lunedì 19 marzo 2007



Un racconto di Paola

Te ovoltut iek ker / Avere una casa

 

Stasera siamo in visita. Le donne ci vengono incontro lungo il breve sentiero che scende dal villaggio nuovo di piccole case di legno. E’la prima volta che andiamo a vederle.

“Seustilan”, buon giorno, ciao. Si stringono addosso i golf perché è una giornata ventosa e fredda. La prima è la casa di Sabilja che è in angolo, in prima fila. E piccola, due stanze, ma è una casa. Dentro c’è tepore e lei socchiude la porta del bagno per far vedere che c’è tutto, la doccia, il mobiletto bianco con lo specchio e sopra una graziosa bottiglia di schiuma da bagno colorata. La camera è per il figlio, lei la notte si sistema in cucina.

- Perché non il contrario, Sabilja?

Mai! Queste persone che quasi sempre gestiscono paternalisti­camente la vita dei figli quando sono molto giovani, riservano a loro la camera e dormono in cucina sul divano letto.

La “pitta” che ha sapore di ricotta e di pasta sfoglia si abbina bene col succo di frutta, ma Sabilja offre anche il caffè turco leggero e profumato. Si dà da fare, come sempre, perché pren­diamo, assaggiamo, spartiamo con lei. Scappo nella camera per vedere le cose del figlio. Sì, somigliano a quelle di tutti i figli. Piccole collezioni di orologi, di bandierine, di accendini, grandi scarpe in un angolo. Penso a Ermes, che fra poco tornerà dal lavoro, un lavoro continuativo, per ora. Questa è la prima volta che ha una camera tutta per sé. Ma eccolo, entra, sorride un po’ imbarazzato davanti a tante donne che lo guardano com­

piaciute, ma sempre estranee. Sorride con gli occhi neri e belli nel piccolo viso bruno. E a noi viene voglia di sperare che il suo sia un buon futuro.

La casa di Scegersada è piena di tendine fresche, ricamate da lei e dalla figlia, mentre beviamo con gusto il tè caldo, sentiamo il piace­re di stare in una casa ben tenuta, dove gli spazi, forse troppo piccoli per questa famiglia di persone dalla corporatura alta e robusta, sono curati nei particolari. Alla parete di sinistra sono appesi tre piccoli ritratti. Mi accorgo che sono oggetti del tutto estranei alla cultura rom e due di essi sono perfettamente uguali: il ritratto di Cecilia Gallerani, la donna con l’ermellino di Leonardo. Sarà la grazia del viso e della pettinatura giovanile e modernissima che è piaciuta così tanto alla ragazza di casa? Non si può proprio non essere d’accordo. E inevitabile una riflessione sulla rapidità con cui le giovani genera­zioni si aprono alla cultura del paese in cui vivono.

Ci accoglie, alla fine della visita, la casa di Zenepa. Una tenda ben drappeggiata separa la cucina vera e propria da una specie di piccolo salotto. Siamo un po’ allo stretto, ma anche qui la camera è per i giovani, anzi giovanissimi, sposi. Guardo la culla nell’angolo col bimbetto nato da poco e la faccia di bambina della mamma. Sembra quasi annoiata, un po’ fuori luogo. Forse il suo posto sarebbe a chiacchierare con le amiche o a divertirsi, libera e spensierata nel suo lontano paese dove probabilmente non ha mai neppure visto il mare.

Mentre ci salutiamo partendo, poiché si è fatto tardi, il vento sibila penetrando dentro i fragili ripari di legno che gli uomini hanno eretto intorno alle casette. Diciamo grazie, “ansasti”, e gettiamo solo uno sguardo veloce alla piccola “moschea” perché ci fa fatica toglierci le scarpe per poter entrare.

Sulla via del ritorno penso al senso di estraneità che ci coglieva le prime volte quando venivamo al campo, al rigagnolo d’acqua che scorreva tra i piedi nella stradina che saliva al luogo dov’erano aggrappate le roulottes e le baracche, ai residui di og­getti rotti sparsi qua e là, alla musica a tutto volume che usciva da dietro qualche porta sconnessa, un pezzo di legno di fortuna messo lì a proteggere persone e cose, mentre voci sconosciute si scambiavano parole sconosciute. Un mondo a parte, a cui si sottraeva un po’ il recinto di legno pieno di bambini dagli occhi neri e vivaci che correvano qua e là sotto lo sguardo compiaciu­to di qualche donna anziana dal capo coperto. In fondo, dove una tenda segnava l’ingresso al bar, troneggiava un contenitore rosso di metallo che esibiva bottiglie di Coca-Cola. La Coca­Cola, l’elemento che a suo modo ricuciva l’estraneità riportan­doci all’immagine del nostro mondo di consumi e di benessere. Un insieme che, pur addolcito dalla cura degli interni di certe baracche, con le tende in bella vista e i numerosi tappeti, nel complesso riconfermava l’immagine tradizionale dei campi rom nei nostri paesi, cioè di luoghi dove nessuno vorrebbe mai non dico abitare ma nemmeno essere ospite per un giorno.

Del resto questa realtà difficile e dolorosa traspariva dalle pa­role delle donne. La casa era uno dei punti dolenti.

- Laggiù (nel Kossovo) era la mia casa, piccola. L’aveva costrui­ta la mia famiglia. Ora non c e casa. Io avevo grande casa con mia suocera; intorno c’era orto. Io sempre mangiavo i cetrioli piccoli crudi e lei brontolava.

Sempre, ogni volta che cadeva il discorso, si affacciavano alla memoria queste immagini di un passato certo non del tutto se­reno, sicuramente non fondo, ma dove non era stato ancora di­strutto dalla guerra e dalla povertà estrema questo fondamento del vivere che è la casa, il perimetro degli affetti più intimi, il luogo dove nasce la vita e prende nutrimento la relazione, pur con tutti i suoi problemi. Quando è stato costruito il villaggio di casette dileguo, le donne non hanno preso quasi niente delle vecchie cose, perché erano segnate da una degradazione che non si volevano portare dietro.

- Basta con la pioggia che mi veniva dentro casa, con gli scara­faggi che scappavano dappertutto e anche col serpente che c era

dietro la baracca quando stendevo i panni, dice Scegersada ri­dendo, ma ancora con un’ombra di disgusto negli occhi.

Certo nemmeno questa è la casa vera.

- La casa vera, ker ciacie, è quella dove non devi tenere i vestiti vicino al letto la notte perché siano pronti se scoppia l’incendio, dice Zenepa.

Penso a come mi dispiace non averle conosciute nel loro am­biente queste donne. Sabilja che correva a gara coi maschi nella neve e non voleva che il fratello sparasse agli animali nel bosco, Zenepa che si aggirava nell’orto a scovare i piccoli cetrioli tene­ri di nascosto alla suocera, Scegersada che saliva a piedi i molti piani della casa del babbo quando l’ascensore era rotto. Proprio come da noi. Magari si potrebbe anche aggiungere che l’ugua­glianza preesiste, è il dato biologico, la diversità viene dopo, è accidentale e spesso porta con sé povertà e svantaggi notevoli. Per questo possiamo stare insieme e parlarci perché sotto la diversità affiora quello che abbiamo in comune. Le immagino queste donne, ora madri di quattro, cinque figli, quando erano ragazze timide e inconsapevoli del loro futuro. Come eravamo noi, nel nostro mondo allora più represso e repressivo e mol­to meno ricco di ora. I loro sogni non erano tanto diversi dai nostri: l’amore, la famiglia, l’amore soprattutto, perché come famiglia a vent’anni ti basta quella che hai già e a volte sembra che ti leghi anche troppo. Oggi a tutte ci dolgono braccia, gam­be e schiena per l’artrosi, a tutte ci piace sederci insieme nella pausa del lavoro, mangiando i biscotti o la schiacciata con l’olio, a chiacchierare di cose che alleggeriscono il peso della giornata e allontanano per un po’ i pensieri molesti.

Ora mi pare che il vento si sia un po’ calmato, mentre lasciamo il piazzale sterrato e ci avviamo verso il nostro mondo di con­sumi con la mente e il cuore pieni di sensazioni piuttosto forti, anche se un po’ confuse.

(Pag.56)

 
I QUADERNI DI PORTO FRANCO. nuova serie.

16. Manididonne

un racconto a più voci

donne

si incontrano,

comunicano,

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di integrazione




Un libro per comunicare uno stile di integrazione ed una capacità operativa al femminile: contenuti, valori e realizzazioni di donne che accettano di mettersi in gioco e di osare il futuro possibile.

dicembre2006



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Regione Toscana Giunta Regionale - Direzione Generale politiche formative e beni culturali

PORTO FRANCO.Toscana. Terra dei popoli e delle culture

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Leggi anche qui. Ci trovi l'introduzione del libro, a cura di Luciana Angeloni.


Ceterum censeo north american gang dimittendam esse



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