Letture di Paola
Irène Némirovsky
Le ore passavano tranquille. Sulla strada c’erano meno automobili. Le biciclette filavano ancora a tutta velocità come spinte dal vento impetuoso che da una settimana soffiava da nordest e trascinava con sé tanti poveri disgraziati. Un po’ più tardi — visione sorprendente — spuntarono alcune macchine che andavano in senso contrario rispetto a quello seguito negli ultimi otto giorni: tornavano verso Parigi. A quella vista ci fu chi pensò davvero che tutto fosse finito. La gente rientrò nelle case. Si udì di nuovo l’acciottolio delle stoviglie che le donne lavavano in cucina, il passo leggero di una vecchierella che andava a portare l’erba ai conigli, e persino il canto di una ragazzina che attingeva l’acqua con la pompa. Alcuni cani si azzuffavano rotolando nella polvere.
Era sera — un crepuscolo delizioso, un’aria trasparente, un’ombra azzurrina, un ultimo bagliore di tramonto che accarezzava le rose, la campana della chiesa che invitava i fedeli alla preghiera — allorché si udì sulla strada un rumore che andava crescendo e che non somigliava a quello degli ultimi giorni: pesante, sicuro di sé, quel rimbombo sembrava farsi strada senza fretta, in modo inesorabile. Dei camion avanzavano verso il villaggio. Questa volta erano proprio i tedeschi. Dai camion fermi sulla piazza scesero degli uomini; altri mezzi giungevano dietro ai primi, poi altri, e altri ancora. In pochi istanti l’intera vecchia piazza grigia, dalla chiesa al municipio, non fu più che una massa immobile e oscura di camion color ferro sui quali si distingueva ancora qualche ramo avvizzito, residuo della mimetizzazione.
Quanti uomini! La gente, uscita di nuovo sulla porta di casa, silenziosa e attenta, li guardava, li ascoltava parlare, cercava invano di farsi un’idea di quanti fossero. I tedeschi sbucavano da tutte le parti, riempivano strade e piazze, e ne arrivavano continuamente altri. Da settembre il paese non era più abituato a sentire passi, risate, voci giovani. Era stordito, sconcertato dal rumore confuso che saliva da quella marea di uniformi verdi, da quell’odore di uomini sani, di corpi giovani, e soprattutto dai suoni di quella lingua straniera. I tedeschi si riversavano nelle case, nei negozi, nei caffè, le mattonelle rosse delle cucine risuonavano sotto i loro stivali. Chiedevano da mangiare, da bere. Passando accarezzavano i bambini. Gesticolavano, cantavano, ridevano rivolti alle donne. Quell’aria felice, quell’ebbrezza da conquistatori, quella febbre, quella follia, quell’esultanza mista a una sorta d’incredulità, quasi essi stessi non riuscissero a credere alla loro avventura, tutto questo era così tumultuoso, così eccitante che i vinti erano portati a dimenticare per qualche istante la loro pena e il loro rancore. Li guardavano a bocca aperta.
Nel piccolo albergo, sotto la camera in cui Hubert continuava a dormire, la sala echeggiava di grida e di canti. I tedeschi avevano subito chiesto dello champagne («Seht! Nahrung!») e facevano saltare i tappi. Chi giocava a biliardo, chi entrava in cucina portando con sé una quantità di rosee scaloppine crude che gettava sul fuoco, dove sfrigolavano diffondendo un denso fumo. Alcuni soldati salivano dalla cantina con diverse bottiglie di birra, scostando impazienti la cameriera che voleva aiutarli; un giovanotto dalla faccia vermiglia e i capelli d’oro cuoceva delle uova su un angolo del fornello, un altro, in giardino, raccoglieva le prime fragole. Due ragazzi seminudi immergevano la testa in secchi d’acqua fredda attinta al pozzo. Si saziavano, si rimpinzava-no di tutto il ben di Dio della terra; erano scampati alla morte, erano giovani, vivi, e vincitori! Manifestavano la loro gioia delirante con parole affrettate, precipitose, parlavano in cattivo francese con chi voleva starli a sentire e mostravano i loro stivali ripetendo: « Noi camminare, camminare, camerati cadere e noi sempre camminare »... Un clicchettio di armi, di cinturoni, di elmetti saliva dalla sala. Hubert lo percepiva in sogno, lo confondeva con i ricordi del giorno prima, rivedeva la battaglia sul ponte di Moulins. E si agitava, sospirava; respingeva qualcuno d’invisibile. Si lamentava, soffriva. Alla fine si svegliò in quella stanza sconosciuta. Aveva dormito tutto il giorno. Ora, dalla finestra aperta, si vedeva brillare la luna piena. Ebbe un moto di stupore, si stropicciò gli occhi e vide la ballerina, che era entrata mentre lui dormiva.
Hubert balbettò qualcosa per scusarsi e per ringraziare.
«Adesso lei deve aver fame, vero? » domandò Arlette.
Sì, effettivamente moriva di fame.
« Forse è meglio mangiare in camera, sa? Giù è impossibile, è pieno di soldati».
« Soldati! » esclamò lui slanciandosi verso la porta. « Che cosa dicono? Com’è la situazione? Dove sono i tedeschi? ».
« I tedeschi? Ma sono qui. Sono soldati tedeschi».
Hubert si scostò bruscamente da lei con un moto di stupore e di spavento simile al balzo di una bestia braccata.
«Tedeschi? No, no, è uno scherzo?».
Cercò invano un’altra parola e ripeté con voce bassa e tremante: « E uno scherzo? ».
Lei aprì la porta; dalla sala si levò allora, insieme a un fumo denso e acre, l’inconfondibile rumore prodotto da una turba di soldati vincitori: grida, risate, canti, e lo scalpiccio degli stivali e il tonfo delle pesanti pistole gettate sui tavoli di marmo, e il cozzare degli elmetti contro le piastre di metallo dei cinturoni, e quel fragore festoso che sale da una folla felice, fiera, inebriata dalla vittoria. « Come una squadra di rugby dopo una partita vinta » pensò Hubert. E trattenne a stento lacrime e ingiurie. Si precipitò alla finestra e guardò fuori. Ora la strada cominciava a vuotarsi, ma quattro uomini camminavano a fianco a fianco e, passando, picchiavano alle porte delle case: « Luce! Spegnete tutto! » gridavano e, docilmente, una dopo l’altra, le luci delle lampade si spegnevano. Restava solo il chiarore della luna che accendeva tenui sprazzi azzurrini su elmetti e canne dei fucili. Hubert afferrò la tenda con entrambe le mani, se la premette in modo convulso sulla bocca e scoppiò in lacrime.
« Su, su, si calmi » diceva la donna, e gli accarezzava la spalla con delicata compassione. «Tanto non possiamo farci niente... Che cosa potremmo fare? Tutte le lacrime del mondo sarebbero inutili. Ci saranno giorni migliori, e dobbiamo vivere per vederli, prima di tutto dobbiamo vivere... resistere... Ma lei si è comportato coraggiosamente... fossero stati tutti così coraggiosi... ed è tanto giovane! Quasi un bambino...
Lui scosse la testa.
« No? » fece lei a voce ancora più bassa. « Un uomo? ».
E tacque. Con dita un po’ tremanti affondò nervosamente le unghie nel braccio del ragazzo come se ghermisse una giovane preda e la cincischiasse fra le mani prima di portarsela alla bocca e saziare la sua fame. Sommessamente, con voce alterata, disse:
« Non deve piangere. I bambini piangono. Lei è un uomo, e un uomo, quando è infelice, sa cosa cercare... ».
Aspettò una risposta che non venne. Lui teneva le palpebre abbassate, la bocca serrata in una piega amara, ma il naso gli si arricciava e le narici fremevano. Allora lei disse con voce fioca:
«L’amore...».
Irène Némirovsky Suite Francese Adelphi 2006, pag.102-105
Nei mesi che precedettero il suo arresto e la deportazione ad Auschwitz, Irène Némirovsky compose febbrilmente i primi due romanzi di una grande "sinfonia in cinque movimenti" che doveva narrare, quasi in presa diretta, il destino di una nazione, la Francia, sotto l'occupazione nazista: Tempesta in giugno (che racconta la fuga in massa dei parigini alla vigilia dell'arrivo dei tedeschi) e Dolce (il cui nucleo centrale è la passione, tanto più bruciante quanto più soffocata, che lega una "sposa di guerra" a un ufficiale tedesco). Pubblicato a sessant'anni di distanza, Suite francese è il volume che li riunisce.
Scheda
Il sito Irène Némirovsky ( francese e inglese)
Controcanto del barba:
Io sono uscito da quella guerra, la guerra in cui mi ero prestato come volontario, la guerra in cui io ero un bombardiere entusiasta, io sono uscito da quella guerra con certe idee che si svilupparono piano piano alla fine della guerra; idee riguardo la guerra. Uno, che la guerra corrompe chiunque vi partecipi. La guerra avvelena chiunque vi partecipi. Si inizia come i bravi ragazzi, come facemmo noi nella seconda guerra mondiale. Loro sono i cattivi. Loro sono i fascisti. Che cosa si può aspettare di peggio? Così, loro sono i cattivi, e noi siamo i bravi. E man mano che la guerra procede, i bravi ragazzi cominciano a diventare cattivi. Lo si può far risalire alle guerre peloponnesiache. Lo si può far risalire ai bravi ragazzi, gli ateniesi, e i cattivi, gli spartani. E dopo un po' gli ateniesi diventarono crudeli e senza pietà come gli spartani.
Howard Zinn
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