Resistere per esistere
ricordando Vassem
Quando sulla nostra
stampa si parla o per lo meno si parlava fino a qualche tempo fa (ora
sull'argomento c'è il silenzio) di palestinesi, le immagini che venivano fatte
apparire erano foto di giovani e ragazzi scalmanati che gettavano pietre, ogni tanto
quelle foto terribili di autobus o bar saltati in aria per colpa di un kamikaze
(anche donna) e per completare il quadro, le foto di una o due città israeliane
dove erano caduti, producendo danni, i missili di Hamas? E gli ebrei? Li si
poteva pensare come più o meno distinti signori desiderosi solo di vivere in
pace sulla terra che, dopo tanti secoli di persecuzione, erano riusciti ad
avere. E come l'avevano abbellita questa terra in parte arida: giardini, orti
lussureggianti, grandi case di pietra bianca con i tetti rossi, ideate da
architetti europei dotati di una solida preparazione urbanistica. E guardate invece
le affollate città arabe piene di traffico disordinato, di rumori e anche di
una quantità eccessiva di angoli sporchi e trasandati.
E allora val la pena di
muoversi per andare a vedere questo contrasto in una terra su cui per migliaia
di anni sono vissuti insieme pacificamente pastori e contadini, ebrei e arabi,
entrambi appartenenti a una varietà umana (voglio evitare la parola razza)
cosiddetta semita. E così siamo andati in Palestina e per quanto ci si aspettasse una situazione
niente affatto rassicurante, abbiam dovuto, forse anche a malincuore, perché si
tratta di sentimenti che incupiscono e rendono più pesante la vita, ripeto,
abbiamo dovuto far posto a un sentimento amaro e ostile che assomiglia forse
all' odio, certamente al disprezzo, quando abbiamo visto sulla strada che porta
a una scuoletta di campagna un gruppo di bambini protetti da soldati e da
volontari, perché i coloni israeliani, spesso anche donne e bambini, non
scherzano nel tirare sassi e calci nelle gambe. E non scherzano neppure nel
gettare dall'alto immondizia nelle strade dei palestinesi tanto che le buie
strade tortuose che sono i loro suq sono spesso protette da reti messe dai
soliti soldati. Succede così che i soldati sono meglio dei civili, quando questi
di civile non hanno proprio più nulla e a noi che viviamo in città tranquille,
certo un po' inquinate dal traffico, ma con le vie che s'incrociano ad angolo
retto, tutte animate da bei negozi illuminati, cosa è sembrata Hebron, una
città fra le più antiche, se non un campo di concentramento chiuso qua e là da
filo spinato e da muri che hanno mozzato le strade, da inferriate dietro cui
sono prigioniere case e persone, con molte vie un tempo animate da negozi pieni
di colori ora ridotte a una sequela di porte di ferro (qui il legno non si usa)
sprangate. Ma come fanno questi coloni europei che hanno abitato belle città d'Europa
a vivere in questo orrendo incastro di strade, di fili di ferro e di muri che
bloccano all'improvviso il passaggio, dove sono allo stesso tempo assedianti e
assediati? E' vita questa per loro? E' sufficiente sentirsi popolo eletto per
cancellare la tristezza di una vita così? Del resto foto e documentari li
mostrano aggressivi e urlanti, sicuri di non dover cedere davanti a
quell'umanità di serie B sul collo della quale posano pesantemente i piedi. E
intanto sanno che intorno alla città assediata e assetata, perché loro si
appropriano dell'acqua per quanto possono, già sta crescendo una cintura di insediamenti
che finirà per soffocare il nemico insopportabile. Perché questo è molto
evidente: gli arabi e i palestinesi in particolare sono appunto una razza
inferiore ed è giusto che se ne vadano via e si riuniscano agli altri arabi a
cui somigliano.
Le cose che abbiamo
visto sono anche molte altre e compaiono in documentari che mostrano molto
efficacemente aspetti durissimi del quotidiano, dalle lunghe soste ai ceck-point
per poter andare al posto di lavoro, alla fatica necessaria per riuscire a
raccogliere le olive della propria terra, cosa che solo la presenza dei soldati
(ancora una volta) rende possibile, sotto gli insulti e le grida isteriche di
donne e uomini che preferirebbero farle marcire tutte piuttosto che lasciarle a
quei cani di palestinesi.
Nel frattempo che fanno
quei cani di palestinesi? Devo dire che ci siamo quasi stupiti di come li
abbiamo visti al momento. Sembra che il tempo delle intifade sia passato, anche
se a noi la situazione è sembrata esplosiva, con l’avanzare continuo degli
insediamenti che si diffondono sul territorio della Cisgiordania come bubboni
di una peste nera. La parola d’ordine che abbiamo riscontrato dovunque è: resistenza
senza le armi, “resistere per esistere”. Si resiste ricostruendo (anche per tre
volte!) case distrutte che forse saranno di nuovo abbattute, lavorando i campi
sotto le ingiurie dei vicini coloni, liberando i dintorni della casa dall’immondizia
che è stata scaricata lì vicino. Ho davanti una serie di persone, di visi
giovani e determinati ma sereni, qualche volta perfino sorridenti, come il
giovane padre del villaggio di Attuani che ci raccontava mentre il bimbetto di
due anni giocava a nascondino tra le sue gambe. O il giovane di Bil’in a cui
piaceva molto parlare e rideva divertito mentre raccontava l’episodio quasi
comico di come aveva rischiato la vita, durante la lotta a oltranza per fare
arretrare il muro rubaterra a protezione di un insediamento di coloni sorto
nuovo di zecca davanti a loro. E’ in questo villaggio che sono morti in seguito
allo scoppio dei lacrimogeni due giovani, fratello e sorella, ed è sempre lì
che, sotto la pioggia dei lacrimogeni è stata posta la semplice tomba che
ricorda la morte di quel giovane, Vassem, di cui abbiamo trovato l’immagine in
varie case, accanto a molte altre foto di giovani uccisi, i martiri, come
dicono loro. Tra questi non c’è nessun kamikaze. E’ stato per noi molto
educativo l’incontro con queste persone che nella situazione drammatica in cui
si trovano hanno la forza di praticare questa scelta di compostezza e maturità
che è la resistenza non violenta.
Ci sarà una realtà
europea che voglia soffermarsi a fare una valutazione di questa situazione
secondo criteri umani? Chi ha accettato la fine del colonialismo, chi ha
considerato positiva la fine dell’apartheid in Africa in nome del rispetto dei
diritti umani non ha scampo, perché nei territori occupati molti diritti vengono
violati, prima di tutto quello della dignità della persone.
E noi che siamo stati
testimoni diretti, per nostra volontà, di questa situazione, che cosa possiamo
fare ora?
(Paola)
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