3 Gennaio 2012 -
martedi
Si
parte alle 7,30 per andare ad Hebron. Lungo la strada che si snoda con continui
saliscendi in un bel paesaggio collinare, molti insediamenti di coloni illegali
e molte colline occupate da caravan. Ci fermiamo ad una interessante fabbrica
di vetri e vasi in terracotta e assistiamo a tutti i procedimenti per la loro
costruzione. Verso le 10, lasciata la strada principale, si sale per una
stradella sterrata recentemente sistemata alla meglio, per la felicità del
nostro bravo autista Maher, per raggiungere il villaggio di At Tuwani, nel
distretto di Hebron a sud est di Yatta. Dal finestrino del pullman vediamo
trotterellare verso di noi un piccolo bimbo biondo di circa 2 anni, che scende
dal povero villaggio a terrazzamenti di muri a secco arroccato su per la
collina precedendo il padre, Afez, coordinatore
del Comitato Popolare della zona. Scendiamo davanti ad un dignitoso edificio
bianco a due piani adibito a presidio sanitario e ambulatorio medico. Qui
incontriamo tre giovani ragazze italiane facenti capo all’Associazione di
Operazione Colomba, che sono qui con visto turistico per aiutare gli abitanti
del villaggio ma soprattutto per scortare i bambini fino alla scuola. Infatti i
bambini dei vicini villaggi per raggiungere la scuola di At Tuwani devono
passare vicino all’ insediamento di Ma’on e all’avanposto di Havat Ma’on,
illegale anche per la legge israeliana, i cui coloni sono particolarmente
violenti e spesso scendono dal villaggio per poter attaccare i bambini. Nel recente
passato si sono verificati gravi episodi di violenza proprio lungo la strada
che porta alla scuola. Questi operatori vivono nel villaggio ospiti di Afez per
tre mesi dopodiché vengono sostituiti da altri giovani internazionali. Sono
presenti anche dei giovani volontari clowns con l’obiettivo di rallegrare le
giornate di questi bambini a cui l’oppressione ha negato il diritto ad una
infanzia felice. Ogni giorno gli abitanti di At Tuwani debbono mettere in atto
azioni di resistenza non violenta, per opporsi ai coloni che tentano con ogni
mezzo di appropriarsi della terra e di distruggere le case e gli uliveti del
villaggio. Mentre Afez parla, il piccolo biondo si aggrappa alle sue gambe,
come a chiedere protezione e affetto. Ci incamminiamo su per una strada
rocciosa e sconnessa in direzione dell’insediamento in cima alla collina.
Questa è la strada che i bambini devono fare per andare a scuola. Ci fermiamo
vicino ad un posto di controllo al di là del quale non è più possibile andare.
Davanti a noi si stendono campi ben tenuti coperti di serre e con colture
protette da pacciamatura, tutti rigorosamente circondati da filo spinato. In
alto, sopra i campi, un bel boschetto di alberi sempreverdi e nella valletta
sotto l’insediamento un moderno impianto di piante da frutto. Naturalmente per
realizzare questi impianti agricoli i coloni si sono impadroniti dell’acqua
della falda freatica, giungendo ad attingere anche a quella artesiana e
sottraendola di conseguenza ai campi dei contadini palestinesi, che diventano
sempre più aridi.
Nel frattempo è arrivato anche il sindaco di
Yatta, un grosso paese vicino, 8 km a sud di Hebron, che è voluto venire a darci il suo benvenuto in Palestina. Dopo
un giro per la polverosa strada del villaggio, in mezzo a tanti bambini che
giocano con niente, si parte per raggiungere verso le 13 Hebron. Si percorre
una affollata strada piena di botteghe e di bancarelle che vendono di tutto,
per raggiungere il Centro dei Comitati Popolari, dove ci viene servito un
pranzo precotto. Dopo, il giovane responsabile del Centro ci spiega la
situazione della città, che è a 35 km da Gerusalemme ed è stata occupata fin
dal 1967. Vi sono 5 insediamenti che hanno diviso in due l’area urbana: la zona
H1, sotto controllo palestinese e la zona H2, sotto controllo israeliano. Dopo
la spiegazione l’operatore del Centro ci guida per la città per farci toccare
con mano la situazione prima descritta. La strada che attraversa la città è
proibita ai Palestinesi e i vari accessi sono bloccati dai soldati con tanto di
mitra in mano. Ancora una volta prendiamo contatto con una allucinante realtà.
I palestinesi che hanno l’ingresso della propria abitazione nella zona proibita
hanno messo delle scale appoggiate alla casa dal lato a loro accessibile per
entrare in casa attraverso i tetti. Vediamo le strade laterali che sboccano
nella via principale, che dopo la prima Intifada erano state chiuse con bidoni,
ora sbarrate con blocchi di cemento, con alti muri o con sbarramenti e cancelli
di ferro. Solo in città vi sono 101 chiusure e 511 negozi hanno dovuto chiudere
per decreto militare. Anche gli studenti piccoli e grandi vengono controllati ogni
giorno prima di recarsi a scuola e le loro cartelle perquisite ai passaggi
obbligati. Molto spesso si arriva anche all’attacco fisico alle persone.
Percorriamo strade della città vecchia protette, come a Gerusalemme, da reti o
teloni per impedire a ogni genere di rifiuti di cadere per terra e di contro le
case israeliane situate ai piani alti sono protette da reti e fili spinati.
Il responsabile del Centro ci dice che in
pratica 220.000 Palestinesi vivono sotto occupazione di 400 coloni, aiutati da
1.500 soldati. Una delle forme di resistenza non violenta consiste nel
ristrutturare nei limiti delle loro possibilità economiche e materiali le
vecchie case della città che ha 5.500 anni. Tale ristrutturazione ha lo scopo
di dimostrare che la città non vuole morire, ma anzi viene portata a nuova vita,
a dimostrazione della volontà del popolo di non cedere e di non fuggire. Solo
con le loro forze e con l’aiuto degli asini, sono riusciti a ristrutturare un
numero di antiche case tali da consentire a 5.500 persone di tornare ad abitare
il Centro Storico.
Si arriva davanti ad un reticolato con
cancello che divide la zona H1 dall’H2. Ci dividiamo in due gruppi, uno va con
l’operatore del Centro a visitare la Moschea di Abramo (essa nel febbraio 1994
durante il Ramadan, fu teatro di un massacro ad opera di un colono, Goldstein,
che aprì il fuoco sui fedeli prostrati in preghiera facendo 29 morti e 200
feriti), l’altro con Mike entra nella zona israeliana inaccessibile ai
palestinesi, superando il posto di blocco con soldati armati. Noi seguiamo Mike,
che con il suo aspetto occidentale si mimetizza molto bene con il nostro gruppo
di stranieri in terra israeliana.
L’impatto è traumatico. L’animazione e la vita
che caratterizzano Hebron nella zona palestinese, lasciano il posto ad una
grande strada deserta, che sale verso le grandi case degli ebrei sulla collina.
Incrociamo un gruppo di israeliani che sono venuti con una guida a visitare
l’insediamento, mentre una pattuglia di soldati in tenuta da footing corre in
mezzo alla strada deserta. Ci colpisce l’ultimo della fila, che corre con un
mitra a tracolla a proteggere il gruppo. Solo una grossa jeep blindata ed
armata percorre la strada. Dalle finestre di qualche casa palestinese che ha
l’ingresso dall’altra parte fanno capolino timidi volti di bambini. Sul muro
che delimita la strada, sorvegliata da soldati chiusi nelle torrette, vi sono
cartelli corredati di murales inneggianti alla riconquista di Hebron, capitale
della Giudea, città di Patriarchi e Matriarche, sito del Regno di David, e al
loro diritto di ritornare negli edifici costruiti nel 1807 dal popolo ebraico,
cacciato nel i929 dagli arabi che uccisero 67 ebrei. Si esce da un’altra parte,
tornando finalmente alla vita. L’uscita avviene passando attraverso una casa
mobile messa di traverso alla strada, pattugliata dall’immancabile soldato con
mitra, al di là della quale sono distesi metri di rotoli di filo spinato. Su
due pilastrini di cemento della strada in zona palestinese è scritto: Welcome
to Apartheid Street. (dal diario di Fiorella)
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