giovedì 5 aprile 2007

Letture di Paola (2)



Irène Némirovsky



Il gatto




Nella camera in cui dormivano i bambini Péricand il gatto Albert si era fatto il suo giaciglio. Salito sul piumino che teneva caldi i piedi di Jacqueline, aveva cominciato a ciancicarlo e a mordicchiare il cretonne profumato di colla e di frutta, ma poi la balia lo aveva cacciato via. Per tre volte di seguito, non appena lei girava le spalle, Albert aveva riconquistato la sua postazione con un balzo silenzioso dalla grazia aerea, ma alla fine aveva dovuto cedere e si era sdraiato sotto la vestaglia di Jacqueline, nell’accogliente cavità di una poltrona. Nella stanza ogni cosa era immersa nel sonno. I bambini riposavano tranquillamente e la balia si era assopita recitando il rosario. Il gatto, immobile, lanciava dardi sui grani della coroncina che brillavano al chiaro di luna con un occhio fisso e verde; l’altro restava chiuso. Il corpo era nascosto sotto la vestaglia di flanella rosa. Piano piano, con estrema delicatezza, tirò fuori una zampa, poi l’altra, le allungò e le sentì fremere dall’articolazione superiore, molla d’acciaio ricoperta di morbida e calda pelliccia, fino alle unghie dure e trasparenti. Prese lo slancio, saltò sul letto della balia e la puntò a lungo senza muoversi, solo facendo vibrare l’estremità dei baffi sottili. Spinse avanti la zampa e toccò i grani del rosario; dapprima li agitò appena, poi prese gusto al contatto con le minuscole sfere perfette che gli rotolavano lisce e fresche fra le unghie e dette loro una scossa più forte. Il rosario cadde a terra. Il gatto si spaventò e sparì sotto una poltrona.

Poco dopo Emmanuel si svegliò e si mise a strillare. Le finestre erano aperte, e così pure le imposte. La luna illuminava i tetti del villaggio, le tegole scintillavano come scaglie di pesce. Il giardino era profumato, tranquillo, e quella luce argentea sembrava muoversi come un’acqua trasparente, fluttuare e ricadere dolcemente sugli alberi da frutto.

Sollevando con il muso le frange della poltrona, Albert guardava quello spettacolo con aria grave, stupita e sognante. Era un gatto molto giovane, vissuto sempre in città, dove le notti di giugno si avvertono solo da lontano, e solo a volte se ne può respirare una folata tiepida e inebriante. Ma lì il profumo gli saliva fino ai baffi, lo avvolgeva, lo afferrava, lo penetrava, lo stordiva. Con gli occhi socchiusi, si sentiva investire da ondate di odori fortissimi e delicati, quello degli ultimi lillà con il loro leggero sentore di decomposizione, quello della linfa che scorre negli alberi e quello della terra tenebrosa e fresca, quello degli animali — uccelli, talpe, topi, quante prede! —, odore muschiato di peli, di pelle, odore di sangue... Sbadigliò di bramosia, saltò sul davanzale della finestra e passeggiò lentamente lungo la grondaia. Era lì che, due giorni prima, una mano robusta e decisa lo aveva afferrato e lo aveva ributtato sul letto di una Jacqueline in lacrime. Ma ora non si sarebbe lasciato prendere. Misurò con lo sguardo la distanza fra grondaia e suolo: era un gioco, per lui, superare quello spazio, ma volle darsi importanza esagerando la difficoltà di quel salto. Fece oscillare il treno posteriore con aria feroce da vincitore, spazzò la grondaia con la lunga coda nera e, con le orecchie appiattite all’indietro, si slanciò e si ritrovò sulla terra smossa di recente. Esitò un attimo, poi affondò il muso nel terreno; adesso era al centro, nel cuore, nel grembo stesso della notte. Era nella terra che bisognava sentirla: i profumi erano tutti lì, fra le radici e i sassi, non ancora evaporati, non ancora svaniti nel cielo o diluiti nell’odore degli umani. Erano eloquenti, segreti e caldi. Erano vivi. Da ciascuno di essi fuoriusciva una piccola vita nascosta, felice, commestibile... Maggiolini, topi campagnoli, grilli e la piccola ranocchia dalla voce piena di lacrime cristalline... Le lunghe orecchie del gatto, piccoli coni rosa dai peli d’argento, appuntiti e delicatamente arrotolati all’interno come un fiore di convolvolo, si drizzarono: Albert ascoltava i rumori lievi delle tenebre, così sommessi, così misteriosi e, solo per lui, così chiari — fruscio dei fuscelli di paglia nei nidi in cui l’uccello veglia i suoi piccoli, frullare di piume, minuscoli colpi di becco sulla corteccia di un albero, fremito d’ali e di elitre, zampe di topo che grattano piano la terra e perfino l’impercettibile esplodere dei semi che germogliano. Occhi d’oro saettavano nell’oscurità, i passeri addormentati sotto le foglie, il grosso merlo nero, la cinciallegra, la femmina dell’usignolo; il maschio era ben sveglio, lui, cantava e le rispondeva dalla foresta e dal fiume.

Ma si potevano cogliere altri suoni: una detonazione che a intervalli regolari saliva, sbocciava come un fiore e moriva, e ogni volta tutti i vetri del villaggio tremavano, le imposte sbattevano e venivano subito richiuse nell’oscurità, e parole angosciate volavano nell’aria da una finestra all’altra. Sulle prime il gatto sobbalzava a ogni colpo, la coda ritta: riflessi cangianti correvano sulla sua pelliccia, la tensione gli irrigidiva i baffi. Poi si abituò a quel fragore che si avvicinava sempre più e che lui probabilmente scambiava per un tuono. Fece qualche capriola in mezzo alle aiuole, sfogliò con le unghie una rosa: era sbocciata completamente, le sarebbe bastato un soffio per disfarsi e morire; i suoi petali bianchi si sarebbero sparpagliati a terra in una pioggia languida e profumata. All’improvviso il gatto si arrampicò fin sulla cima di un albero lacerandone la corteccia con le zampe; il suo balzo era rapido quanto quello di uno scoiattolo. Alcuni uccelli spaventati volarono via. All’estremità di un ramo Albert eseguì una danza selvaggia, guerriera, insolente e ardita, sfidando il cielo e la terra, gli animali e la luna. A tratti apriva la bocca stretta e profonda facendone uscire un miagolio stridulo, un richiamo acuto e provocante rivolto a tutti i gatti del vicinato.

Nel pollaio e nella piccionaia gli animali si svegliarono tremanti, nascosero il capo sotto l’ala, sentirono l’odore della pietra e della morte; una gallinella bianca salì precipitosamente su un secchio di zinco, lo rovesciò e fuggì chiocciando disperatamente. Ma il gatto adesso era saltato tra l’erba e stava immobile, in attesa. Gli occhi rotondi e dorati scintillavano nell’ombra; ci fu un fruscio di foglie smosse e lui riapparve, portando in bocca un uccellino inerte e leccando adagio il sangue che usciva dalla ferita. Beveva quel sangue caldo con delizia, strizzando le palpebre. Aveva conficcato le unghie nel cuore della bestiola, ora disserrandole, ora affondandole nelle carni tenere, negli ossicini leggeri, con un movimento lento, ritmato, finché quel cuore non cessò di battere. Mangiò l’uccello senza fretta, si pulì, si leccò la coda, la punta della sua bella coda di pelliccia su cui l’umidità della notte aveva lasciato una traccia bagnata e brillante. Ora si sentiva disposto alla benevolenza: un toporagno gli passò fra le zampe senza che lui lo afferrasse, poi si limitò ad assestare sulla testa di una talpa un colpo che le insanguinò il muso e la lasciò mezzo morta; ma non si spinse oltre, la osservò con un piccolo fremito sdegnoso delle narici e non la toccò. Un’altra fame si destava in lui; le reni si marcarono, alzò la testa e miagolò ancora una volta, un miagolio che finì in un grido imperioso e rauco. Sul tetto del pollaio, raggomitolata al chiaro di luna, era apparsa una vecchia gatta rossiccia. La breve notte di giugno volgeva al termine, le stelle impallidivano, l’aria aveva un odore di latte e di erba bagnata; la luna seminascosta dietro la foresta mostrava solo una punta rosa che scompariva nella nebbia, quando il gatto, stanco, trionfante, intriso di rugiada, masticando un filo d’erba fra i denti, si infilò nella camera di Jacqueline, sul suo letto, cercando il posto tiepido fra i piccoli piedi magri. Si mise a fare le fusa, quel ron ron sembrava il suono di un bollitore.

Qualche istante dopo la polveriera saltò.

Temporale di giugno, cap. 20, in Suite Francese cit. pag.105-108

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