Sandor Màrai I
Al ricordo di Budapest dedico alcuni passi di un libro or ora letto, sull’onda dell’emozione che ancora culla il mare calmo di questa fine estate casentinese, sotto le pendici del Pratomagno, circondato da paesaggi amici e ricordi, anche di guerra. Il libro mi ha particolarmente interessato perché mi ha fatto rivivere momenti simili - pur con tutte le differenze - da me vissuti negli anni di guerra e del dopoguerra. Scelgo passi che possono dir qualcosa anche ai più giovani di me. E’ comunque uno scrittore che val la pena di conoscere. Questo è il primo post della serie. La Budapest di Sandor Marai Non so come sia per gli altri, ma io, quando penso a una città, ungherese o straniera che dirsi voglia, non vedo subito un'immagine, ma sento alcune battute musicali. New York, Parigi, Kolozsvar o Berlino: basta che un pensiero casuale o un'associazione di idee mi faccia balenare alla mente il nome di una città e odo una musica. È come se qualche nota, una melodia, definisse il significato di un luogo. Tanto per dire, se qualcuno pronuncia in mia presenza il nome di New York, questo non evoca in me la vista che si gode dal centesimo piano dell'Empire State Building: sento invece per un attimo qualche battuta della Rapsodia in blu di Gershwin, quella musica nevrotica dal guaito dolente e voluttuoso. Non conosco il perché di questo modo musicale di ricordare una città, dato che non mi arrivano mai segnali in musica quando penso a uomini o a paesi. Tra i fenomeni della coscienza il meccanismo della memoria è per me il più misterioso e spaventoso, e il sincronismo ritmico-melodico che al solo sentir pronunciare il nome di una città scatta nella mia mente è tanto incomprensibile quanto, in scala maggiore, l'enigma dell'archiviazione e della rievocazione dei ricordi. È come se una melodia fosse per me il marchio di fabbrica di una città, ma non posso misurare la durata di questo intermezzo musicale dato che sulla passatoia mobile della memoria iniziano a scorrere immediatamente le immagini, senza più suoni. Queste immagini di città sono sempre grigie, come i miei sogni sono sempre in bianco e nero, mai a colori. Budapest è l'unica città a non destare in me melodie, ma versi. Ad esempio, qualche volta ricordo automaticamente il verso disperato, l'urlo, di Babits: «Cosa ho io a che fare con i peccati del mondo? »... Questo grida Giona nel bellissimo poema del grande poeta ungherese quando si rende conto che non c'è la Provvidenza, ma che esistono solo i fatti. Il verso mi torna spesso in mente al pensiero di Budapest, risuonando come un testo inciso sul nastro di un magnetofono. Nel mio caso, però, altri versi incisi su questo nastro prendono vita allorché viene evocato un nome di città. I versi miei dei tempi in cui scrivevo ancora poesie. Durante l'assedio avevo buttato giù qualche verso, ma non sono un poeta; nel mio sistema nervoso e nella mia coscienza manca quell' energia condensatrice che è la poesia, la quale con una sola parola, per mezzo di un comunicare magico, qualche volta demoniaco, riesce a catalizzare gli elementi della passione e della ragione come il nucleo dell'atomo con i protoni e i neutroni... Eppure mi era capitato di scrivere certi versi alla fine dei quali talvolta si sentiva tintinnare il «barbarico gioiello », la rima. Qualcosa che poteva sembrare poesia, ma ai miei versi mancava la densa ed esplosiva forza della tensione. E senza tensione non vi è poesia. Eppure qualche volta questi versi di fattura casalinga, riecheggiano in me quando penso a Budapest. E subito dal deposito della memoria, scaturisce l'immagine di un angolo di strada di Budapest, o un volto umano. Come se quelle rime fossero una didascalia in un album di fotografie. Perché Budapest - e in seguito tutto ciò che W concetto della città comprendeva - per me è rimasta raffigurata in quadretti-miniatura, minuscole fotografie, una sfilza di ricordi in un album che sfoglio di tanto ,intanto. Questi quadretti, a differenza di una pellicola cinematografica, non rappresentano azioni, ma una serie di immagini fisse. E come i maestri fiamminghi trovavano il modo di inserire nelle loro miniature, con sottilissimi tratti di pennello, una città medioevale completa di bastioni, chiesa, patibolo, case dai tetti spioventi e persone sfaccendate nella microscopica piazza, così tutto quello che ho vissuto a Budapest nei tre anni dopo l'assedio fino al momento dell' esilio volontario è rimasto palpabile in questi piccoli quadri dalla cornice sottile. E sono immagini che non «si muovono» perché la storia è sempre un quadro fermo: ciò che è stato è morto. Contemplo i miei ricordi di Budapest come se stessi guardando un album di famiglia, fotografie di parenti morti, di conoscenti dallo sguardo rigido, dall'aspetto al tempo stesso ridicolo e spaventoso. E’ passato un quarto di secolo, cioè circa una generazione, da quando ho visto per l'ultima volta Budapest. In questi venticinque anni rari sono stati i giorni in cui non abbia sfogliato questo album, in cui non abbia pensato a Budapest. E sempre con un battito di solidarietà nelle vene al ricordo di una città così bella e particolare. Ma mai con nostalgia. Ogni volta che ho sognato di tornare a casa, che ero di nuovo a casa, a Budapest, si è trattato sempre di un sogno tormentoso, pieno di angoscia. E svegliarmi era un sollievo: era stato solo un sogno. Per un quarto di secolo, in terra straniera, spesso tra un'indifferenza oceanica da far battere i denti, il pensiero di aver avuto la forza di lasciare la mia città e di non aver dovuto vivere tutto quello che là era accaduto è stato una ripetuta fonte di sollievo. Talvolta ho creduto che questo tranquillizzarmi al risveglio dal mio incubo fosse una forma di vigliaccheria, ma tutto sommato sono contento di aver avuto la forza di abbandonare la zona di pericolo e di non aver dovuto - pur se involontariamente e sapendomi refrattario, ma per il solo fatto di essere rimasto là - farmi complice di tutto quello che poi è stato. Ma questa è una scappatoia. La verità è un'altra. In fondo a tutto quello che ho pensato, sentito e sognato intorno a Budapest balugina il ricordo del momento in cui compresi perché mi avesse sommerso un senso di sollievo, come un caldo afflusso di sangue, una vertigine, quando, al ritorno dal villaggio, vidi le rovine della mia casa.
(Sandor Màrai, Terra terra, ed. Adelfi 2005, pagg.101-103).
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