domenica 24 dicembre 2006

L'addio di Piergiorgio Welby




ADDIOLICIADDIO

La farfalla non conta

gli anni ma gli istanti:

per questo il suo tempo le basta






Mina racconta

 Io sono semplicemente una tirolese, vengo dalla provincia di Bolzano. Piero l'ho conosciuto qui a Roma. Ci siamo voluti subito bene, è stato un colpo di fulmine, ci siamo sposati e abbiamo vissuto tutta la vita insieme, facendo una ricerca comune di come fare per vivere meglio la sua condizione fisica. Quando l'ho conosciuto stava perdendo le forze, si stava rassegnando.


Perché lui aveva paura di morire in una maniera terribile, soffocato come purtroppo è successo al povero Luca (Coscioni, ndr). E mio marito questo non lo voleva. E non pensava solo a sé, ma a tutti quei malati di distrofia, e di altre malattie invalidanti che avrebbero avuto lo stesso problema alla fine della loro vita.Rivolgo un appello agli italiani: pensate a queste cose. I malati non hanno solo il problema di essere curati e assistiti bene.


Io l'ho aiutato più che ho potuto, andando a cercare sui siti internazionali, specialmente della Germania, dell'Austria, anche siti inglesi, americani. Io gli traducevo le cose importanti e lui mi chiedeva poi di farne un sunto. Devo premettere che la parola eutanasia mi faceva paura. Perché per me, che ero stata educata in modo cattolico molto rigido, eutanasia voleva dire uccidere una persona. Poi studiando insieme a lui mi sono detta: ma per quale motivo io non dovrei concedere a tante persone che la pensano diversamente da me di avere una legge che consenta l'eutanasia. Avere una legge non significa che sei costretto a usarla.


degli amici mi dissero: «Ma non vedi che cosa scrive tuo marito sul sito? Che cerca l'eutanasia, che vuole che sia tu ad aiutarlo a morire». Io mi sono spaventata. Non sapevo come comportarmi con lui, come dirglielo, come fare. Ho cercato sul sito le cose che scriveva e poi ne abbiamo discusso, anche abbastanza vivacemente, abbiamo proprio litigato. Gli ho detto: «Tu metti in pubblico queste cose?»


L'ultimo giorno l'abbiamo vissuto in pace insieme. Ho cercato di allineargli tutte le cose possibili e immaginabili, abbiamo parlato di tante cose, nostre, personali. Lui non sopportava che io gli ricordassi i vecchi tempi e non l'ho fatto più. Non voleva più vedere le sue cassette, il suo disco che avevamo registrato quando eravamo insieme a pesca; non voleva sentire più le vecchie canzoni. Quindi abbiamo parlato soltanto così, di cosa si poteva fare, come si poteva continuare. E a un certo punto lui mi ha detto: «Ricordati che il calibano (il suo blog, ndr) deve andare avanti». E lì ho saputo che mi aveva passato il testimone.


E' stato commovente l'ultimo giorno vedere come lui chiamava i suoi amici per salutarli. Era come un commiato di una famiglia dove c'è il padre, un fratello che saluta gli altri fratelli perché adesso deve andarsene, deve chiudere gli occhi. Aveva un sorriso per tutti e poi ha detto: «Adesso uscite» e sono rimasta solo io con lui e con il medico.


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