Presentazione al castello di Poppi - IV
Video quarta scena: Enrico VII in Italia, l'Italia all'inizio del 300, le grandi lettere dal Casentino:
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La grande speranza: Enrico imperatore p.113
Il 27 novembre i sette principi elettori di Germania, radunatisi in un convento di Francoforte, s'accordano finalmente per metter fine al periodo di sede vacante dell'Impero, dopo l'uccisione di Alberto I, e designano alla corona imperiale Enrico do Lussemburgo, di trentaquattro anni
Ma com'era l'Italia nel 1310? P.115
Il papato aveva avuto un periodo non breve di sede vacante. Poi con Celestino V era fallito l’esperimento spirituale, con Bonifacio VIII fallisce l’esperimento temporale, con Clemente V il pontefice è ormai vassallo del re di Francia, in Avignone.
L’Impero ormai da molti anni non è più punto di riferimento nelle mille contese tra feudatari e mercanti, tra città e campagna; l’Italia è una nave senza nocchiero in gran tempesta. La Sicilia si libera dai francesi con i vespri siciliani per far posto agli Aragonesi: Federico II ne fa campo di battaglia prima col fratello Giacomo poi con Carlo II d’Angiò. Genova ha sconfitto Pisa alla Meloria e poi Venezia a Curzola. Marco Polo, reduce dalle glorie del Catai, trova il tempo per dettare le sue memorie nelle prigioni genovesi, mentre Giotto ha da poco finito di dipingere la cappella degli Scrovegni a Padova.
l’industria tessile costituisce l’asse portante dello sviluppo economico; la lana proviene dalla Castiglia e dall’Inghilterra: Firenze, Lucca, Milano, Como, Bergamo, Brescia sono centri di produzione che eguagliano quelli delle Fiandre e della Francia del Nord. L’artigiano ha bisogno del mercante che procuri la materia prima e fornisca il denaro per il primo acquisto. Il mercante ha bisogno di vie di comunicazione sicure e libere da balzelli. Firenze chiede il passo alle città confinanti; se Arezzo, Siena, Pisa e Lucca si mettono sulla sua strada è guerra.
Dentro la città il mercante-artigiano guelfo chiede il passo al magnate ghibellino; il partito guelfo, una volta vincitore, si divide al suo interno. Bianco contro nero, popolo minuto contro popolo grasso, salariato contro proprietario...
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Il momento è drammatico, altamente drammatico. Tutti gli antichi fuorusciti fiorentini, Ghibellini e Bianchi, sono intenti a seguire le mosse dell’alto Arrigo, e impazienti vorrebbero che egli non ponesse ulteriori indugi, e subito puntasse al cuore della Toscana. Con la speranza prende corpo in Dante una diversa o comunque più precisa convinzione politica. Dante, qui dal Casentino, scrive tre lunghe infuocate lettere ai Signori d’Italia, agli scelleratissimi fiorentini, al divo Enrico. Ancora fresca d’inchiostro la stesura del 6° canto del Purgatorio che di queste lettere costituisce la parafrasi. E che parafrasi.
Epistola V (settembre-ottobre 1310)
Alle sorgenti dell’Arno.
A tutti e ai singoli Re d’Italia e ai Senatori della santa città, nonché ai Duchi, Marchesi, Conti e ai Popoli, l’umile italiano Dante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa invoca pace. “Ecco ora il tempo accettevole”, nel quale sorgono i segni della consolazione e della pace. Un giorno nuovo infatti comincia a splendere mostrando dal suo nascere l’aurora che già riduce le tenebre della lunga calamità; e già le brezze orientali si fanno più frequenti; rosseggia il cielo ai confini dell’orizzonte e conforta di dolce serenità le speranze delle genti. O Italia, ora degna di pietà perfino per i saraceni,
…asciuga le lacrime e cancella i segni dell’afflizione, o bellissima, è vicino colui che ti libererà dal carcere degli empi, che percuotendo a fil di spada i malvagi li disperderà e affiderà la sua vigna ad altri agricoltori che al tempo del raccolto diano in cambio il frutto di giustizia.
E voi che piangete oppressi “sollevate l’animo, ché vicina è la vostra salvezza”. Prendete il sarchio della buona umiltà e, spezzate le zolle della riarsa animosità, spianate il campicello della vostra mente affinché la pioggia celeste, venendo per caso prima che sia gettata la vostra semente, non cada a vuoto dall’alto. Non si ritragga da voi la grazia divina come la rugiada quotidiana dal sasso, ma come una valle feconda concepite e germinate il verde; il verde, dico, fruttifero di vera pace; e sulla vostra terra ritornata verdeggiante il nuovo agricoltore dei Romani aggiogherà con maggior rispetto e con maggiore fiducia i buoi della sua saggezza. Perdonate, perdonate già da ora, voi che con me avete sofferto ingiustizia, perché Colui dal quale come da un punto si biforca la potestà di Pietro e di Cesare, volentieri punisce la sua famiglia ma più volentieri ne ha pietà.
Agli scelleratissimi fiorentini
Epistola VI
Alle sorgenti dell’Arno 1311.
Dante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa agli scelleratissimi Fiorentini che vivono tra le mura di Firenze.
La pia provvidenza dell’eterno Re che mentre perpetua nella sua bontà le cose del cielo, non abbandona disprezzandole le nostre cose di quaggiù, ha disposto che le cose umane debbano essere governate dal sacrosanto Impero dei Romani affinché nella serenità di tanto presidio il genere mortale abbia pace e civilmente possa vivere. O cinti da un ridicolo riparo confidate in qualche
difesa? O malvagiamente concordi! O acciecati da una incredibile passione! A che gioverà aver cinto di steccato la città, a che averla armata di ripari e di merli, quando sopravverrà l’aquila in campo d’oro terribile, che trasvolò superba un tempo i vasti mari?
Vedrete i vostri edifici... precipitare sotto i colpi dell’ariete, e, tristi, esser inceneriti dal fuoco.
Vedrete la plebe d’ogni intorno infuriante ora divisa a favore o contro, poi unita contro di voi gridare terribile perchè non sa essere affamata e timorosa insieme
E non vi accorgete, poiché siete ciechi, che è la cupidigia che vi domina, che vi blandisce con velenosi sussurri, che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle santissime leggi che sono fatte a immagine della giustizia naturale; l’osservanza delle quali, se lieta, se libera, non solo è dimostrato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia, appare chiaro che è la stessa suprema libertà. Se non volete dissimulare, riconoscete dunque che è giunto il tempo di pentirvi amarissimamente delle temerarie presunzioni.E un tardivo pentimento d’ora in poi non porterà il perdono, ma coinciderà con l’inizio di un tempestivo castigo. Scritto il 31 marzo 1311 in Toscana, alle sorgenti dell’Arno, nel primo anno della faustissima venuta di Enrico Cesare in Italia.
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