Come sono
diventato un ‘terrorista’.
pubblicato in
Haaretz quotidiano israeliano il 23.12. 2011
All’ eta’ di 16 anni, varcando le porte
d’acciaio delle prigioni militari israeliane, non avrei mai potuto ritornare
alla mia vita precedente. L’avamposto di Levinger, la violenza dei suoi coloni,
avevano cambiato in modo permanente la mia vita.
Di Abdelrahman Al
Ahmar
La prima volta che
venni attaccato da un colono israeliano avevo 14 anni. Stavo andando a scuola
quando un uomo armato, con addosso un copricapo e che se ne stava a fianco di
alcuni soldati israeliani, mi strappò lo zaino dalla schiena e lo gettò nel
fango. Ciò non avvenne lo scorso mese, ne’capitò vicino a un nuovo avamposto a
Nablus. Questo successe 30 anni fa, sulla strada principale verso Betlemme,
vicino al campo profughi di Deheisheh, dove abitavo. Questo colono non era
semplicemente una persona disadattata e delusa. Era, appresi più tardi, il padre
del progetto religioso d’insediamento – il rabbino Moshe Levinger.In quei
giorni, i coloni e i bus della Egged nelle loro vie da e per i nascenti
insediamenti nell’area, passavano direttamente attraverso il campo. I
loro veicoli erano spesso gli obiettivi del lancio di molte pietre: chi tra noi
voleva che israeliani armati utilizzassero le nostre strade? Levinger
voleva dimostrare a noi chi era il capo. In un primo momento fermava la
sua auto, ci inseguiva e tentava di attaccarci. Urlava ai
soldati che presidiavano la strada di arrestare e colpire i bambini, I
soldati allora sparavano i gas lacrimogeni e giocavano con noi al
gatto e al topo nei vicoli del campo. Incoraggiato dal supporto dell’esercito,
Levinger a i suoi seguaci ‘pionieri’ entravano nel campo e
aprivano il fuoco a caso. Ne conseguivano scontri. I soldati
allora accorrevano e arrestavano, mentre Levinger e i suoi amici
ritornavano alle loro auto per guidare fino a casa, nei loro
insediamenti. La violenza divenne un fatto quotidiano. Questo rappresenta cosa
era la vita per me e i miei amici durante quegli anni. Per Levinger e il suo
movimento nazionalista, tutto ciò costituiva un
ostacolo ai loro spostamenti da e per Gerusalemme.Per placare questi campioni di Sion, le forze di
difesa israeliane alla fine eressero attorno a Deheisheh una recinzione alta 9
metri e sormontata da filo spinato. Le migliaia di residenti del campo ora
avevano una singola via di accesso e di uscita, presidiata da soldati, così che
sembrava di vivere in una prigione. Un coprifuoco dopo le sette di sera venne
imposto per anni.I coloni avevano vinto: si erano impossessati dell’unica via di
accesso a Deheisheh e della parte sud del West Bank, e avevano messo noi
arabi in gabbia. Prendendo atto della sua invincibilità, il padre del movimento
dei coloni – non una frangia radicale della estrema destra, ma lo stesso
Levinger – creò allora un ‘avamposto’, un nuovo insediamento, lungo la strada
di fronte il campo. Lo fece con un casa mobile, dove issò una bandiera
israeliana, dichiarando questo come il primo insediamento vicino alla tomba di
Rachele. Protetto dai soldati delle forze di difesa israeliana, invitava
i suoi amici pionieri e dava feste fino a tarda notte, mentre noi
rimanevamo sotto il coprifuoco. Come nel caso di Hebron oggigiorno, i soldati
mettevano Deheisheh sotto coprifuoco diurno quando l’insediamento veniva
visitato da delegazioni di coloni affini alle loro idee. Ogni giorno portava un
nuovo incubo – scontri, coprifuochi, gas lacrimogeni, chiusura delle scuole. Le
nostre case venivano colpite di notte e vedevamo i nostri amici,
le nostre madri e le nostre sorelle attaccate. Con il supporto dell’esercito
israeliano, quest’uomo, l’amato rabbino del movimento religioso dei coloni,
stava distruggendo le nostre vite. Non vedevamo nessun segnale di fine a tutto
ciò, soltanto più israeliani in procinto di spostarsi nei nostri quartieri e
rendere le nostre vite un inferno. E così un gruppo di noi ragazzi – in sei, tra
i 13 e i 16 anni – si organizzò e combatté nell’unico modo in cui sapeva farlo:
con pietre e con poche improvvisate bottiglie riempite di cherosene e uno
stoppino fissato all’interno. Le lanciavamo verso l’avamposto e ai
soldati che stavano permettendo di distruggerci la nostra infanzia. Nessuno fu
ferito. E a metà di una fredda notte d’inverno, soltanto pochi giorni dopo che
c’eravamo organizzati, un poliziotto in borghese dei servizi segreti israeliani,
scortato da un grande contingente dell’esercito, rastrellò le nostre case, ci
prese tutti quanti per sottoporci a interrogatori e torture e arrestarci. Lea
Tsemel, il nostro avvocato israeliano, dichiarò di fronte al giudice militare
che “ erano solo ragazzi”. Il giudice rispose con una sentenza che ci condannava
a tutti e sei dai quattro ai sei anni di prigione per attività terroristiche.
Mia madre svenne in tribunale: il suo figlio primogenito, per il quale lei aveva
aspettato per anni, le veniva portato via per sempre. Sì, per sempre, perché a
16 anni, varcando le porte di acciaio delle prigioni israeliane, non sarei mai
più potuto ritornare alla mia vita precedente. L’avamposto di Levinger, la sua
violenza da colono, cambiarono in modo permanente la mia vita. I miei amici ed
io eravamo adesso ”terroristi” e per i successivi 20 anni, saremmo stati
presi dalle porte girevoli degli interrogatori israeliani e delle detenzioni
amministrative. Alla fine, l’avamposto di Levinger è stato smantellato
dall’esercito, che aveva deciso che era troppo difficile da proteggere a causa
dei lanci di pietre dei bambini di Deheisheh.
Adesso ho 44 anni
– come gli anni dell’occupazione israeliana – sono sposato e ho 4 figli. Sto
finendo il mio tirocinio così che potrò diventare avvocato. Ed ancora le azioni
dei pionieri di Levinger – non di una frangia particolare, ma atti del movimento
tradizionale dei coloni – mi spaventano. Ovunque io possa muovermi, ci sono
delle restrizioni e il mio nome è ancora “nel computer”. Sono una minaccia alla
sicurezza se voglio assistere alla nascita di mio figlio all’ospedale di
Gerusalemme, e mi viene rifiutato il visto per poter andar a far visita
alla mia anziana suocera a New York, perché, secondo le autorità
statunitensi,” potenzialmente potrei intraprendere azioni
terroristiche”.
Mi sarei dovuto
comportare in modo differente all’epoca? Suppongo che se un colono israeliano
dovesse strapparmi lo zaino dalla schiena e buttarlo per terra oggi,
probabilmente scriverei un reclamo. La violenza da entrambe le parti è una parte
importante del problema, non la soluzione. Il progetto degli insediamenti, nella
sua stessa essenza e non in una delle sue frange, era e rimane marcio e
intrinsecamente violento. Noi palestinesi abbiamo lottato a lungo per
interrompere questo progetto, che viola i più elementari diritti del diritto
internazionale, e per questo siamo stati etichettati come terroristi. Oggi la
società israeliana potrebbe pagare il prezzo a livello esistenziale del progetto
degli insediamenti, ma noi palestinesi lo abbiamo pagato con i nostri corpi, le
nostre vite e il nostro futuro.
Abdelrahman Al
Ahmar proviene dal campo profughi di Deheisheh. Oggi
è il vice sindaco eletto del comune di Doha, vicino a Betlemme e Deheisheh.
traduzione a
cura di Domenico Tucci - AssoPace- Palestina
(email di Luisa Morgantini)
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