giovedì 24 maggio 2007

La favola bella (II)




Loredana con Emanuel - il secondo figlio - (clicca per ingrandire)


Straniera



di Mariella Maglioni


  Sul davanzale della finestra il piccione becca frettoloso il mangime della mattina.  La nebbia pesante e bianca di pianura schiaccia sui tetti il fumo dei camini.  Poco lontano il fiume.  Mossi dal vento gli alberi del bosco perdono le foglie.  Sul tavolo tre scodelle. La minestra sul fuoco continua a bollire. Cigolando la porta si apre lasciando entrare un odore forte di terra bagnata e una donna piccola e magra, mani da contadina.

 Piccola casa al margine del paese, cinquanta case in tutto.  Trecento chilometri dal confine con la Russia, nord est della Romania.  Una casa di mattoni fatti di terra.   Millecinquecento. Impastati, modellati e fatti asciugare al sole. Costruita a quattro mani insieme a tuo marito poco tempo dopo il matrimonio.  E’ stato dopo la nascita del bambino che  le cose però non hanno preso il verso giusto.  Era un inverno rigido e pieno di neve e non si poteva andare al bosco per tagliare.  Nell’orto un po’ di cavolo e poco più.  Niente lavoro.  Il sussidio bastava a pagare la luce e comprare qualcosa da mangiare.  Se ne parlava ormai da tempo di partire.  Partire. Come fanno tutti.  Lasciare un posto dove non si vive.  Anche se hai piantato lì le tue radici.  A duemila chilometri l’Italia:  dicono ci sia lavoro senza problemi e ci si parli una lingua che non ci vuole tanto per capire.  Intanto la madre di tuo marito toglie dal fuoco la minestra e comincia a preparare la tavola per mangiare.  Poi piano ti chiama.  Forse sei già sveglia.  La tua ultima notte a casa se ne è andata in fretta.  Nel poco tempo che sei riuscita a dormire un sogno ti ha fatto ricordare di quando eri bambina, cresciuta poco lontano da qui.  Un sogno tutto bianco, carico di neve e silenzio in cui non era possibile andare da nessuna parte.  Tutto ero fermo, sospeso.  Un anno particolare, con il termometro a trenta sotto zero e la neve che per giorni aveva bloccato l’entrata delle case.  Nevicherà anche quest’anno.  Come sempre.  Forse per Natale.  E tu non ci sarai. Anche tuo marito ora si alza lentamente e si veste. Lui non è ancora convinto a lasciarti andare.  Ne avete parlato tanto nel buio della notte.  Ma non c’è davvero altro da fare.   Di là dalla tenda giungono i rumori della cucina.  Tua suocera carica la stufa.  Allora prendi in collo tuo figlio che è già sveglio e gioca sul letto con un piccolo omino che gli hai cucito utilizzando dei vecchi ritagli di stoffa.  Sì, tua zia saprà aspettare.  Riavrà i suoi soldi appena possibile.  Milletrecento euro,  un biglietto per l’Italia.  Dove troverai un lavoro e riuscirai a fare un po’ di soldi.  Dopo starete tutti meglio e tuo figlio potrà avere ciò che vuole.  La minestra è versata e il suo odore si spande per la casa.  Il giorno porterà con sè l’ora di partire.  Rimane semmai la borsa da preparare:  un cambio pantaloni e un maglione, due paia di mutande.  Di scarpe soltanto un paio e cento marchi da nasconderci per le prime spese dell’arrivo.  Avevi giurato di non partire più.  Dopo quella volta in Jugoslavia.  Lavoro duro e malpagato.  Prima di cominciare dovevi consegnare il passaporto perchè non ti venisse l’idea di andartene prima di finire.  Ora parti da sola e la cosa più difficile è lasciare il bambino.  Ha otto mesi e fino a ieri ancora lo allattavi.  Lo crescerà la madre di tuo marito.  Lo vestirà, lo laverà, gli darà da mangiare.  Dormirà vicino a tuo marito, giusto nel tuo posto del letto vicino alla finestra.  Alle diciassette in punto l’ora della partenza, il pulman a fari accesi illumina la piazzetta del paese.  C’è un po’ di gente venuta a salutare.  A bagaglio sistemato non resta che salire. Fa freddo e l’umido della sera arriva nelle ossa. L’ultima cosa che vedi guardando giù dal finestrino è il viso di tuo figlio imbacuccato nello scialle di lana ricamato.  In collo a tuo marito.  Che guarda il pulman allontanarsi.  E l’odore di lui forse ancora per un po’ riuscirai a sentirlo.  Perchè dunque tremi di paura?  

 Del mio primo incontro con te ricordo soprattutto le tue mani.  Sciupate dal lavoro, dure, screpolate.  Quando le toccai per salutarti mi sembrò che non ti appartenessero.  Eri una donna non molto alta e magra, anche se la forza del tuo corpo si capiva già guardandoti camminare.  Un corpo da lavoro, forte.  Camminasti davanti a me per la lunghezza del corridoio, mi tendesti la mano, io la presi, la strinsi e tu cominciasti a piangere. Rimasi sorpresa davanti a quelle lacrime.  Tutto mi aspettavo ma non quel pianto. Eri una straniera e parlavi poco l’italiano.  Avevi un lavoro ma non ci volevi più stare.  Tua cugina allora ti aveva presentato.  Noi cercavamo una badante ed eravamo con l’acqua alla gola.  Ma non si poteva prendere chiunque capitava ed era la prima volta che davo un lavoro a qualcuno. In pochi minuti, nel corridoio illuminato malamente dell’ospedale, dovevo incontrarti, capirti e possibilmente assumerti.  Non mi sentivo all’altezza di fare tutto quanto insieme, nel poco tempo che avevamo a disposizione dato che, come tua cugina preoccupata mi disse, dovevi rientrare a casa non più tardi delle sette.  Eri praticamente sfuggita alla sorveglianza di un padrone che non ti avrebbe certo concesso di andartene liberamente in giro a cercare un altro lavoro. E’ per questo che sentii all’improvviso un forte disagio impossessarsi di me.  Avevo preparato anche un discorsetto, semplice da capire e che filava liscio:  gli anziani devono essere curati con rispetto, noi diamo la paga sindacale, la domenica sei libera di andare dove vuoi.  Ma cominciasti a piangere e io non riuscii a dire più niente.  Guardai alle mie spalle mio marito e dissi istintivamente: “Credo sia la persona giusta”.  Fosti assunta subito e dopo una settimana ti occupavi già dei nostri cari.  Parlavo spesso con te nei momenti liberi.  Mi raccontavi la tua storia, il tuo passato. Parlavi del tuo pianto e da cosa era stato causato.  La paura di non farcela, l’emozione, la fatica di un lavoro da clandestina sfruttata che ti spezzava la schiena e che non potevi più tenere.  Il bisogno assoluto di guadagnare, per mandare i soldi a casa.  Parlavi di tuo marito e di tuo figlio ancora in Romania e di quanto ti mancavano. Dicevi che, guardando mia figlia, sentivi come un vuoto nello stomaco perchè erano ormai sette mesi che non vedevi il tuo e che per lui eri soltanto la mamma nella foto. Volevamo regolarizzarti ma i tempi erano ancora lunghi, non c’erano sanatorie in vista e questo era ciò che ti preoccupava di più.  Avremmo fatto tutto il necessario, appena possibile.  Così cominciò la nostra vita da vicine e tu per me cessasti ben presto di essere una straniera.  Mi colpiva il tuo modo di vivere, la tua solita contentezza, nonostante tutto.  Era il tuo modo di esserci che mi piaceva.   Un modo creativo, aperto, che scherza volentieri e si diverte anche nelle circostanze più pesanti.  Divenisti per noi un punto di riferimento. Una presenza importante. Un giorno ti chiesi quanto ti era costato abituarti al nuovo lavoro, alla presenza della nonna che per te era un’estranea e per Andrea, fratello di mio marito, affetto dalla sindrome di Down.  Tu dicesti che era stato lui a farti decidere di accettare il lavoro.  Perchè non avevi mai visto prima ragazzi come lui e l’avevi osservato a lungo.  Ti era piaciuto subito, fin dal primo incontro, il suo modo di essere gentile e poi, dicesti, nessuno mi aveva mai fatti tante carezze quante me ne fece lui in quindici minuti.

Presto arrivò anche la tanto attesa sanatoria.  Fosti regolarizzata dopo estenuanti file di attesa davanti alla Questura di Arezzo, insieme a tanti tuoi connazionali, e poco dopo chiedesti il ricongiungimento per la tua famiglia.  Prima arrivò tuo marito e dopo qualche mese te ne andasti a riprendere tuo figlio in Romania.  Fu quello forse il giorno più bello per te.  Si leggeva nei tuoi occhi la fierezza per quanto eri riuscita a fare.  E quando tornasti con il bambino, che ancora non si era tanto abituato a te e a credere che tu fossi davvero la sua mamma,  capii come avevi potuto avere la forza necessaria per fare tutto, per resistere a tutto.  Era come un sogno che per te si realizzava.


La nascita del tuo secondo figlio è stato un fatto che mi ha riguardato molto da vicino.  Tuo marito non è voluto entrare in sala parto e dunque hai scelto me perchè ti accompagnassi assistendo così a uno dei momenti più importanti della tua vita.  Dici che sono come una madre per te.  L’unica differenza è che quando esci con la tua sei tu che paghi, mentre quando sei con me pago tutto io.  Ma non è per questo che ho visto nascere il tuo secondo figlio.  E’ che ci siamo capite subito, fin dal primo momento. Dopo l’arrivo della tua famiglia desideravi molto avere un altro figlio. Lo capivo bene dalle tue affermazioni, dalle tue domande. Per allevarlo, godertelo e coccolarlo come non avevi potuto fare con il primo cresciuto lontano da te.  Dopo eri come imbarazzata a dirlo che aspettavi un bambino.  Straniera, badante, dipendente.  Forse non avevi chiesto il permesso per averlo.  Forse ce lo avresti dovuto dire prima.  Per caso questo non avrebbe influito nel tuo lavoro?  La casa poi era completa in cinque.  Così come già eravate.  E’ per questo che venisti da sola a dirmelo.  Prima di tutto volesti dirlo a me.  Ed era come se tu stessi chiedendo un permesso:  scusa posso avere un figlio?  Posso partorirlo e farlo vivere nella tua casa?  Fu così che ti accompagnai all’ospedale una notte di novembre.  E che assistendo al tuo travaglio, io che avevo avuto tanti problemi a partorire, imparai da te che a far nascere un figlio è la tua forza determinata,  la tua semplice disponibilità al fatto che si compie, al dolore che momentaneamente ti offusca la mente ma che va attraversato con umiltà e coraggio.  Non gridasti mai, nemmeno una volta, ma lavorasti con un impegno che non avevo mai visto prima.  Senza cessare, senza distrarti, senza chiedere nulla.  In uno sforzo solitario che io cercavo di lenire accarezzandoti la fronte, asciugandoti il sudore, calmandoti con le mie parole.  Ma sentivo che lottavi da sola.  Senza paura.  E il bambino non tardò ad uscire.  Un maschio di quattro chili e i capelli lunghi.  Avesti i complimenti della levatrice che per paura di lacerazioni improvvise era stata costretta a chiederti di spingere più piano.  Quando attaccarono il bambino al seno eri già tornata normale, come non fosse accaduto nulla.  Tornasti in camera da sola e due giorni dopo andasti a casa portando in braccio il tuo secondo figlio.  Emanuel Pislaru, così come è stato battezzato nella chiesa rumeno ortodossa di Firenze, per immersione totale in acqua.  Ed io che sono la sua madrina ho provveduto per tradizione ad acquistare il suo primo corredino e a fargli, insieme a mio marito che ne è il padrino, il primo bagno mettendo dello zucchero sulla sua lingua perchè la sua possa essere una vita dolce e lunga. 

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