Spoon River sulla collina di S.Miniato.
(Il cimitero monumentale si trova dietro la basilica di S.Miniato, sopra il Piazzale Michelangelo)
Quanto tempo era che non ascoltavo recitare Spoon River, questa mesta opera poetica, così unica nel suo genere, così in un certo senso ingenua, ma anche vera. L’ho riascoltata domenica scorsa al cimitero delle Porte Sante, dalla voce di 37 attori e attrici tutti giovani e devo dire convincenti.
In genere i cimiteri hanno su di me un doppio potere: di attrazione e di repulsione. Mi attrae scoprire un viso interessante, una storia commovente e con un finale drammatico, la giovinezza stroncata, la grazia di un viso che sorride inconsapevole di un destino avaro, una poesia messa lì dall’amore di un padre, di un marito e potrei continuare, con tutti quei particolari che subito mettono in movimento i sentimenti già predisposti nel momento in cui si entra in questi luoghi. D’altra parte ci sono cose che mi disturbano e mi fanno nascere dentro una tristezza che mi stringe alla gola. Tutto quel marmo bianco così orrendo, quelle cappelle con i vetri bui e mezzi rotti e quei pinnacoli gotici agghiaccianti. Che peso sul cuore! Come sarebbe più gradito un cimitero di pietre tufacee o comunque pietre, magari in forma di sassi con erba intorno. Una piccola città silenziosa, morta appunto, ma con discrezione, con rispetto dei morti prima di tutto, ma anche dei vivi. Benvenute le piccole urne dell’incinerazione, quando sempre più questo modo rispettoso di tutto, della persona e del luogo, sarà più diffuso. E’ pensando a quel piccolo cimitero di collina che aveva ispirato E.L.Masters che ho ascoltato con piacere e talvolta con commozione gli attori che, disseminati un po’ in tutto lo spazio, facevano parlare i personaggi di Spoon River. Essi sono, secondo un certo gusto romantico ma anche secondo le scelte personali dello scrittore, povera gente che è stata maltrattata dalla vita e lo dice perché le offese non siano dimenticate e perché la loro voce, a volte gentile a volte disperata, arrivi al passeggero e desti un sentimento d’affetto. Queste storie sono quasi tutte belle nel senso che esprimono un’umanità vera, nonostante che siano un’invenzione letteraria. Da qui certamente la fortuna di quest’opera nel tempo. Mi sono piaciute particolarmente tre donne: Maria Cassi, bravissima nella parte di Dippold, l’ottico, la dolce moglie suicida dopo l’operazione che l’aveva lasciata ormai quasi invalida, non so da chi interpretata e infine il personaggio di Lucinda Matlock (**) di cui Giusi Merli ha reso benissimo la serenità di una vita lunga e appagata. Questa serata ha avuto anche una splendida cornice naturale. Cielo terso, piccole nuvole bianche dietro cui tramontava un sole color d’oro in un clima ancora dolcemente estivo. Paola Galli.
(**) Lucinda Matlock
Andavo a ballare a Chandlerville,
e giocavo a carte a Winchester.
Una volta ci scambiammo i cavalieri
al ritorno in carrozza sotto la luna di giugno,
e così conobbi Davis.
Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni,
divertendoci, lavorando, crescendo dodici figli,
otto dei quali ci morirono,
prima che arrivassi a sessant’anni.
Filavo, tessevo, tenevo in ordine la casa, assistevo i malati,
curavo il giardino, e alla festa
andavo a zonzo per i campi dove cantavano le allodole,
e lungo lo Spoon raccogliendo molte conchiglie,
e molti fiori ed erbe medicinali—
gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.
A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto,
e passai a un dolce riposo.
Cos’è questa storia di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze cadute?
Figli e figlie degeneri,
la vita è troppo forte per voi—
ci vuole vita per amare la vita.
(In omaggio a Giusi Merli -perfetta e creativa - che sta qui all'Isolotto).
Andavo a ballare a Chandlerville,
e giocavo a carte a Winchester.
Una volta ci scambiammo i cavalieri
al ritorno in carrozza sotto la luna di giugno,
e così conobbi Davis.
Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni,
divertendoci, lavorando, crescendo dodici figli,
otto dei quali ci morirono,
prima che arrivassi a sessant’anni.
Filavo, tessevo, tenevo in ordine la casa, assistevo i malati,
curavo il giardino, e alla festa
andavo a zonzo per i campi dove cantavano le allodole,
e lungo lo Spoon raccogliendo molte conchiglie,
e molti fiori ed erbe medicinali—
gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.
A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto,
e passai a un dolce riposo.
Cos’è questa storia di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze cadute?
Figli e figlie degeneri,
la vita è troppo forte per voi—
ci vuole vita per amare la vita.
(In omaggio a Giusi Merli -perfetta e creativa - che sta qui all'Isolotto).
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