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La morte nelle case di riposo.
(la prefazione e l'ultimo capitolo del bel libro di Mariella)
Questo libro racconta la storia di alcune donne che vivevano, alla fine degli anni ottanta, in una casa di riposo — anche se il termine potrebbe qui far discutere — di un piccolo paese della Toscana. Un’istituzione pubblica il cui fine dichiarato era l’accoglienza e la cura degli anziani soli, indigenti, malati, dove i livelli delle prestazioni e dei servizi erano da ritenersi — vista anche la situazione più generale — sicuramente soddisfacenti dato che vi si praticavano quelle che oggi verrebbero definite buone prassi di assistenza.
Dentro quell’istituzione io ci lavoravo come infermiera, un lavoro che avevo scelto non solo perché mi consentiva di essere economicamente indipendente, ma perché mi piaceva.
Lavoravo al piano degli anziani non autosufficienti con mansioni di assistenza diretta. Significa che, oltre a somministrare i farmaci, controllare le diete, misurare le temperature, medicare le ferite, entrando in contatto diretto con loro, li vestivo e li spogliavo, li lavavo, li imboccavo se non erano in grado di mangiare da soli, li mettevo a letto, li portavo in bagno e li accompagnavo, quando il tempo lo permetteva, a prendere una boccata d’aria.
Un lavoro facile solo in apparenza, che richiedeva competenze infermieristiche specifiche, ma anche abilità sociali ed energie psichiche e che, una volta intrapreso, ridimensionava i primi entusiasmi collocando ognuno al suo posto e dando subito una chiara idea di quella realtà.
Non era un caso che molti di noi, dopo un po’ di tempo che lavoravano lì, chiedessero di essere trasferiti. La presenza quotidiana dentro quell’istituzione — al di là delle buone intenzioni,
La morte presente
Le case di riposo son sempre l’ultima spiaggia. Tu sai che quel giorno che ti succede a te, tu sei vicino alla morte. (Ada A.)
Sono molto cambiata, non mi riconosco più. Sono diventata tesa, più nervosa di prima. Non so... O è la vita stessa che vedi qua dentro che ti fa cambiare. Tutta questa gente lasciata qui, abbandonata qui. (Bianca B.)
Sento che è il cuore che non va più. Non posso più fare niente che mi viene un affanno! E poi son vecchia, son vecchia. Mi è rimasto poco da vivere. Non è vero che mi è rimasto poco? (Ada A.)
Mi sento giorno per giorno indebolire la testa, gli occhi, non ho più voglia di far niente. L’anno scorso feci un paio di scarpine di lana ma quest’anno ho sbagliato tutto perché mi ci addormento. Non farei altro che dormire. Mi vedo che sto precipitando giorno per giorno. (Rosa R.)
Non si sa che dire, che fare, così malati. E come di aspettare la morte. (Tina T.)
Di com’è questo posto a me non me ne importa niente. Come è, è. Tanto sono qui che aspetto la morte. (Nota N.)
Tempo fa quando è morta I., era lì, così, nel letto... se ne stava là
ferma e l’infermiera diceva: “Meno male che non sente”. Ma lo diceva
lei che I. non sentiva. Non può reagire, ma sente, ascolta, capisce. E
atroce questo, non ti sembra? (Bianca B.)
Io dico che ci siamo oggi e non ci siamo domani. Bisogna pensare alla morte e non alla vita. Bisogna pensare alla morte. Sono vecchia, sono vecchia! (Zelinda Z.)
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La nuova ospite era una signora mingherlina. Era vedova, senza figli. Era di fuori con la testa per questo l’avevano messa qui al primo piano. Era gentile con tutti, si prendeva cura di tutti. L’unico suo difetto era che di notte, verso le tre o le quattro, si vestiva in silenzio e a noi che la bloccavamo nel corridoio diceva che doveva andare a casa. Aveva sistemato nell’armadio le sue scarpine da notte, lo scialle di lana, le maglie. Ho tra le mani la sua roba, che i parenti hanno lasciato per gli altri. Lei, la nuova ospite, è morta dopo soltanto un mese che era qui. Ha smesso di mangiare, non c’era verso di farle andare giù niente. La morte te la trovi davanti anche cosi in un posto rimasto vuoto che presto sarà di un altro. I miei colleghi dicono che poi si fa l’abitudine a veder morire la gente. (Diario 7 marzo)
La morte in casa di riposo non è un evento eccezionale. È così frequente e così vicina che non si può non accorgersi della sua presenza: si è costretti a pensarci, quando accanto al proprio letto, a due passi di distanza qualcuno sta morendo.
“Vedono di continuo morire persone intorno a loro”. Qualsiasi tentativo di nasconderla è inutile quando la morte avviene, come gli altri fatti della propria vita, sotto gli occhi di tutti.
Nessuno può avere un posto suo, una stanza dove stare da solo, vivere, morire e sottrarsi al doloroso, invadente spettacolo della morte degli altri.
Se si dorme proprio in quella camera, di giorno ci si può allontanare; di notte se il sonno non viene si sta a guardare il paravento verde dietro cui succede qualcosa di strano. Gli infermieri entrano ed escono, accendono la luce, parlano tra loro; a volte passa il medico, parla con i parenti, se ci sono. Impossibile dormire.
Quando uno muore noi si avvisa il becchino. Lui viene e li veste. Poi si avvisa i parenti. I parenti vengono e pigliano quello che c’è di buono da pigliare e il resto lo lasciano qui. Riportano via il morto. E basta. Gli altri anziani ci patiscono perché magari si conoscevano e poi, stando tutti insieme così, finisce che uno muore insieme agli altri. Non è che sia tanto bello (Ausiliaria).
Quando si arriva al momento decisivo, in modo improvviso o previsto, non sempre si sa bene quello che fare, per un senso di confusione e sgomento che la morte, di ogni persona e in ogni circostanza, porta con sé:
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I primi tempi perdevo la testa. Pensavo che si dovesse fare qualcosa, ma non sapevo cosa. Ho visto molta gente morire. Si guarda il respiro che si fa sempre più lento, si cambia, gli si danno le medicine e poi si aspetta. Quando siamo all’ultimo si aspetta e basta (Ausiliario).
La rassegnazione è un atteggiamento generalmente diffuso nell’istituzione: è presente negli operatori riguardo alla situazione che li riguarda, ma anche alla malattia e alla morte degli anziani e negli anziani riguardo alla loro nuova “non vita” e alla morte.
Sono cambiata, sì, sia nel fisico che nel morale. Molto sono cambiata. Ero più aperta, più espansiva quando ero fuori. Avevo le amiche e qui non ne ho, capisci? Qui mi è come passata la voglia di cercarli gli amici... mi è passata la voglia anche di vivere. (Ada A.)
Sono triste. A volte sono molto triste. Allora dico: “Basta, basta, via la tristezza, dì un rosario che ti passerà”. Prima non ero stata mai così, ma da quando son qui tutti i diavoli mi son venuti addosso. (Umberta U.)
Non parlo con nessuno delle mie cose. Lei non ci crederà, ero un carattere allegro! Tenevo banco, conversazione. Ora son diventata musona. Mi chiudo in camera. Sto lì le ore... (Vera V.)
La decisione a cui molti si sono dovuti sottomettere li porta ad un atteggiamento di rinuncia nei confronti della vita. Finiscono le aspettative, i motivi, e la vita somiglia ogni giorno di più alla morte:
Smettono di camminare, di parlare, si adagiano, addirittura non si lavano più il viso. Se non le lavi te certe persone non si laverebbero mai, non perché non ce la fanno ma perché si lasciano andare, non vogliono più fare niente per se stessi. Stanno zitti, si vede che sono amareggiati, che hanno qualcosa dentro (Ausiliaria).
Chi è costretto a venire per forza dice: ‘Ho da aspettare solo la morte’, perché non hanno scopo di niente nella vita. Cambiano... che non gli interessa più niente di loro stesse (Infermiera).
Questo senso di rassegnazione che coglie un po’ tutti riguardo al destino riservato agli anziani, è spesso sintomo di indifferenza e disimpegno oltre che di incapacità ad individuare soluzioni efficaci. Con l’affidamento all’istituzione si credono risolti per loro tutti i problemi, mentre ciò non rappresenta che un abbandono, un dimenticarli. Anche se si pensa che in fondo meglio di così non si poteva fare.
L’atteggiamento di rinuncia rispetto alla vita, che il senso di inutilità e la solitudine producono negli anziani, si accompagnano sempre all’amarezza nel constatare il generale disinteresse per la loro condizione:
Mi vedevo messa da parte, forse perché le capisco troppo in là le cose. Insomma, sono tutte uguali, quando vedono queste teste bianche, che gliene frega? Tanto, morire oggi, morire domani... Se si muore, al governo non gli pare il vero, per via delle pensioni che non ce le dà più, noi si finisce di patire, perché io piango tutti i giorni, perché non lo sopporto questo menefreghismo. (Vera V)
“Ma perché non le dà tutti i sedativi che vuole”, mi diceva la figlia di una donna ricoverata in casa di riposo mentre le spiegavo che non tutti i problemi potevano essere risolti con i farmaci, “tanto son vecchi!” Il prendere “sotto gamba” la malattia degli anziani è un atteggiamento abbastanza comune a tutti.
Gli operatori, che vivono a contatto diretto con loro, reagiscono spesso con una certa energia a questo stato di cose, perché sono dispiaciuti di vederli soffrire senza poter far niente per aiutarli e anche perché avvertono l’ingiustizia di dover subire da soli nel loro lavoro i disagi procurati dalla malattia.
E. era pieno di piaghe da decubito, è stato a letto più di un mese prima di morire. Quando si andava a girarlo, a cambiario o a medicarlo, io mi mettevo la mascherina, perché dal puzzo non ci si stava. Guarda, in quei momenti non ne puoi proprio più. E speri solo che si spicci a morire perché per te diventa una tortura, mica un lavoro (Infermiera).
Secondo alcuni operatori, gli anziani non sono tutelati a sufficienza per quanto riguarda la salute: non si fa per loro quanto e come si sarebbe fatto per “uno normale che sta male”.
I vecchi all’ospedale non li vogliono perché sono inquilini scomodi. Richiedono più assistenza e il personale spesso non ha né voglia né tempo per dargliela. L’anziano va aiutato a vestirsi lavarsi mangiare, camminare, dorme poco di notte, è noioso e fa tutto a letto. Così anche chi avrebbe bisogno di cure particolari, accertamenti, all’ospedale non ci va. Rimane qui, “tanto ‘ Se poi il ricovero viene deciso, può capitare di vederlo tornare, dimesso dopo due giorni, perché “non collabora”.
Diario 20 ottobre)
Ma i più rassegnati sono senza dubbio gli anziani stessi, perché la consapevolezza della propria condizione, del proprio stato e della mancanza di alternative non possono produrre che rassegnazione.
E perché la morte li riguarda da vicino:
A. al primo piano, sta morendo. Un paravento la divide dal resto della camera, come si usa in questi momenti. La porta è aperta sul corridoio. Sono 1e dieci di mattina, noi facciamo il nostro lavoro di routine:
gli infermieri rifanno i letti, gli ausiliari puliscono i bagni. A. è sola nella sua camera. Da diversi giorni ormai non si alimentava più, cosi si e indebolita molto e nel giro di poche ore si è andata aggravando. A turno andiamo a vederla aspettando che muoia. La terapia è sospesa, non serve più. Ossigeno non ne occorre. Inutile rilevare le frequenza del polso, il respiro, bisogna solo aspettare. Nel corridoio gli anziani siedono, in silenzio. Guardano la porta diA., qualcuno domanda di lei, ma sanno gia che non c’è niente da fare. I più comunque non sanno, non capiscono. Telefoniamo ai parenti per avvisarli, in caso volessero vederla un’ultima volta. Sono al lavoro, ci dicono di telefonare più tardi. Iniziamo a preparare tutto, per sistemare meglio possibile. Gli abiti già pronti da tempo vengono tirati fuori dall’armadio. Si prepara la barella che servirà a trasportare il corpo di A. nella piccola stanza mortuaria. Cerchiamo di tranquillizzare gli altri, di parlare sottovoce, di essere un po’ più gentili del solito, ma è proprio questo che genera allarmismo. Cerchiamo di tenere fuori dalla camera le compagne di A., costrette a subire tutta la vicenda. Sarebbe stato peggio se succedeva di notte, non si sarebbero potute allontanare. Poi una collega mi chiama. Ci siamo. Entro in fretta e la guardo. Non respira più, il suo torace non si solleva, i suoi occhi sono semichiusi, il suo volto ha il colore della cera. Mi avvicino. Le mani sono calde, ma il suo cuore è fermo. Decidiamo, come di prassi, di attendere a spostarla. Intanto per telefono avvisiamo il medico e una persona addetta alla vestizione delle salme. Più tardi mettiamo A sulla barella, la copriamo con un lenzuolo e una coperta e la portiamo via. La mia collega ed io, imbarazzate, spingiamo la barella per tutto il corridoio. Impossibile fare percorsi alternativi. Ai lati del corridoio gli anziani, seduti, guardano il nostro passaggio. Io guardo per terra. Prendiamo l’ascensore e usciamo sul piazzale esterno. Altri anziani ci guardano. Qualcuno si fa il segno della croce, qualcuno si asciuga gli occhi. Il tragitto è breve, in pochi minuti sistemiamo il corpo di A sul tavolo rigido della piccola stanza, senza arredi, vuota, con le pareti bianche. Lasciamo là i suoi vestiti e l’occorrente per sistemarla. Il nostro compito è finito. Usciamo chiudendo a chiave la porta. A. rimane là, con la sua camicia da notte rosa, il suo corpo esile.
(Diario 18 aprile)
Un giorno di gennaio è morta M.E Il ricordo di lei è rimasto in me più forte di quello per qualsiasi altra persona che ho visto morire in casa di riposo. Forse perché, a modo suo, M. era riuscita a dare poco peso alla morte, così come aveva fatto per la sua vita:
Si è sempre trascurata molto, abbiamo dovuto tenerla a letto per forza gli ultimi giorni quando proprio non ce la faceva più. Ma lei voleva uscire, voleva andare fuori ad ogni costo. Ha fatto la contadina tutta la vita, era abituata a vivere all’aperto. Non ricordo di averla mai vista in camera durante il giorno. Ora è a letto. Non chiama mai, non ha mai bisogno di niente. La sua voce diventa sempre più debole e lei sempre meno resistente. Abbiamo parlato insieme fino alla fine. Ho chiamato suo figlio che è arrivato subito. Mi ha chiamato da parte e mi ha chiesto di spiegargli. Gli ho detto che era rimasto poco tempo ormai. Lui ha alzato le spalle dispiaciuto, poi se n’è andato perché aveva da fare. Lei è rimasta sola nella camera. Ogni tanto andavo a vederla. Era come in uno strano torpore. Sapevo che mi vedeva, per questo continuavo ad andare da lei anche senza fare niente. M. è sempre stata gentile con me e per di-mostrarmi il suo affetto mi stringeva in modo un po’ rude fino a lasciarmi senza respiro. Ora mi dispiaceva che fosse così sola dentro quella stanza. Sempre più stanca, sempre più pallida. Alla fine, ha tirato fuori un filo di voce ed è riuscita a dirmi: “I vestiti non me li mandare a lavare che poi non me li ridanno... ora sto un po’ qui e mi riposo... “. (Diario 28 gennaio)
M.E è morta da sola, la sera di quello stesso giorno. Il mio turno era smontato alle due del pomeriggio. Quando sono tornata, il suo letto era vuoto e i materassi sul terrazzo a prendere aria.
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