Viaggio in Sicilia (VIII)
Festa di S.Rosalia
A Palermo, oggi, domani, dopodomani
Leggo dal sito del Comune di Palermo:
Un gigantesco carro trionfale disegnato da Jannis Kounellis, uno dei più celebri maestri dell'arte contemporanea, tempestato da mille chili di sfolgoranti cristalli Swarovski, sarà il protagonista della 383ª edizione del Festino di Santa Rosalia, promossa dal Comune, che la notte del prossimo 14 luglio trasformerà il centro storico di Palermo in un immenso palcoscenico a cielo aperto. Ideazione e regia sono di Alfio Scuderi.
La notte del 14 luglio dalle ore 21.30
La festa renderà omaggio alla Chiesa partendo dalla Cattedrale, simbolo della spiritualità della città. Il Festino sarà aperto da un’invocazione di pace e concordia tra i popoli rivolta a Santa Rosalia. Un brano composto da Giovanni Sollima, Tempeste e Ritratti, ed eseguito dall’Orchestra Sinfonica Siciliana introdurrà un’“orazione civile”, interpretata dall’attore Gigi Lo Cascio: si tratta del testo di Salvo Licata, dal titolo Chi ha brindato e chi no, dedicato a Falcone e a Borsellino. Un’orazione contemporanea, metafora della Palermo in tempo di peste, che accenderà la Cattedrale nel ricordo delle stragi del ’92 e in memoria di tutte le vittime della mafia.
DOMENICA 15 LUGLIO
Solennità del ritrovamento delle Reliquie di Santa Rosalia
ore 11 - Solenne Pontificale presieduto da Sua Ecc.za Rev.ma monsignor Paolo Romeo, Arcivescovo Metropolita, con la partecipazione del sindaco di Palermo, Diego Cammarata, e delle autorità civili e militari;
ore 19 - Solenne processione cittadina dell’urna di Santa Rosalia contenente le sue Sacre Reliquie. Itinerario: corso Vittorio Emanuele; piazza Marina, dove l’Arcivescovo pronuncerà il discorso alla città; e ritorno in Cattedrale con fiaccolata di preghiera.
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I giorni della peste
Il festino di S.Rosalia tra mito e spettacolo
Umberto Santino, Di Girolamo ed. Trapani 1999, 2006, € 15.
Questo post è dedicato a i giorni della peste scoppiata l’11 settembre 2001, denominata Nineeleven o guerra preventiva permanente.
Va letta in filigrana dietro il racconto che segue. Palermo è il nostro mondo occidentale, la Sicilia il pianeta terra.
In attesa di acquistare Storia del movimento antimafia, di Umberto Santino, di prossima ristampa, mi piace comunicare a questo blog le emozioni provate alla lettura di "I giorni della peste", una storia di santi e di malanni che mescola la diligenza nell'investigazione storica con la capacità di entrare nei meandri della coscienza umana, della percezione delle cose da parte dell'umanità sofferente e della capacità, da parte di una umanità meno sofferente o più prepotente, di sfruttare e piegare a fini di potere questa percezione delle cose. Una città in balia delle onde di una storia burrascosa come poche o come tutte, quattro sante vergini e martiri che si affannano a proteggerla senza risultato, una santa nobile, vergine ed eremita, che le sostituisce, messa insieme con poche ossa di uomini e animali ricavate da una necropoli arcaica ritrovata sul monte che sovrasta la città, una capacità di tenuta che dura da trecento ottanta anni, nonostante la persistente assenza di risultati, un mito che si fa spettacolo a metà luglio e si ripete il 4 di settembre in quel pezzo di pianeta che si chiama conca d'oro. Favola brillante sorretta da un poema celebrativo stile "barocco siciliano" che ha lo stesso fascino dei "reali di Francia" della mia infanzia, delle storie dei paladini che ancora perdurano nel teatrino dei pupi di Palermo, Siracusa, Catania...Umberto Santino è davvero bravo. Sarebbero libri da bestseller se la grande distribuzione non fosse in mano ai poteri forti dal pensiero così debole. Un piacere per me leggere la lunga digressione storica che va sotto il titolo "Le pesti, dalla Bibbia al XIX secolo". Ci ritrovi Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, De Foe, Manzoni, Camus e naturalmente santa Rosa-lia, rosa e giglio senza spine.
Per noi lettori obbligati dei Promessi Sposi del periodo scolastico, particolarmente efficace la sceneggiatura di Santino sintetizzata in 5 scene-madri: D.Rodrigo colpito dalla peste, la madre di Cecilia, Renzo e padre Cristoforo al lazzaretto, Renzo e Lucia, Lucia e Padre Cristoforo.
Non potendo ricopiare il libro, scannerizzo, per conforto di quanto dico, la peste di Londra dell'autore di Robinson Crusoè e, per S. Rosalia, una pagina di psicanalisi sociale e antropologia politica di Umberto.
Comincio dalla festeggiata:
(Le sottolineature sono mie.)
S. Rosalia
La festa e l'es del siciliano
Per Rousseau, Durkheim e altri studiosi la festa è lo strumento di rappresentazione-rifondazione del sociale, la celebrazione della communitas, l'evento in cui si riconosce e si rigenera la «comunità totale».
Secondo gli antropologi contemporanei la festa «è lo specchio e la risposta data dall'uomo alla propria condizione di precarietà»; essa contrappone al quotidiano, all'ordinario, alla routine, al male, alla debilità, all'impotenza, l'extraquotidiano, lo straordinario, il riscatto dal male, dalla debilità, dall'impotenza attraverso l'abbandono «alla sensualità, alla gaiezza, all'esaltante partecipazione alla fiduciosa autoidentificazione nella solidarietà di gruppo» (Lanternari, Festa, carisma, apocalisse, Sellerio 1983, p. 25).
Nella festa ci sarebbero due componenti: una psicologica (il «sentimento di festa»), l'altra istituzionale (l'organizzazione e la regolamentazione della festa). Nella festa si attualizza un mito delle origini, la fondazione di un culto, un momento critico dell' esistenza di una comunità, al fine di rinnovarne lo spirito di coesione, rinfrancarne la volontà di superare le mille difficoltà che porta con sé la vita quootidiana.
Se alcuni studiosi hanno posto l'accento sulla componente psicologica, sul valore catartico del «sentimento di festa», altri hanno guardato soprattutto al lato istituzionale cercando di collocare la festa nel contesto socio-temporale in cui accade e si riproduce. Non c'è una festa in astratto né univocamente protesa verso la fuga o la contestazione, la conservazione o la trasformazione: «Nella realtà effettiva la festa finisce per caratterizzarsi come istituzione tendenzialmente evasionista e conservatrice, o piuttosto dinamica, contestativa e trasformatrice, a seconda che prevalgano in essa componenti d'ordine mitico-rituale, o al contrario componenti d'ordine sociale e civile, benché l'interrpenetrazione dei due ordini di componenti entro un unico complesso festivo sia una caratteristica tra le più frequennti» (ivi, p. 31).
Nelle feste devozionali del Mezzogiorno d'Italia sarebbbe prevalente l'aspetto dell'evasione e della conservazione, mentre altre feste (per esempio l' 8 marzo, festa della donnna, o il primo maggio, festa del lavoro) sarebbero volte a promuovere una presa di coscienza e quindi avrebbero un intento emancipazionista e liberatorio.
In Sicilia la festa religiosa sarebbe - secondo Leonardo Sciascia - «una esplosione esistenziale; l'esplosione dell' es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell' es. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io (stiamo impieganndo con approssimazione i termini della psicanalisi), per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città» (Sciascia, La corda pazza, scrittori e cose della Sicilia, Einaudi 1970, p. 199).
Ma esiste questo quintessenziale siciliano? O ci sono soltanto i siciliani in carne ed ossa, ognuno con la sua faccia e la sua storia, e non si può fare un sol mazzo di questa molteplicità di individui, di culture, di gruppi, di classi sociali? E la trinità psicanalitica (ego, superego, es) è il nuovo Verbo che spiega tutto e comprende tutto?
A dire il vero i siciliani, almeno una parte di essi, hanno conosciuto altri modi di uscire dalla solitudine e trovarsi dentro una solidarietà collettiva, oltre la festa e i suoi rituali. Si pensi al movimento contadino, il più grande e continuativo d'Europa, e a quel che ha significato, e può significare, il primo maggio in Sicilia, bagnato dal sangue di Portella della Ginestra.
Questa Sicilia solo e sempre terra di solitudini, istinti, fanatismi e superstizioni è un luogo comune e le metafore letterarie non sempre colgono nel segno.
Tornando a Palermo, che di questa Sicilia insulare non solo in senso geografico sarebbe il cuore e la sintesi, la città ritrova se stessa solo nel festino perché non può essere altrimenti, o perché le è stato cucito addosso un vestito e finora non ha avuto la forza di strapparselo di dosso? (o.c: pp. 154-156)
La peste di Londra
(Daniel De Foe)
L'anno sessantacinque una peste
terribile a Londra infierì,
che spazzò via centomila
anime, eppure io son qui.
A dreadful plague in London was
In the year sixty-five,
Which swept an hundred thousand souls
Away; yet I alive!
Con questa strofetta, che definisce «rozza, ma sincera», Daniel De Foe chiude il suo Diario dell 'anno della peste, dedicato alla peste di Londra del 1665. De Foe in quell'anno aveva solo cinque anni. Il diario è, come nello stile dell'inventore di Robinson Crusoe, un'invenzione da romanziere che però utilizza molti materiali documentari, a cominciare dai bollettini sui morti di peste. L'immaginario H. F., autore del Diario, è uno scampato alla peste, che in realtà avrebbe prodotto più di 75.000 morti in una città che allora contava più di mezzo milione di abitanti.
Il Diario (266 pagine, senza un'interruzione) è un lungo racconto di orrori con qualche squarcio di dialogo e di riflessione, che si legge con una certa facilità, presi dal gusto del narrare che trascinava il prolifico autore, anche a costo di dimenticare per strada qualcosa (famose le distrazioni che abbondano nel suo Moll Flanders, a proposito, per fare un esempio, del numero dei mariti e degli amanti della protagonista) .
La peste a Londra arriva dall'Olanda ma dietro l'Olanda c'è sempre il Levante. Alle prime notizie del dilagare della peste, H. F., il finto diarista, uno scapolo di professione sellaio, si pone la domanda: rimanere a Londra o partire? Il fratello gli consiglia di andare nel Bedfordshire, dove ha già mandato la moglie e i bambini, ma H. F. è «propenso a rimanere ed a accettare il [suo] destino dove Dio l'aveva collocato» ed è confermato nel suo proposito dalla lettura, casuale ovviamente, ad apertura del Libro sacro, del salmo XCI, secondo-decimo versetto:
Dirò del Signore: è il mio rifugio, è la mia fortezza, il mio Dio, in Lui confiderò. Certo ti libererà dalla rete dell'uccellatore e dall'epidemia micidiale ecc. ecc.
Confortato dai versetti davidici, H. F. - D. F. decide di rimanere a Londra e di raccontare la peste. L'epidemia dapprima si sviluppa nelle parrocchie di periferia, più popolose c più affollate di poveri, solo dopo raggiungerà la City. Per fortuna, o per disegno della Provvidenza, la peste ha un andamento alternato: prima in alcuni quartieri, poi in altri, allentando la morsa sui primi. Così c'è sempre qualcuno in condizioni di poter dare una mano. Comunque la città è tutta in lacrime:
Gente in lutto per le vie non se ne vedeva, giacché nessuno portava il nero, né si vestiva a doglia, secondo le dovute forme, per gli amici più cari; ma la voce del lutto si udiva veramente per le vie: le strida delle donne e dei bambini alle finestre, alle porte delle case, dove probabilmente morivano, o erano appena morti, i loro più stretti parenti, si potevano intendere con tanta frequenza mentre si passava per le strade, che il sentirle bastava a trafiggere il cuore più saldo del mondo. In quasi ogni casa si vedevano lacrime e si udivano lamenti, specie nella prima fase dell’epidemia, perché verso la fine i cuori umani s'erano induriti e la morte era sempre dinanzi agli occhi, cosicché non ci si dava gran pena per la perdita degli amici, e ci si aspettava d'essere chiamati di persona l'ora seguente.
L'autore del Diario, come abbiamo visto, è credente e pio, ma non credulone. Così ha visto anche lui nel cielo di Londra una stella-cometa prima della peste, e vedrà un'altra stella-cometa l'anno successivo, che porterà alla città una sciagura non minore della peste, il famoso incendio di Londra, ma i suoi occhi non vanno più in là di questi fenomeni astronomici. Altri occhi invece vedono molto di più (il colore delle comete, il loro passaggio sulla City a minacciare il cervello finanziario della città, differenze tra le due comete a preannunciare sciagure non meno gravi ma di natura diversa) e ci sono orecchie che arrivano a sentire il fruscio delle comete, come se passassero a qualche chilometro di distanza, e voci misteriose che preannunciano sventure. Il sellaio-De Foe commenta:
Mi dev'essere consentito dire, così degli uni che degli altri, e spero senza mancare di carità verso il prossimo, che essi udivano voci che non parlarono mai, e vedevano apparizioni che non sono mai comparse; ma l'immaginazione della gente era veramente stravolta e ossessionata; e non c'è da stupirsi se quelli che stavano sempre con gli occhi ribaditi al cielo, vedessero forme e figure, immagini e apparizioni, che in sé nulla erano, se non aria e vapore.
Per un sellaio che non la beve, ci sono invece tantissimi che non solo hanno apparizioni ma pure vanno appresso a maghi e ciurmadori che propinano rimedi miracolosi, portano amuleti con l'abracadabra o con l'IHS gesuitico in forma di croce.
De Foe ha qualcosa da ridire pure per i ministri della religione che con le loro prediche seminavano sconforto. In Inghilterra erano tempi - ricorda - di «infelicissimi dissensi» in «materia di religione»: anglicani, presbiteriani, indipendenti, altri ancora avevano costituito comunità separate. Nel culmine della peste le controversie religiose taceranno, ministri presbiteriani saranno chiamati a officiare e predicare nelle chiese disertate dai ministri titolari. L'autore auspica che ciò che la peste ha unito la normalità non torni a dividere, ma sarà auspicio vano. Il nostro diarista non condivide alcune misure disposte dal sindaco e dagli aldermen della città, come per esempio la chiusura delle case abitate da appestati; critica il fatto che in tutta Londra ci fossero solo due lazzaretti con qualche centinaio di posti; dice che la città non era preparata a fronteggiare la peste, ma pure che gli amministratori rimasero ai loro posti, assicurando una serie di servizi, che la City tutto sommato continuò a funzionare da cervello della città, che i cittadini benestanti soccorsero i meno abbienti, che insomma non tutto fu travolto dalla pestilenza.
Certo, le atrocità si trovano a ogni pagina (partorienti che non hanno nessuno che le assista e muoiono con il loro bambino, poppanti che succhiano il seno delle madri morte, cadaveri galleggianti nei fiumi o seminati sulle strade dai carri stracolmi) ma il filo con cui cuce il sellaio è fatto insieme di confidente religiosità e temperato ottimismo.
Gli appestati scendono di notte sulle strade e urlano divorati dallo strazio, ma De Foe non crede alle voci secondo cui i malati volessero di proposito infettare gli altri. Lo spirito di conservazione l 'ha vinta sulla pietà, eppure la pietà non scompare del tutto. Le condizioni delle classi più povere sono deplorevoli: molte attività chiudono e la disoccupazione straripa, ma c'è sempre qualcuno pronto a soccorrere.
In ogni caso: non c'è rimedio contro la peste. Dio la manda per punizione e l'arresta quando sembra che non debba finire mai, per un atto di misericordia: La peste è di per sé un castigo del Cielo su di una città, o regione, o nazione, dove essa s'abbatte: un inviato della Sua vendetta, e un alto richiamo alla mortificazione e al pentimento per quella nazione, o paese, o città, secondo quanto scrive il profeta Geremia (XVIII, 7, 8): «E nell'istante in cui dirò una parola riguardante un regno, e riguardante una nazione, per sradicarli, e per abbatterli, e per distruggerli, se quella nazione contro la quale ho parlato si allontanerà dal male, mi pentirò del male che ho pensato di recarle».
Non sappiamo se Londra si sia allontanata dal male, per meritare la misericordia divina e la fine della peste. L'anno dopo ci sarà l'incendio, forse il più disastroso che la storia ricordi, e la città riprenderà la sua vita, con la sua City, i suoi poveri e le sue controversie religiose. Il quacquero Solomon Eagle, che di tanto in tanto fa la sua apparizione nelle pagine del Diario, continuerà a percorrere le sue strade, nudo come sempre, predicendo sventure: «Pentitevi londinesi, il peggio deve ancora arrivare». E De Foe, con la strofetta finale, pare gli faccia uno sberleffo.
(o.c. pp.84-88)
A dreadful plague in London was
In the year sixty-five,
Which swept an hundred thousand souls
Away; yet I alive!
Il racconto di Defoe (inglese)
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