora quelli mi disse: «Per fare sì ch'elle siano degnamente servite». E lo vero è che adunate quivi erano a la compagnia d'una gentile donna che disposata era lo giorno; e però, secondo l'usanza de la sopradetta cittade, convenia che le facessero compagnia nel primo sedere a la mensa che facea ne la magione del suo novello sposo. Sì che io, credendomi fare piacere di questo amico, propuosi di stare al servigio de le donne ne la sua compagnia. E nel fine del mio proponimento mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo. Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura la quale circundava questa magione; e temendo non altri si fosse accorto del mio tremare, levai li occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice. Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna. E avvegna che io fossi altro che prima, molto mi dolea di questi spiritelli, che si lamentavano forte e diceano: «Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come stanno li altri nostri pari». Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima; onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori de la veduta di queste donne, sì mi domandò che io avesse. Allora io, riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei, e li discacciati rivenuti a le loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare». E partitomi da lui, mi ritornai ne la camera de le lagrime; ne la quale, piangendo e vergognandomi, fra me stesso dicea: «Se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietade le ne verrebbe».

Nessun commento:

Posta un commento