mercoledì 9 maggio 2007


Lectio magistralis (I)


IL DOLORE INUTILEDI FRANCO TOSCANI


da: l’Ateo n° 3 – maggio 2007

Riportato sul “Il Punto” n.34 periodico online di Libera Uscita

(le sottolineature sono del Barba)

 

Ciò che noi definiamo “dolore” è il prodotto di un meccanismo evolutivo che permette, attraverso un sistema di premi/punizioni, il riconoscimento e la valutazione delle esperienze essenziali alla vita animale, e di adattare i comportamenti alle circostanze. E’ il dolore che ci avverte che stiamo facendo qualcosa di sbagliato come afferrare un oggetto rovente; che un certo movimento è oltre le nostre possibilità; che qualcosa di pericoloso sta avvenendo nel nostro corpo per cui è m eglio digiunare che abbuffarsi. Quei rari sventurati che per motivi congeniti non percepiscono il dolore sono destinati a malattie, incidenti e morte precoce.

Il dolore è anche uno degli elementi determinanti per fissare nella memoria le cose che non si devono scordare. Lo schiaffo del genitore fa sì che il bambino, anche dopo anni, ricordi la lezione. Il dolore era largamente usato nell’alto medioevo e nelle consuetudini giuridiche germaniche per garantire che l’evento fosse ben saldo nella memoria degli interessati, ed era questa la funzione del ceffone (la paumèe) che il cavaliere riceveva durante la sua investitura, perché non si scordasse il codice di comportamento del suo nuovo stato. E’ stata per secoli la frustata del maestro a inculcare nozioni, regole e valori al discepolo.

Il significato del dolore, il suo “senso”, è stato per millenni solo di ordine metafisico, ed è solo da poco che i suoi meccanismi biologici sono stati cercati ed individuati.

Alcmeone di Crotone (V secolo a.C.), fu il primo a formularne una teoria razionale, attribuendolo all’alterazione dell’isonomia, l’armonia tra gli organi.

 Erofilo ed Erasistrato di Chio (III sec. a.C.) dimostrarono l’esistenza di nervi motori e sensoriali, ed il loro collegamento al cervello, permettendo a Galeno (II sec. D.C.), di postulare l’origine neurologica del dolore.

 Ma è Cartesio, che nonostante le sue fantasiose teorie anatomiche ed ontologiche, lo interpretò come risposta condizionata, un riflesso “meccanico” fondamentale per la conservazione dell’integrità dell’organismo.

In effetti, il dolore è ben più di un messaggio nervoso. Esso è il risultato di una complessa interazione tra percezione e psiche: cioè, una faccenda assolutamente soggettiva.

L’influenza dell’esperienza, del carattere, dell’umore, delle emozioni, delle aspettative, del valore ad esso attribuito, delle circostanze esterne ed interne è sostanziale, e spiega come mai un identico stimolo possa produrre, in soggetti diversi, dolori di intensità diversissime.

Oggi il concetto di “soglia del dolore” è uno dei fondamenti delle discipline che se ne occupano.

Il dolore è elemento naturale e necessario. Tuttavia esistono situazioni dove esso non funziona come dovrebbe. In alcuni casi non ci avverte in tempo di malattie pericolose, né riesce a farci cambiare abitudini come avviene nel caso del diabete o dell’ipercolesterolemia; e talvolta è presente senza una causa, o permane a lungo anche quando ciò che l’ha causato si è definitivamente allontanato. La minaccia senza allarme, e l’allarme senza minaccia.

In questi casi, a cosa serve il dolore? E a cosa serve il dolore puramente o prevalentemente psichico, la “sofferenza”?

In sostanza: quale è il senso, il significato del dolore?

Su questi interrogativi si apre una infinita serie di porte metafisiche, antropologiche, epistemologiche. E teologiche.

Il dolore è usato come metafora di tutto ciò che nel mondo è spiacevole, non solo fisicamente, ma anche moralmente.

Il dolore rappresenta il male. Ma come dare una giustificazione convincente alla presenza del male nel mondo, soprattutto all’interno di una cultura pre-scientifica? E’ concepibile la co-esistenza di Dio e quella del dolore? E se c’è Dio, perché c’è il dolore e il male?

Si potrebbe affermare che l’esistenza stessa delle religioni è spiegabile col tentativo di dare risposta a queste domande.

Ciò che è fondamentale per la comprensione dell’atteggiamento della medicina nei confronti del dolore è esaminare come le religioni giudaico-cristiane, sino a ieri la principale (o, forse, la sola) chiave interpretativa dell’universo nel mondo occidentale, lo hanno giustificato, dal momento che l’ethos religioso ha plasmato l’atteggiamento – e quindi le azioni, le “cure” – che la società e l’individuo hanno nei suoi confronti.

Il dolore - afferma la Bibbia – è punizione divina per chi non rispetta la legge di Dio. Anche se oggi si tende a mitigarne il significato attribuendo questa posizione alla necessità politica di compattare il popolo di Abramo minacciato dall’impero babilonese, l’idea che il dolore provenga da Dio (e che chi soffre, in fondo, se lo meriti) ha permeato tutta la nostra cultura.

E’ il peccato originario di Adamo ed Eva che ha causato dolore morte, per loro e per tutti i loro discendenti.

E la punizione è tanto terribile da colpire non solo i malvagi, ma anche coloro che ai comandamenti divini vi obbediscono: sul giusto per antonomasia, Giobbe, fuori da ogni apparente logica giuridica per una scommessa tra Dio e il Demonio. Colpisce anche gli innocenti, i neonati, che non sono ancora in grado di peccare. Perfino sul Dio-uomo Cristo, che certo non può essere in alcun modo considerato peccatore”! E continuano a colpire l’umanità, nonostante il sacrificio di Cristo, che quel peccato originale l’avrebbe definitivamente mondato.

La colpa è perdonata, ma la punizione resta.

Se il dolore è giusta punizione, allora è anche mezzo di catarsi, e chi soffre deve gioirne perché attraverso la sofferenza sarà redento. Cosa sono poche ore di agonia confronto alla beatitudine eterna?

Non solo: il dolore accomuna l’uomo a Dio, sperimentando le sofferenze di Cristo, e quindi, il sofferente, imago Christi, concorre anche alla redenzione altrui. Il dolore è segno della predilezione di Dio: e quindi lo si accetti, non lo si combatta. E se stenta a venire per conto suo, perché non dargli una mano con scapolari e cilici?

Il dolore è essenza dell’universo, è necessità fondante dell’esistenza umana? Ma allora, se persino Dio si sottrae alla implorazione di Sé stesso-suo figlio nell’orto dei Getzemani e tace; se persino Dio si manifesta sofferente come un qualsiasi peccatore, esigendo la nostra compassione in cambio della Sua, come possiamo, noi mortali, massa damnationis, rifiutarlo?

E quale dovere o giustificazione avrebbero mai i medici per combatterlo?


Questa dottrina, conosciuta come “Dolorismo” ha permeato la cultura occidentale. Oggi è forse un po’ passata di moda e, almeno nella comunicazione di massa, di esortazioni al masochismo se ne fanno poche, probabilmente più per il cambiamento della mentalità della gente che per la timidissima revisione di Giovanni Paolo II.

Ciononostante, venti secoli di dolorismo hanno lasciato traccia, ed il tentativo di rendere accettabile al (buon) senso comune uno dei più complessi ed insolubili rovelli teologici ha portato ad una serie di posizioni altrettanto indimostrabili quanto bizzarre.

Tra le più comuni sta la tesi che il dolore è necessario per comprendere la serietà della vita, che attraverso l’esperienza del dolore diventa più attraente ed interessante; e che il dolore è indispensabile per far sorgere una coscienza morale.

Sebbene sia ovvio che lo star male renda ancor più apprezzabile lo star bene, si farebbe fatica a sostenere che per dar valore alla libertà si dovrebbe tutti sperimentare il carcere, o che per capire che non è giusto rubare sarebbe indispensabile essere stati derubati!

(continua)

Franco Toscani è responsabile medico della sezione Terapia del dolore e Cure Palliative dell'ospedale di Cremona.


 

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