Trieste è un po' così
Credo che non si possa mai dire di avere colto in qualche modo lo spirito di una città, perché ogni volta che la si vedrà sarà collegata a un’epoca della vita e di quella prenderà il sapore. Comunque sono propensa a credere che la maturità (posso dire la terza età?) ha una maggiore possibilità di scoprire certi significati, certe storie di vissuti che ci sono maturati dentro e che poi felicemente riscopriamo nelle linee di una città.
Noi avevamo visto Trieste in un’epoca molto lontana e anche distratti da tante cose. Certo l’ansia di vivere come succede da giovani che si sovrappone alle cose stesse e quelle restano là un po’ sfocate e trascurate. Ora c’era il desiderio di rivederla, dandole più spazio. E di spazio ne prende questa città luminosa nelle grandi piazze protette, quasi vegliate, dai palazzi la cui pesantezza architettonica si alleggerisce in quella luce attraversata dal leggero vento marino. Certo con la bora sarà tutt’altra cosa. Qua e là piccole perle disseminate dietro le grandi facciate, nei vicoli di Trieste vecchia, a cui si accede spesso attraverso “androne” (così al femminile) ombrose dai muri screpolati; la piccola chiesa romanica aperta al culto valdese sopra ciò che resta del teatro romano e più di tutte Piazza Hortis, ombreggiata da piante, silenziosa col piccolo mercato a lato e dietro il museo dedicato a Svevo e a Joyce. Questo piccolo museo ce lo siamo proprio goduto, io e l’Urbi, perché questi autori li abbiamo letti conosciuti e amati.
Di Svevo non leggo da tempo le opere, ma, come non ho amato particolarmente i primi romanzi, così ho invece serbato un ricordo riconoscente alle opere mature: la Coscienza di Zeno e Storia del buon vecchio e della bella fanciulla. Che peccato quella sua morte accidentata e prematura e qui non penso certo solo allo scrittore, ma all’uomo che sapeva intrecciare riflessione profonda a ironia e cordialità di modi. I suoi furono davvero pensieri trasgressivi e nuovi nella cultura vacua e parolaia del dannunzianesimo e in parte anche del futurismo. E anche, anzi soprattutto, guerrafondaia. Quanto lontano il mondo di Svevo, proiettato nella ricerca della complessità e contraddittorietà interiore dell’uomo e consapevole del pericolo che incombeva su quell’umanità stravolta appena uscita da una guerra e in procinto di sprofondare in un’altra di dimensioni ancora più tragiche.
Diverse sono le motivazioni che mi hanno fatto rivedere con piacere i documenti relativi alla vita di Joyce, questo ragazzo scanzonato e ribelle che lasciò l’odiosamata Irlanda per diventare in Europa, ma prima di tutto a Trieste, uno scrittore di livello internazionale. Delle sue opere però conosce bene solo i Doubliners di cui il bel racconto finale, Dead, è testimone efficace, nell’indimenticabile descrizione del pranzo di Natale, delle ristrettezze economiche dell’irrequieta famiglia Joyce. E, in effetti, un pranzo così descritto, se è vero che scaturisce dalla nostalgia del ricordo, è certamente anche reso più vivido da un’abitudine ai magri desinari protratta nel tempo.
Come quasi sempre nei casi di scrittori famosi, nella documentazione non c’è quasi niente su Nora Barnacle, la moglie di James. Di lei so molte cose (Una buona biografia è quella di Brenda Maddox “Nora”, Mondatori 1989) quante bastano per capire come non fu facile per lei vivere accanto a quell’uomo intelligente ed egocentrico, brillante e faticoso. Nora era comunque una donna forte, una compagna di livello per una vita piena di gratificazioni, ma anche di pesanti vicende familiari.
Mi accorgo che mi son lasciata prendere la mano, ma bisogna dire ancora qualcosa di Trieste, per esempio la gastronomia, che è sempre una spia interessante delle civiltà. Così, accanto al bollito misto di Bepi Sciavo, condito con i crauti e la senape e al Presniz, dolce farcito di noci, pinoli ecc., cibi non solo da paese freddo, ma proprio di sapore austroungarico, si trova la Putiza, una torta di sapore simile, ma più regionale, più italiana. Non è bella la mescolanza dei gusti, delle abitudini, delle culture? Ecco, Trieste è un po’ così.
(Paola Galli)
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