L’uomo che rivestiva le colline
Primavera d'intorno brilla nell'aria e per li campi esulta.
E' sempre un'emozione il risveglio della primavera; tanto più per chi come me ha la possibilità di godersi queste giornate di fine aprile dentro un'insenatura della valle del Casentino che sta sotto il Pratomagno, tra Raggiolo, Quota e Larniano. Si parte dal Grande Prato, ora quasi totalmente libero dalla neve, si scende verso Quota tra faggeti e abetine per arrivare ai grandi castagni e poi ai querceti. Scendendo da Quota verso Larniano si prosegue in direzione di Poppi, inconfondibile per il grande Castello dei Conti Guidi, e si passa da Rimolle: una casa colonica come le altre, bella come le altre che hanno mantenuto la loggia, l'aia e il fontanile delle vacche; diversa dalle altre perché lì ci sta Pietro; Pietro di Rimolle, appunto. E' un piacere di un genere particolare vedere i campi, i fossi, il bosco di castagni dove passa quest'uomo gentile, dalla mano d'artista, dalla parlata fluida e schietta, limpidamente toscana.
"Pietro veniva spesso alla stradina erbosa dove andavo a prendere l’acqua. Entrava nel campo e si metteva a lavorare. Tirava su i pomodori puntellandoli con dei lunghi bastoni messi a forma di piccola capanna indiana, poi zappava intorno strappando le erbacce e in ultimo apriva l’impianto di irrigazione. Allora gli spruzzatori si mettevano in funzione e una miriade di perline argentate si rovesciava sui pomodori e sulle zucche. Attraverso il tendone di pioggia lo intravedevo sarchiare più in là intorno alle file dei fagiolini, ripulire le piantine delle fragole, potare, pareggiare la terra. A volte lo trovavo già là, nel prato a destra dell’orto, che col rastrello raccoglieva mannelli di fieno fino a farne un gran fascio che poi si caricava sulle spalle. Quando andava via piccolo piccolo sotto il peso da cui spuntavano solo le gambette magre nei calzoni color foglia secca, era inevitabile pensare a scene di gnomi nel bosco, tanto più quando appariva lei, la moglie, che potrei chiamare Rosa, un tappettino di donna tutta tonda che il grembiule a quadri bianchi e neri faceva somigliare a un pallone. Insieme risalivano la stradina erbosa e sparivano tra gli alberi. Qualche volta mi avvicinavo per parlarci perché Pietro era un gran raccontatore e usava parole bellissime come ” lo sciutto” (la siccità), la lucciola (l’ulcera), le moniche, il vetrinaio (veterinario). Mi indicava nel campo l’erba medica che bisogna dare ai conigli ben asciutta perché sennò li fa gonfiare e poi si schiantano, il mentastico che si mescola in piccole quantità alle altre erbe e le rende più saporite, la capomilla che va tenuta a seccare ben bene prima di essere usata, sennò non fa bene, e via dicendo. Ascoltavo divertita. La voce abbelliva le cose con commenti gustosi e saggi; si parlava anche del passato, quando Pietro era giovane.
- Ma come mai – dicevo – a quei tempi i giovani si adattavano a farsi trovare la moglie dalla famiglia? –
- Ma che vole – ridacchiava lui – erano sempre stati dietro alla coda delle vacche, non s’arrischiavano. –
Ridevo di gusto. Anche lui rideva sornione, assestandosi il cappelluccio.
Perché vede – continuava – loro, le donne, erano più svelte.Se li sarebbero rigirati quanto volevano. Allora la famiglia cercava quelle un po’ sicure, sa, bone per la casa. -
- - E per il lavoro dei campi – aggiungevo io. E intanto vedevo questi giovanotti seduti al pascolo con le vacche intorno che annoiati masticavano fili d’erba e sognavano ragazzotte bene in carne a fargli ciao ciao e tirarsi su la sottana a scoprire i ginocchi tondi e bianchi. Ma quello che più mi innamorava di lui era il modo come ripuliva il campo intorno, raccogliendo le foglie in mucchi rotondi o in cerchi. Il campo diventava una tela da ricamo, un arazzo in cui si mescolavano il marrone, l’ocra, il verde. E se socchiudevo gli occhi, lo vedevo passare dall’uno all’altro mucchio col lungo rastrello che a un certo punto mi pareva fosse lui a portarlo e insieme perfezionavano il tondo di un cerchio, rialzavano la sommità di un mucchio, correvano a raccogliere le foglie sparse che componevano in serpentoni lunghissimi. A un certo punto mi pareva che si sollevassero da terra il rastrello e Pietro e volassero intorno a rassettare anche le colline vicine e tutto prendeva quell’aspetto ravviato e fantasioso che sapeva di bello e di incantato. Allora gli gridai:
- - Pietro, che si vede da lassù? –
- - Il mondo, il fiume, la casa con la gente che mangia, dorme e bestemmia, litiga e fa pace. –
- - E che altro? –
- - Gli uomini all’osteria, il prete nella chiesa, gli animali nei boschi che stanno caldi nelle tane, tutti intorcinati insieme, le fonticine che spingono per uscire allo scoperto, i funghi che gonfiano le gote per mettere il capo fuori, la volpe che va alle galline. – Gli gridai di scendere perché volevo vedere riflesse nei suoi occhi le cose che aveva visto da lassù. Poi capii improvvisamente che non era possibile, solo se anch’io avessi potuto salire lassù come Pietro, sarei stata in grado di vedere le cose come le vedeva lui, più belle, più tranquille, depurate da quel senso di ansia che dà l’esserci immersi e rese libere dal velo opaco che gli mettiamo addosso a forza di guardarle senza vederle. Ma a cosa attaccarmi, non avevo un rastrello come il suo né un altro strumento e il mio desiderio da solo non bastava. Mi venne in aiuto Rosa.
- - Attaccati a me, svelta – Mi attaccai al suo vestito e presto lei si alzò come un pallone leggero e si diresse verso una nuvola bianca. – Ma Pietro è là – dissi, indicando un pezzo di cielo azzurrissimo. – E noi siamo qua – fece lei, sedendosi leggera sulla nuvola. Sotto il vestito a quadrettoni, spuntava allegro il pizzo di una sottoveste arancione.
- - Voglio vedere le cose di Pietro – dissi io.
- Le nostre non sono meno belle. Guarda -. Guardai e vidi due donne che camminavano e chiacchieravano fitto fra loro, ridendo ogni tanto, vidi una ragazza che portava un bambino a cavalluccio e ogni tanto voltava gli occhi in su e lui glieli copriva con le mani, strillando ba ba ba ba e ridendo come un matto. – Le farà la pipi sul collo – mi venne da pensare. Vidi una vecchietta che annaffiava un geranio rosso fuoco e sorrideva a chi sa quale ricordo e una ragazzina bruna che nel chiuso di una stanza, dietro le persiane accostate, si guardava nuda allo specchio dell’armadio, tirandosi su i capelli neri e lucidi e facendoli poi ricadere lungo la curva dolce della schiena. Vidi, o credetti di vedere, una ragazza dal viso dolce e assorto con una lunga vestaglia celeste a pallini neri. Stava china su un lavoro di cucito. Aveva delle belle mani affusolate e la vera al dito. – Mamma – dissi d’impulso. Ma le immagini ora si confondevano le une con le altre e si allontanavano sfumando. – Aiutami, Rosa – pregai – tu che sei una donna. Non voglio perdere la mia mamma, ora che l’ho ritrovata. – Lei si stava dondolando sulla nuvola e sporgeva il viso al sole; si era anche tirata su il vestito per abbronzarsi le gambe cicciottelle. – Ma no – disse con condiscendenza – non le puoi fermare le cose, proprio non le puoi fermare. - Le cose no, ma lei sì – gridai disperata.
- Mi guardò con un occhio solo, mentre l’altro continuava imperterrito a fissare il sole. – Perché? – replicò – pretenderesti di essere felice due volte? – E con un volteggio impeccabile andò a sedersi su una nuvola più bassa."
La presentazione è di Barbabianca, la rievocazione - tra virgolette - è di Paola.
E' sempre un piacere leggerti/vi....oggi sono stato sul Falterona...con un metro di neve èra una meraviglia...A presto Guido (il pellegrino...)
RispondiEliminaIo ritorno ora - Primo Maggio - dall'Abetone.
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